1968: l’Unione Sovietica invadeva la Cecoslovacchia. Sarebbe passato poco tempo e un povero e dimenticato EROE, Jan PALACH, per protestare in modo non violento contro quell’invasione e riportare l’attenzione dei mondo sulla sua Patria umiliata, si bruciava vivo in piazza San Venceslao. Un gesto ben diverso da quello di una intellettualmente anonima capitana di un’ONG finanziata dalla finanza globale, nemica di ogni parvenza di civiltà e di identità.
Io, sessantottino, avevo ancora l’ingenuità di mandare il mio “richiamo d’amore”, per esempio a una meravigliosa ragazza di Scordia, alla quale resto grato per avermi dato, nonostante le mie infantili paure, la consapevolezza della nobiltà dei sentimenti puliti. Venne a trovarmi al Real Collegio Capizzi di Bronte, dove ero rinchiuso, spacciandosi per una mia parente e regalandomi una passeggiata romantica che sarà nel mio bagaglio di ricordi al momento di partire per il mio ultimo viaggio.
Le inquietudini che mi – e ci – agitavano, la smania di un protagonismo che ci era negato dai benpensanti, fra l’altro, venivano cantate da un cantante inglese, che seppe trovare la dolcezza dell’amore anche nello stupidario delle bande giovanili metropolitane.
PER MOLTI DI NOI, IL SESSANTOTTO FU UN GRIDO D’AMORE, UN BISOGNO DI RESPIRARE, UN INGANNO DI CUI APPROFITTARONO I SOLITI “FIGLI DI PAPA'”, SEMPRE PIU’ PROGESSISTI A PAROLE, SEMPRE PIU’ CONFORMISTI NELLE CARRIERE, SEMPRE PIU’ SOMIGLIANTI AI CICISBEI (IN POLITICA E NEL GIORNALISMO) NEL MOMENTO IN CUI SCOPPIO’ LA
RIVOLUZIONE FRANCESE
