Mari, Luigi – Da Magonza a Torre del Greco – storia, tecnologia poligrafica, cultura anedottica…

LE RISTAMPE

Questo libro in edizione cartacea del 1998 fu concepito in formato 16° con 220 pagine più copertina. Nel sito la versione da leggere è di 455 pagine. In questa formattazione Word, per risparmiare carta, è stato impaginato in A4. I margini di “Imposta pagina” Word sono standard: 2 cm. a sinistra, 2 cm. a destra, 2 cm. sotto. 2,5 cm. sopra. Tuttavia, prima di stampate controllare se le pagine vi risultano ben divise, specie tra i capitoli. In caso contrario provvedere a modificare qualche interlinea. Si può chiaramente impaginare in un formato diverso.
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Il libro è stato scritto e stampato di pugno dall’autore nel 1989. Dopo 13 anni è ancora attuale. Tuttavia, là dove ce n’è stato bisogno è stato apportato qualche ritocco. Noterete pure qualche precisazione N.d.r.: nota del redattore.

Luigi Mari

Da Magonza a Torre del Greco

Viaggio nelle arti grafiche con soste nel libro della vita

Un libro può essere divertente con molti errori, o può essere noiosissimo senza neanche un’assurdità.

Oliver Goldsmith

STORIA, TECNOLOGIA POLIGRAFICA, CULTURA, ANEDDOTICA, DIVAGAZIONI, PROBLEMATICHE, NELLA PLAGA VESUVIANA

La stampa offset e quella rotocalco, non altro che l’evoluzione di due antiche tecniche in letargo: la litografia e la calcografia, hanno quasi soppiantato la scoperta gutenberghiana.l’informatica, applicata ai sistemi planografici, trionfa vittoriosa, ma preclude il lavoro a misura d’uomo. II cervello umano viene in buona parte rimpiazzato. In più le macchine-robot non sbagliano quasi mai, non si angosciano, né pero, sanno amare. Lavoratore comune non servi più, altri uomini fabbricano quanti ne vuoi di te, meno costosi, per nulla esigenti in materia di diritti. Sventurati artigiani in genere; bottegai tipografi campani, sopravviverete sostenuti solo dalla poesia del piombo fuso e dal nostrano proverbiale nutrimento d’aria, sole e canzoni? Care botteghe fuligginose, adattate negli stambugi nascosti dei dedali mai risanati della Napoli povera di delbalziana memoria, o nei tuguri addossati nelle cupe traverse dei numerosi centri urbani abbarbicati alle pendici del Vesuvio, o quelli che vanno da Capo Miseno alla Punta della Campanella, o altri ancora dell’entroterra, fino al Casertano, all’Avellinese, al Beneventano, addio! E’ destino che il popolo, altro che sovrano, in ogni epoca debba subire nuovi malesseri? II benessere edonistico dà l’illusione di una migliore qualità della vita; in realtà il consumismo coercizzato dalla «grancassa», alla quale le arti grafiche si asservono in misura massiccia, risponde essenzialmente ad una inferma domanda di dipendenza oggettuale-alimentare. Ma il vero benessere, l’amore, cioè la salute mentale, quale società, quale reame, quale cultura l’ha mai garantita o la garantirà mai? II domani, intanto, viene deciso prima sulle nostre ginocchia di madri, dalle nostre figure di padri. Possibile che l’uomo non trovi una strada finalmente idonea per scardinare l’antica angoscia del suo insoluto esistenziale, vale a dire la devastante consapevolezza del proprio destino di mortale, narcotizzata, invece, con reazioni difensive diversificate e contrapposte, dall’annichilimento mistico alla criminalità?

A tutti gli autori mancati, colti o analfabeti,
e a tutti i tipografi del mondo, compresi gli
operatori offset e rotocalco, specie del Nord
Italia, verso cui, nel lavoro, solo apparentemente,
dò l’impressione di non nutrire molta empatia,
un forte abbraccio.

INDICE

Premessa
Introduzione

CAP. I
LE ORIGINI DELLA SCRITTURA
Osservazioni preliminari
La scrittura
L’origine dell’alfabeto e i napoletani
L’alfabeto e il popolo vesuviano
L’alfabeto
L’Alfabeto in crisi Il piombo fuso in crisi
Napoletanita in crisi?
Alfabeto, grafia e stili ieri e oggi
Tipi di scrittura Dallo stemma all’ideogramma nella grafica

CAP. II
GLI AMANUENSI E LA STAMPA A CARATTERI MOBILI

Lo scriptorum

Non di solo amanuense

Se Gutenberg non fosse nato

Ma Gutenberg fu I caratteri di piombo e il vecchio «padrone»

Breve panoramica sulla diffusione della stampa nel 1500 .

CAP. III
VEICOLI DI STAMPA PARALLELI AL PIOMBO E LE NUOVE SCOPERTE

I primi «stampati »: xilografia, calcografia, acquaforte

Il proto Nicola

Le nuove scoperte

La meccanizzazione della stampa

Le legature aldine

La contraffazione Scarafone, contraffattore per amore

CAP. IV
MATERIALE TIPOGRAFICO E PROGETTAZIONE

La cultura napoletana alle origini

Il tipografo vecchia maniera I caratteri di piombo fuso stampano 1’ultimo cuore di Napoli

La Linotype

Mastro Luigi Ficasecca

La progettazione Le arti grafiche (linfa della vecchia Napoli)

Il lavoro delle botteghe La cultura napoletana nel medioevo amanuense

Composizione tipografica in pratica

CAP. V
GLI STAMPATI TIPOGRAFICI

I lavori commerciali del popolo vesuviano Gli stampati «della strada»

Gli stampati moderni

Le pubblicazioni artigianali

Un tipografo di campagna

I giornali artigianali locali
Le mattizie di bottega

CAP. VI
AL DI LA’ DEI CARATTERI MOBILI

Giovanni Paperino, tipografo sventurato

Il cliché di zinco

Il retino

I tipografi dipendenti nel Napoletano

Giorgio, avanguardista autentico La stampa di foto a colori

La moda offset

Cenni sul rotocalco

La cultura medioevale all’apice dei codex e qualche divagazione

La serigrafia

Totonno pezze ’nculo e Vicienzo piere pe’ tterra

La flessografia

Le stereotipie Paolo Fringuelli, giornalista sui generis

CAP. VII
LA CARTA E GLI INCHIOSTRI

La carta

La fabbricazione della carta

I tipi di carta

Mario Esposito, il Robespierre della carta

Caratteristiche cartacee

La cultura napoletana prima di Gutenberg

Inchiostri grafici e loro uso

Io, garzone tipografo

CAP. VIII
I VARI SISTEMI DI STAMPA VISTI DA VICINO

La stampa tipografica

Artigianato obsoleto

Le rotative stereotipiche

La cultura napoletana ai tempi di Gutenberg

Litografia, madre del sistema offset

Le macchine offset

L’offset asettica

Il procedimento offset

Le rotative offset Il sistema rotocalco e lo snob

Le macchine rotocalco Rotocalco, ottimo business

CAP. IX
I VEICOLI DI STAMPA MINORI

La stampa flessografica Le macchine flessografiche

Il tipografo artigiano e 1’avventore La serigrafia nel suo largo uso

La stampa nel secolo dei lumi napoletano Macchine per la stampa serigrafica in piano

L’oggettistica serigrafica nel caratteriale vesuviano

Le macchine per la stampa di oggetti

La stampa serigrafica
La cartaria Genova

CAP. X
L’INDUSTRIA GRAFICA EDITORIALE

Osservazioni preliminari

Arturo, tipografo erudito

Le nuove tecniche

Progettazione grafica moderna

Il manifesto

La cultura napoletana in piena era della carta

Il prezzo del progresso

Il sogno del giornalismo

Il concetto dell’amore, tema centrale della letteratura

La pubblicità su scala nazionale

CAP. XI
LAVORAZION1 AFFINI ALLE ARTI GRAFICHE

La legatoria

La stampa a caldo

Totonno pallappese, tipografo iellato

La cartotecnica

Le invenzioni… culturali

I timbri

Le targhe

Il linguaggio oscuro nella letteratura

CONCLUSIONE
BIBLIOGRAFIA

RIFLESSIONE

II libro, a braccetto con l’evoluzione della stampa, ha raggiunto l’apice dell’affermazione nel secondo dopoguerra. Adulto ed insostituibile strumento di diffusione della cultura, è invecchiato dietro i concorrenti mass-media di natura elettronica. Nella sua obsolescenza rimane un mezzo comunicativo a priorità passiva. Tutti possono esprimersi attraverso il cinema domestico, il teatrino rionale, le riunioni scolastiche e via dicendo; ma, allo stato, rimane proporzionalmente esiguo il numero di autori, rispetto ai potenziali cinque miliardi di lettori. Quando il capo diventa canuto o glabro, ogni uomo si ritrova nello stadio della Recherche proustiana, con un vulcano di reminiscenze che spingono in superficie. Grande stimolo creativo ha la componente nostalgica che favorisce le scaturigini di tutti i libri di memorie. In fondo che cos’è la nostalgia se non l’elegiaca malinconia relativa all’insoluto esistenziale per l’avanzare inesorabile della senilità e la prossimità irreversibile del decesso?. In pratica ci si rammarica perché si rivorrebbe la giovinezza più del periodo in esso vissuta. Non vi è dubbio che tutti gli esseri cogitanti, di ogni rango, fino a quello tribale, custodiscono dentro di se esperienze inedite ed originali. Molti autori antichi sono passati alla storia sol perché rivelati da un lavoro di ermeneutica, pur componendo zavorra contenutistica ed estetica. II letterato moderno insiste sul dottrinario, sul purismo, emarginando l’espressione popolare. Dopo Croce vige il terrore della forma. II libro ritorna lo strumento di pochi iniziati che hanno finito per leggersi tra di loro, con tutto il rispetto per le loro opere, spesso capolavori. Questo lavoro è dedicato a tutti gli autori mancati, eruditi o mediocri, vittime di una sorte ingrata, che non li ha voluti non già filosofi, scrittori o poeti di professione, ma nemmeno modesti bottegai tipografi, come il sottoscritto.

Luigi Mari

PREMESSA

Tra i miei sogni nel cassetto c’è stato sempre il desiderio di cavar fuori: un manuale divulgativo, casareccio sulle Arti Grafiche; un libello sui sentimenti umani; una trattazione socio-ambientale sulla tipografia campana; un revival sulla cultura napoletana strettamente connessa all’arte scrittoria, prima, alla stampa tipografica, poi. Troppo dispendioso per un bottegaio tipografo, anche se autoeditore, il quale, infatti, oltre a rimetterci fatica, carta ed inchiostro, nemmeno spera riconoscimenti e plausi, visto il disinteresse generale per certe iniziative, quando vengono proposte da illustri sconosciuti. Giocoforza ho ripiegato con un solo tomo. Che Dio mi guardi almeno dalla lapidazione tramite ortaggi! Ed a proposito di certe espressioni retoriche o banali, non esclusi anacoluti voluti, nel testo, che per lo più sfoggia dottrinarismi settoriali e sforzi dialettici, se ne noterà una presenza frequente, allo scopo di mettere a cimento la seriosità di certa analisi scelta letteraria sostenuta da alcuni sedicenti scrittori, come me non professionisti. Non rinuncio, quindi, al buon umore, che si coglie cosi bene, sotto il Vesuvio, nel doppio senso erotico, accostandomi talvolta ad un Henry Miller o a un Gide. II lavoro, fuori dall’ossatura tecnica, è pregno di argomenti sin troppo seri; è bene che di tanto in tanto la bilancia dello Eros-Thanatos penda sull’istinto di vita. Riguardo il Thanatos, fa eco, in alcuni punti della parte letteraria, l’assunto dello studio sull’insoluto esistenziale magistralmente esposto dal geniale studioso Luigi De Marchi nel suo favoloso libro «Scimmietta ti amo»; teoria che, secondo me, rappresenta l’unica, vera chiave per accedere nell’oscurità dell’origine dei malesseri dell’umanità. Senza la consultazione dei libri citati in bibliografia il testo che segue avrebbe presentato delle lacune per quanto riguarda i dati storici e biografici dei personaggi, e le notizie circa le innovazioni e le avanguardie tecniche sconosciute ad un modesto bottegaio tipografo, per quanto erudito possa ostentare d’essere, e per quanta esperienza diretta possa accumulare nell’autarchia del negozio e dai contatti saltuari con l’ambiente industriale settoriale locale. Le compulsazioni sono passate, comunque, sotto un senso critico personale, il meno possibile pedisseque. Ho creduto, con questa piccola fatica, dalla penna alla legatura del tomo, lanciare un granello d’amore per le arti grafiche nel mare del sociale, data l’esclusione dello scopo di lucro. Senza dubbio vi sarà chi non riuscirà a cogliere il significato traslato del tema principale postulato ripetitivamente nel corso del lavoro. Penserà, costui, che io aneli il riflusso delle carrozzelle ed il ritorno dei focolari con gli alari arrugginiti, a causa, eventualmente, del mio acutizzarsi caratteriale della componente nostalgica. II tema ricorrente nel lavoro, infatti, e un antiprogressismo ostinato, a difesa delle arti applicate a misura d’uomo. So benissimo che se le arti grafiche non avessero avuto lo sviluppo massiccio e repentino in atto, anche dietro migliaia di posti di lavoro (il che non avrebbe guastato), non si sarebbe potuto certo tener testa alla massiccia domanda relativa al megaprogresso in stretta connessione con l’irrefrenabile sviluppo demografico planetario. II problema sta altrove. Ho utilizzato le arti grafiche quale attività umana creativa, come paradigma di tutte le attività catartiche affini, sottolineando l’estrema, nociva industrializzazione di esse, dietro il paravento delle necessità produttive, non solo, ma soprattutto denunciando la perniciosa sovrapproduttività quando questa intacca l’equilibrio psicologico generale dietro il meccanismo infermo della dipendenza consumistica. La natura dell’uomo vuole che un maggiore rilassamento del già preistorico insoluto esistenziale avvenga più nella fase di desiderio che nell’appagamento totale e ripetitivo che presto porta a spossamento e saturazione. La qualità della vita non si misura con gli eccessi quantitativi oggettuali, con il traguardo del possesso, ma con idealismi astratti, come, ad esempio, la realizzazione personale attraverso il lavoro specializzato, fuori dalle corse spasmodiche nel solco del potere che non approdano a nulla di veramente salutare se non all’illusione di un traguardo pari a quello che s’illude di raggiungere chi vuole spegnere il fuoco con la benzina. Affatto semplicisticamente Leopardi recitava in chiave retorica: I fanciulli trovano il tutto nel nulla, gli adulti il nulla nel tutto. Se no come si giustifica la proverbiale solitudine dei ricchi, dei re, dei boss, nel ristretto, squallido ambito elitario asettico, dove aleggia sempre il timore della detronizzazione, quindi l’ossessione della perdita di quello specioso sostegno psichico anti insoluto esistenziale, cosi faticosamente e quasi sempre non molto onestamente accaparrato. Antiprogressista sì, quando scopro tangibilmente che molti rimedi sono risultati peggiori dei mali.

INTRODUZIONE

Nel 1922 usci la prima edizione del famoso romanzo “Ulisse” di James Joyce. II libro, come molti sanno, e un po’ il capostipite della letteratura moderna. A parte la profonda umanità dell’opera, la sperimentazione prosastica poliedrica, la trovata del dialogo interiore, ecc., l’opera eccelle per la totale libertà espressiva, riformando, così, i canoni della prosa classica. La trasgressione dei moduli prestabiliti, in una parola il desueto, vale a dire l’inedito, si affaccia di volta in volta col mutare delle standardizzazioni epocali. Opere zibaldoniche ed eterogenee si ricordano sin dai greci. Nella Commedia dell’Arte, ad esempio, si recitava «a soggetto». I miei torresi hanno sperimentato spesso il canovaccio libero dei ruoli di Razullo e Sarchiapone nell’opera in vernacolo di Antonio Petrucci, alias Casimiro Ruggero Ugone. «La Cantata dei Pastori» viene ancora rappresentata a iosa nel Napoletano grazie proprio alla trasgressione di scaletta prevista. II Decadentismo, visto come radicale sovversione dei movimenti etico-culturali del passato, ci ha spinti metodicamente a trasgredire con progressive riforme millenarismi di cultura stagnante di stampo messianico sia politico che religioso. A questo rinnovamento planetario hanno contribuito le scienze positive e le strabilianti scoperte, tutte appannaggio del mondo imperialista e pragmatico. Come Freud e Nietzsche hanno seriamente scardinato o quanto meno messo in discussione i dogmi politico-religiosi, cosi Croce e Joyce, ciascuno a modo proprio, tra gli altri, hanno sovvertito retorica e pedanteria letteraria. In questo clima d’avanguardismo ancora in fase di assestamento, stendo queste pagine, a verso sciolto, nell’ibrido tecnica-saggistica-narrativa, ma, lo dico subito: senza nessuna ambizione dottrinaria. Un manuale per arti grafiche frammisto d’empirismo di bottega notiziole libresche e aneddoti anche di prima mano. Nel peggiore dei casi ponete che vi siate messi ad ascoltare le ciance di un comune bottegaio tipografo alle falde del Vesuvio. E’ probabile che questo lavoro, come tutti quelli non allineati nelle fasce regolari di distribuzione, finirà sulle bancarelle dei buzzurri convertito in tanti bei coni di carta. Cosa volete, questi sono i sospetti miei e di tutti gli esordienti in materia scrittoria che si accingono ad adoperare ferri del mestiere altrui. Cimentarmi, cioè, a trattare una buona messe di argomenti, peraltro eterogenei, a prescindere da quelli strettamente legati alla mia professione. Spero proprio che ciò non suggerisca un sentore di falsa modestia, un mettere, cioè, le mani avanti a salvaguardia non già di riconoscimenti e plausi, ma per scongiurare eventuali lacune o incongruenze. A ciò sarebbe bastata la dichiarazione di non aver seguito studi regolari perché in solo possesso della licenza elementare. Ma grazie all’affermazione di molti intellettuali autodidatti del nostro secolo questo conta poco: (vedi Moravia, Roberto Bracco, ecc.). D’altra parte un lavoro di compulsazione e di stilatura, nonché di composizione tipografica e di stampa, eseguito nei ritagli di tempo, con l’assenza di limature e rifacimenti, non può ambire che ad un po’ di riconoscenza e di affetto specie dall’uomo della strada, il maggiore utilizzatore di stampati tipografici artigianali. Spero, a proposito, che non venga in mente a nessuno di sospettare che lo scopo recondito di questa modesta fatica sia quello di strumentalizzare il testo a mo’ di materiale promozionale a vantaggio della mia tapina bottega artigiana di Via Purgatorio, vista la frequenza con cui la cito nel corso della stesura. Non solo sono ostile all’aspirazione non dico plutocratica, ma nemmeno altoborghese, e non desidero incrementare di solo mille lire il mio minuscolo fatturato. Oggi, e specie nel nostro Sud, ci vuole ben altro per incrementare le attività, altro che ciarle stampate. Le cause che devitalizzano lo sviluppo economico del Meridione sono annose e ben note. E’ superfluo reiterare ancora la questione meridionale mai risolta e i diabolici nord che vogliono sempre qualche sud sottomesso. Ma lasciamo ad altra sede queste considerazioni che ormai sanno di rancido, sebbene sia lapalissiano che il potere si impugna più con le caustiche leggi del Pentateuco, ad esempio, che con i melici ed annichilanti Vangeli sinottici, cioè con la morale, ma non attraverso la morale. Comunque alcune osservazioni apparentemente di stampo politico sono di natura psicospeculativa. Anche se tutto il pensiero umano, in fondo, acquista natura politica quando postulato con ardore. Nuovi studi di psicologia confermano l’utopia circa il beneficio che le idee sane, ma corporativizzate, possano lasciar godere i popoli. Anche la stampa è stata, per oltre tre secoli dalla sua invenzione, essenzialmente uno strumento politico-religioso. Dal XV secolo in poi vi sono stati riformismi e sovversivismi lenti, ma progressivi, che hanno deviato a mano a mano “l’arte nera” da monopoli stagnanti. Quando si parla di alfabeto e di stampa è inevitabile, tra l’altro, fare riferimento all’arte, quindi alla letteratura, nonché alla scienza e, perché no, al business, in più alla vita interiore dell’uomo e alle complesse manifestazioni dello spirito. Mai più di oggi l’alfabeto e la stampa vengono adoperati come strumento di comunicazione per ogni genere di attività umana. Mi consolo, quindi, di non rischiare mai il «fuori tema». Vista la varietà contenutistica di questo lavoro non posso sottacere che, al termine di una lettura, come dire, promiscua, ibrida e frammentaria, tra voli pindarici ed elucubrazioni, il lettore sarà consapevole di non aver assimilato che, essenzialmente, le nozioni tecniche settoriali, e che il contenuto di contorno, mi auguro almeno di forma gradevole, si riallacci inevitabilmente a schemi narrativi e saggistici consueti. Quindi non dirò niente di nuovo e non verrò filosoficamente a capo di nulla, come accade sempre a chi si ostina di coinvolgere gli altri nelle proprie idee, obliando la certezza palese che tutto già dissero i greci e i latini. Eppure si ha l’impressione che ogni libro, per quanto elementare sia, apra nuovi spunti, che in realtà non sono altro che nuovi nodi, perché le cellule del pensiero si eccitino all’infinito. Tutto sommato, voglio dire, i discorsi tecnici hanno la prerogativa che si possono concludere. Mai nessuna teoria speculativa ha mai risposto, non dico concretamente, ma almeno razionalmente, agli interrogativi degli uomini, ma ha sempre lasciato partorirne altri a quelli già in proponimento.

Un’altra doverosa osservazione da formulare è quella che non intendo affatto salire, con questo scritto, sulla cattedra dell’erudizione, ostentando priorità professionale tecnica teorica nei confronti dei colleghi tipografi artigiani di Torre del Greco e della Campania tutta; davvero non desidero sminuire l’operato di chicchessia. Ciascun operatore di arti applicate, al di là della erudizione teorica, ha tanto da insegnare agli altri. Non venga, questa, interpretata come una nota semplicistica o di comodo. I fastigi del successo non mi allettano: “successo”, secondo il mio ordine d’idee è solo il participio passato del verbo “succedere”, in primo luogo perché sono per natura schivo e riservato, in secondo luogo perché il successo e la priorità dottrinaria hanno come prerogative la sopraffazione nella quasi totalità dei casi. Vadano a farsi fregare, una volta tanto, l’antagonismo, la gelosia di mestiere e l’esoterismo artigianale che affonda le sue radici nel Medioevo.

La scoperta della stampa a caratteri mobili, avvenuta nel 1450 segnò una data importante nella storia, perché rappresenta l’inizio della grande evoluzione tecnica del genere umano, non solo, ma costituì la nascita del più grande strumento di diffusione della cultura, la quale, un tempo, era retaggio di pochi iniziati. Diffondere la cultura in maniera capillare lungo tutto il tessuto sociale significa raggiungere il crinale della civiltà, ma non, forse, del benessere, perché la cultura divulgata vuol dire pure aprire gli occhi alle masse sull’ingiustizia sociale e sulla ricorrente condizione di pauperismo del popolo, non già più predestinata dalla natura o dal fato, ma arbitraria ed imposta. II proletario fino al piccolo borghese veniva in passato sostenuto psicologicamente dalla suggestione della fedeltà doverosa alla Patria e dalla devozione irreversibile al Padreterno. La diffusione massiccia della stampa, prima, i mass-media teleiconografici, poi, hanno distrutto questi miti palliativi ma necessari, come la morfina contro i mali inguaribili, sostituendoli con altri più speciosi ed effimeri quali gli «dei» dello sport e le stelle dello spettacolo.

L’Umanesimo, il Rinascimento e l’Illuminismo hanno ben usufruito dei rudimentali caratteri mobili e del famigerato torchio. Solo nel 1500 vi fu una profonda trasformazione per l’avanzare quasi contemporaneo di varie nuove tecnologie, atte a trasformare la «scriptura artificialiter» in imprevedibili tecniche parallele, fino a divenire strumenti da multinazionale. II trionfo della meccanica relativa alle arti grafiche perdurava fino al secondo dopoguerra per oltre un secolo. Fino agli anni cinquanta tutto si svolgeva nella dimensione della meccanica più evoluta. Gli automatismi costituivano il complemento alla necessità umana di operare. La presenza fisica, tattile, epidermica e olfattiva dell’uomo era ancora indispensabile, passo passo nelle sia pur lente fasi di lavorazione. La cibernetica, nell’era atomica, preclude all’uomo questa benefica partecipazione emotiva al lavoro ai fini della sua realizzazione. I detentori del potere vengono sostenuti dal «maneggio», gli intellettuali dall’onanismo cogitale, le donne dal ciclo mestruale e dalla maternità, e l’uomo comune? La sua personalità veniva sorretta con la partecipazione diretta ed emotiva al lavoro a misura d’uomo e dalle rasserenanti suggestioni mistiche, quali palliativi reattivo-difensivi contro l’insoluto esistenziale. Caduti i sostegni religiosi di carattere salvifico post-mortale e quelli ideologici politici, fino a quello social-comunista, l’uomo si vede inesorabilmente sottrarre pure la realizzazione nel lavoro dai robot. E non dimentichiamo che l’uomo comune costituisce la massiccia percentuale della massa umana planetaria. II mondo occidentale, in pieno periodo umanistico, lontanissimo dalla follia tecnologica dei tempi nostri, accolse con perplessità l’invenzione dei «caratteri artificiali». L’intellighentzia del momento era presa dallo spolverìo del classicismo antico. Si era ancora avviluppati anima e corpo sotto la gabbana di Nostra Madre Chiesa. Cosi tutti gli scienziati, gli scopritori o comunque neofiti e neofili venivano marchiati spesso di eresia. Solo qualche secolo più avanti, dissipate le perplessità e scongiurate le probabili insidie, si favori la diffusione dell’«arte nera», forse perché insorgevano nuovi pericoli, come le teorie galileiane. Fa d’uopo puntualizzare che tutte le osservazioni formulate lungo questo lavoro circa la Chiesa Cattolica e le religioni in genere hanno carattere storiografico. Se errori o ingiustizie sono stati commessi dalle istituzioni religiose essi sono da imputare solo agli uomini, nella loro fragilità e, talvolta, infermità, che scatenano spesso atteggiamenti reattivo-difensivi sia di totale passività che di estrema aggressività. La realtà transumanica del divino rimane massiccia ed inesplicabile, infinita ed inalterata rispetto a tutte le teorie e le opinioni umane.

Nel XV secolo la Chiesa Cattolica subì la batosta della Riforma. Allora, più che mai, doveva tenere ben saldo nelle mani lo strumento della scrittura. In Italia erano numerose le officine scrittorie dei monaci amanuensi. All’estero l’invenzione fu favorita già dall’inizio da Lutero, con la traduzione della Bibbia in tedesco, e da tutti coloro che postulavano la Teoria della Grazia. Intanto da noi la lingua italiana era ancora indefinita. All’estero le lingue nazionali si diffusero in epoche antecedenti la scoperta della stampa. In Italia solo nel 1887 la famosa legge Coppino volle l’istruzione obbligatoria. Fino all’unità d’Italia del 1861 il nostro popolo parlava esclusivamente il dialetto regionale. La storia ci insegna che su 25.000.000 di italiani solo un quinto conosceva la lingua nazionale. Ma nel 1940 l’analfabetismo in Italia era ridotto alla misura del 20%.
Lo sviluppo della stampa viene su su a braccetto con la cultura. II popolo italiano, circa la stampa, quindi, ha da poco imparato a leggere, e continua a leggere poco rispetto agli altri popoli occidentali, pur vantando il genio dell’arte, della scienza e della letteratura, nonché dell’editoria veneziana delle origini.

In Italia la punta massima dell’istruzione si è avuta, si può dire, ai giorni nostri, poiché solo nel 1962 la scuola divenne obbligatoria fino ai 14 anni. II boom economico degli anni ’60 rappresentò, per cosi dire, la fissione culturale di massa. Da allora le Università hanno brulicato di studenti. Oggi un italiano su tre adopera l’alfabeto o i numeri come ausilio alla professione. Anche lo Stivale, in questo passato prossimo, usufruì delle più avanzate tecnologie relative alle arti grafiche. La stampa editoriale ebbe il massimo consenso che la storia ricordi, in fatto di produzione. Negli anni passati venivano impresse molteplici serie di collane economiche. Una vera esplosione di carta stampata. La liberalizzazione della radio-teleiconografia privata e lo sviluppo repentino dell’informatica hanno minacciato seriamente l’editoria del settore librario di carattere divulgativo. Gli imprenditori, così, hanno dovuto convertirsi alla rotocalcografia d’informazione e alla produzione dei volumi arredo a priorità iconografica, adatti ad una società consumistica, per la gioia dei bibliomani, inorgogliti di possedere migliaia di dispense legate in falsa bazzana, fregiate con prestigiose impressioni in oro, rivestite da policrome e arredanti sovraccoperte. La letteratura propriamente detta ritorna nelle sole orbite degli addetti ai lavori. Data la concentrazione delle officine editoriali del Nord Italia, nel nostro Sud la crisi e più sentita dai librai che dai tipografi. Giocoforza, le arti grafiche si sono adeguate alle leggi di mercato. La espressività peculiare dell’alfabeto soccombe al mezzo iconografico verista e pragmatico. Inoltre, negli ultimi decenni si è avuto un incremento notevole degli stampati relativi alla società consumistica circa la massiccia esplosione di prodotti preconfezionati. Basti pensare che le salumerie o le farmacie, ad esempio, vendono il trenta per cento di materiale grafico avviluppato intorno a tutti i prodotti. Anche in Italia si riesce a vendere tutto in un astuccio policromo, specie le porcherie; almeno fossero solo sostanze inerti da placebo per le terapie cieca e doppiocieca… In più, su binario parallelo, marcia la grafica relativa all’amministrazione pubblica e privata fino alla moderna modulistica continua.

Come la pubblicità sconfina nell’arte, così questo dirottamento delle arti grafiche nulla toglie, nel suo aspetto commerciale esasperato, all’arte applicata in sé ed al suo fascino primitivo, a prescindere dalla asetticità delle moderne tecnologie. Pur se, come accadde per i prototipografi, le crisi economiche o i problemi di sovrapproduzione cagionano cattiva qualità del prodotto. In queste transizioni sussiste l’imperizia di operatori inesperti ed improvvisati. Negli anni 60, ad esempio, si verifico in Campania un fenomeno per altro prevedibile, che ha trasformato la struttura gestionale delle arti grafiche regionale. Una vertenza sindacale oggi, una domani… fino a che diverse industrie (avvezze a canoni gestionali, come dire, premarxiani) hanno chiuso i battenti. In simultanea molte navi transoceaniche provviste di tipografia cadevano in disarmo perché sostituite dagli aeromobili. Molti tipografi (buona parte della mia Torre del Greco) hanno dovuto ripiegare con la mini imprenditoria artigianale. Col beneficio delle liquidazioni, gonfiate dalle rivendicazioni sindacali, molti operatori del settore hanno aperto bottega in tutto il territorio campano. Questa pluralità gestionale è stata altresì promossa e caldeggiata dall’incremento di strutture industriali convertite alle nuove tecnologie offset e rotocalco, nonché flessografia, serigrafia, ecc., che hanno lasciato abbondare sul mercato dell’usato centinaia di migliaia di macchine tipografiche propriamente dette, cioè relative alla stampa tradizionale utilizzante i famosi caratteri di piombo monotipici o quelli di volta in volta fondibili: i linotipici. Equipaggiamenti senza dubbio obsoleti, ma sempre efficienti ed economici, di disponibilità artigianale poliedrica perché duttili ad una maggiore manipolazione meccanica e ad un superiore adattamento alla varietà dei lavori commerciali di spicciolame. L’esplosione numerica delle botteghe tipografiche ha fatto estendere l’offerta a dismisura con la conseguente battaglia concorrenziale che presume lavoro scadente e conseguente dequalificazione professionale. La discutibile qualità delle prestazioni, però, sembra non pregiudicare le esigenze della domanda, in primo luogo perché alcune amministrazioni pubbliche e private alimentano il fenomeno della sperequazione imprenditoriale privilegiando alcune ditte talvolta anche per motivi di peculato; in secondo luogo i lavori commerciali di uso domestico commissionati dal cliente comune e offerti a costi bassi, lasciano chiudere un occhio sulla qualità e in qualche caso tutti e due, visto certa porcheria stampata che si vede talvolta in giro.
II popolo partenopeo vive in maggioranza nella dimensione dello stipendio, o del sottostipendio o del nullastipendio, quindi si adatta a certi compromessi. A prescindere da ogni digressione, il mondo della stampa conserva il suo fascino come il paese di Alice, nel suo aspetto esoterico ed impenetrabile. II progresso, per giunta, ha convertito il calore dei mezzi tradizionali della stampa vecchia maniera con sistemi computerizzati freddi e asettici, che adottano una creatività ricca di effetti, ma precostruita e ripetitiva. E guarda caso nel gergo tecnico si dice: vecchio sistema a caldo e nuovo sistema a freddo. So di apparire antiprogressista per non dire misoneista o neofobo, non posso fare a meno, però, di denunciare emblematicamente questo radicale sovvertimento della tecnologia poligrafica come paradigma negativo di tutte le tecnologie robotiche che precludono il lavoro a misura d’uomo, fatto, per dirla in chiave retorica, col braccio, con la mente e col cuore.
Quando si argomenta sul sociale dell’uomo involontariamente si fa politica, specie secondo la forma mentis degli addetti ai lavori. Se cambiamo l’ottica, però, noteremo che diverse considerazioni, lungo questo lavoro, sono apartitiche, formulate solo sotto la luce psicosociale. Non si riscontrano difetti o colpe dentro le ideologie, ma solo nell’uomo. II pensiero è analisi scelta, l’azione è inesorabile. Inottemperanze, prevaricazioni e nefandezze sono imputabili all’infermità esistenziale dell’uomo, alla sua angoscia di mortale, e al conseguente timore della detronizzazione. I regimi operanti sono sempre sotto accusa dietro l’obliterazione dei terrifici malesseri del passato storico. II flemmone, comunque, e l’elaborazione culturale dell’idea di potere, e non l’ideologia che esso asserve. II potere, il più antico e diffuso tentativo dell’uomo di esorcizzare l’angoscia relativa al suo destino di mortale, col dubbio inconscio di una probabile assenza salvifica. Oggi il popolo ricusa, o quanto meno mette in discussione, i dogmi e gli assiomi millenari relativi agli ideali politico-religiosi, sotto il lucore della pluralità d’informazione. Tutti sanno, oramai, che la libertà, la giustizia, l’uguaglianza, la perequazione, sono utopie.
Ah, questo libro anomalo, che ora si eleva, poco dopo si sgonfia. Dal dottrinario assiomatico cala nella mediocrità e nell’incertezza, poi rasenta il banale, ma soprattutto talvolta si contraddice. Quale immagine speculare del mezzo scrittorio di tutti i tempi. La contraddizione e l’uomo autentico, allo stato naturale, quello che non prende posizioni perché sente che la verità e utopia, cioè lo sforzo faticoso e disperato dell’uomo nel tentare di risolvere infruttuosamente l’insoluto esistenziale.
(L’autore)

L’eterno progresso spirituale non ha niente da vedere
con la volgare ricerca del piacere e della felicità, tanto
che si potrebbe del pari, se cosi piacesse, definirlo un
progresso nel sempre più alto e più complesso dolore umano.

«La storia come pensiero e azione» Benedetto Croce

CAP. I


LE ORIGINI DELLA SCRITTURA

Achille esiste soltanto grazie ad Omero.
Togliete dal mondo l’arte di scrivere
e probabilmente togliete la gloria.

«I Natchez» Chateaubriand

OSSERVAZIONI PRELIMINARI

L’uomo moderno si sottopone a molti tipi di dipendenza di stampo psichico. A prescindere da quella esiziale, di moda, peraltro sempre esistita, ma oggi diffusa per motivi nefandi di lucro: la tossicodipendenza, vi sono droghe legali quanto il tabacco e l’alcool, ma che non si assumono ne per via gastroenterica, né per quella parenterale: la radioteleiconografia e la rotocalcografia. Pochi sanno che vi sona individui, specie del sesso debole (si fa per dire) che sperperano un terzo dello stipendio in edicola perché attratti dall’iconografia prioritaria relativa alle immagini del pettegolezzo di cronaca, del fotoromanzo, oramai tetracromico anch’esso, del fumetto, delle raccolte, degli autoadesivi, delle riviste su ogni argomento, ecc. E ve ne sono di edicole, credete, nella mia terra, in quel contesto geografico detto: cintura vesuviana, alias la Shangai d’Italia, in fatto di densità di mortali.
Il mio popolo, (specie le donne e i giovani), quando cade in overdose televisiva, preferisce l’edicola alla libreria che abbonda di caterve di tomi per lo più noiosi ed astrusi o, nel migliore dei casi, stampati con linguaggi strettamente settoriali o con uno stile aulico e ricercato. Grazie a quei chioschi venditori di sogni l’editoria non è stata completamente soffocata dalla televisione, la quale, chi l’avrebbe mai detto trent’anni or sono, ha mandato in crisi persino una decima musa, nella fattispecie il cinematografo o grande schermo.

Il libro, al di là dei testi scolastici, diventa per la massa consumista uno strumento obsoleto di conoscenza o di apprendimento, o, comunque, di trasmissione di idee, e l’uomo resta, invece, ancora affascinato dalle immagini. La fotografia propriamente detta, ancora più diffusa e in diversi casi migliorata, oserei dire, dai fotoliti, osservata, appunto, nella sorprendente magnificenza delle cromotipie offset, là dove vengono esaltate crominanza e tridimensionalità, non teme, per il momento, dirottamenti di interesse. Le edicole seducono pure me, un po’ dietro la deformazione professionale e per un fenomeno di empatia con gli addetti ai lavori ad esse connessi. Spesso il sabato sera, da Torre del Greco, al centro del Golfo, costeggio in automobile fino al Capoluogo per intrattenermi presso quei chioschi plurisettoriali mastodontici nella Stazione Centrale, che sono a mezza strada tra l’edicola e la libreria. A cospetto delle migliaia di pubblicazioni policrome rimugino sulla nuova concezione della versione popolare dell’espressione Arti grafiche. Otto persone su dieci associano 1’idea “stampa tipografica” essenzialmente ai giornali illustrati, cioè i rotocalchi fiammanti e policromi, starei per dire a gittata ebdomadario o bisettimanale, vista la rapidità con cui arrivano nelle edicole. L’uomo medio, disinformato e distratto, legittimamente digiuno della materia settoriale scivola sul significato etimologico dei lemmi tipo e grafia, nelle loro accezioni originarie e ne poliedricizza in maniera particolarmente arbitraria la significanza che invece sta per tipo (carattere di piombo); grafia (scrittura). Per estensione, intanto, il termine grafia è divenuto poliedricissimo e sta a significare diecine di contenuti che con l’alfabeto e la stampa hanno oramai poco o nulla da spartire; pur se fino a qualche decennio fa la stampa per antonomasia era per tutti: il quotidiano d’informazione, sin dalle prime gazzette. Queste pedanterie etimologiche, peraltro anacronistiche, stanno solo a precisare che la stampa originaria è stata per oltre cinque secoli dalla sua invenzione la pura, unica meccanizzazione dell’alfabeto, quindi della scrittura. La stampa di immagini è stata sempre minoritaria, in passato, nelle tecniche di stampa tabellare, calcografia, acquaforte, ecc. di cui tratterò in seguito.

LA SCRITTURA

Ma ora diamo una capatina al neolitico. Tutti sappiamo che i trogloditi insieme ai suoni gutturali, come tentativo di espressione, hanno pure sperimentato qualche scarabocchio qua e là. Poi la pietra divenne lo strumento naturale per i promemoria, anche se si trattava di semplici tagli o scalfitture che ricordavano date, periodi, avvenimenti, ecc. I primitivi emettevano in origine solo suoni che a mano a mano divenivano più regolari e costanti, quindi convenzionali, fino all’articolazione delle prime parole, sebbene rudimentali e facilmente mutevoli. Il mio popolo (scusate il tono campanilistico ricorrente) ha sempre preferito il metodo socratico della comunicazione verbale, il sistema mnemonico allo strumento fissato e tramandato. Da noi nessuno ha mai imparato le canzoni sugli spartiti. Vantiamo una memoria audiofona che ci contraddistingue. Così pure la filosofia popolare, panacea per la sopravvivenza, antidoto per i soprusi di sempre, non è stata mai scritta. Né Vico, né Croce o De Sanctis, o quelli di passaggio, come il Boccaccio o il Goethe l’hanno mai presa in seria valutazione, così immersi, loro, nello strumento della scrittura. La parola, come mezzo di trasmissione delle idee, germoglioò quando quella sorta di ominidi avvertì l’esigenza della socializzazione. Non si prefiggevano, i primitivi, però, di tradurla in segni da tramandare ai posteri. Erano lungi dal supporre, poveri «incivili», che la parola scritta e tramandata poteva divenire un’arma terrificante, non solo, ma in molti casi l’immagine speculare dell’esasperazione delle idee, cioè della parte inferma dell’uomo. Erano ignari delle apoteosi deliranti di certi santoni o filosofi, e dei vaneggiamenti maniacali di taluni profeti, e dell’inconsapevolezza di alcuni scienziati. Saggi, quest’ultimi, che hanno pensato bene di sostituire lo psicanalista allo stregone, o la lavabiancheria al lavatoio, ma che nel frattempo hanno pure scoperto la fissione dell’atomo perché possa accadere, in un modo o nell’altro, ciò che l’Ebraismo e Confessioni similari stanno preconizzando da sempre, ma questa volta senza sorta di palingenesi. Diceva bene Marcel Pagnol: Bisogna diffidare dei tecnici, cominciano con 1a macchina per cucire e finiscono con la bomba atomica.

L’ORIGINE DELL’ALFABETO E I NAPOLETANI

Sappiamo che la storia ci è stata ricostruita dagli scavi archeologici e da opere (o frammenti di esse) tramandatici da studiosi anche antichissimi. Molti uomini hanno speso la vita nelle loro accanite esegesi. Storici, filologi ed ermeneuti hanno ricombinato le tessere di un mosaico dell’ampiezza di oltre cinquemila anni, senza contare le congetturate epoche antecedenti. Il comportamento umano affonda le sue origini in quei tempi remoti, e poi via via modificato dalle varie culture, specie quella occidentale concentrata, come si sa, nel bacino del mediterraneo.

Anche se, in queste pagine, darò 1’impressione di dir male dei miei convesuviani, e specie dei miei torresi, premetto che il mio sentimento nei loro confronti, pur sfociando in una ironica dicotomia di illaudo-apprezzamento, si dovrà interpretare come un amore irreversibile, come tutti gli innamoramenti mai appaganti. Questo libro, non dimentichiamolo, pianta le sue fondamenta all’ombra del Vesuvio, e da questo sito che i moti dell’animo, le passioni, gli sconvolgimenti, le gioie e i dolori, il folklore, la cultura, la stampa, si convoglieranno in questa prosa. Siamo il popolo più ancestralmente campanilistico del Globo; qui pure quando si truffa o si ammazza è paradossalmente per campanilismo. Io sono convinto che se l’alfabeto, quindi la stampa, non fossero stati mai inventati, il popolo napoletano avrebbe potuto farne a meno, per la sua prerogativa logorroica e mnemonica, non solo, ma se l’uomo non avesse saputo mai parlare, ebbene, il napoletano avrebbe diffuso nel mondo la fonomimica, di cui è detentore da sempre.

Non la pensarono cosi i primitivi, perché a mano a mano che si civilizzarono, dopo i pallottolieri cinesi, le conchiglie, le tavolette d’argilla, ecc. crearono il progenitore dell’alfabeto, che gli addetti ai lavori chiamano pittogramma, il cui significato è facile intuire. Queste parole-concetto avevano molta somiglianza con i geroglifici, di cui oggi si conoscono oltre tremila segni. A titolo di delineamento dirò che i geroglifici erano distinti in scrittura ieratica (religiosa) e demotica (popolare) Una bella mattina un certo JEAN FRANCOISE CHAMPOLLION, nel lontano 1822, si mise in testa di decifrarli tutti. E come tutti i caparbi prese in braccio la famosa Pietra di Rosetta, portata alla luce dal francese PIETRO BOUCHARD e prima di farsela cascare sui piedi la scaravento sul banco del suo laboratorio di ricerche, e allora andò a letto (si fa per dire) quando anche il segno più impercettibile fu smascherato.

Nelle scritture antiche dette cuneiformi si sono addirittura decifrati episodi che hanno attinenza con fatti biblici. Oggi va un po’ scemando l’interesse per l’ermeneutica e l’archeologia. Gli studiosi diranno: a che vale faticare tanto se prima o poi faranno del mondo un cumulo di macerie? Ma dopo 1’invenzione della stampa, dal Rinascimento in poi, vi sono stati molti pionieri dedicati a questi moderni studi e ricerche. Fino al nostro secolo molto tempo umano è stato speso per la decifrazione delle scritture di antichi popoli. Non vi è dubbio che ogni genio umano è sempre un po’ folle, con buona pace di Sant’Agostino e Nietzsche. Diceva Valery: Il genio si muove nella follia, nel senso che si tiene a galla là dove il demente annega. Un certo G. F. GROTEFEN, professore dell’Università di Gottiga, agli albori del 1800, decifro così bene la scrittura cuneiforme che finì col comunicare egli stesso con chiodi e cunei disposti in modo prestabilito a frequenze ripetibili.

Così, quando doveva dire alla moglie: desidero mangiare, o dormire o fare l’amore, disponeva i suoi chiodi, come dire, ora sul desco, ora sul talamo. Ma la consorte non capiva un chiodo di quel linguaggio, non solo, spesso gli diceva: marito mio, ti sei messo brutti chiodi in testa, perché non utilizzi il tuo tempo per affari più remunerativi? E le donne, credete, da questo punto di vista sono uguali in tutto il mondo, quindi è inutile darsi pena, cari convesuviani.

Ora, prima di passare ai Fenici, i quali combinarono un alfabeto molto simile al nostro, voglio tergiversare sulla diffusione della scrittura attraverso i tempi, sempre strumento d’elite e di manovra politico-religiosa. A pensarci bene, però, i Re, escluso il glabro Carlo Magno, si sono sempre preoccupati più dei muscoli e delle armi piuttosto che di lettere, ma andiamo avanti. Il popolo, manco a dirlo, sempre solo in apprensione per la via gastroenterica, tutt’al più si poteva interessare a delle ricette culinarie. La scrittura, dalle origini, e stata un macchinismo di pochi iniziati, che una volta si chiamavano scribi, indi sacerdoti poi Padri della Chiesa, ed infine teologi, filosofi ed intellettuali laici. Da sempre, come avviene persino nella mia piccola bottega di Torre del Greco, tutti co1oro non addetti ai lavori, in pratica la grossa fetta di umanità che si trova, per cosi dire, al di là della penna, avverte una sorta di fascino e soggezione a cospetto di quel mucchietto di lettere dell’alfabeto, posizionate in milioni di combinazioni, specie se nella materializzazione di caratteri di piombo. Devo aggiungere, appunto, che una sensazione singolare di rapimento si avverte solo in tipografia, rispetto ad altri ambienti connessi all’alfabeto. Nella mia Torre del Greco, purtroppo, non vi sono tipografie editoriali connesse alla letteratura. Da noi l’edonismo cosiddetto reeganiano (siamo ai tempi di Reegan N.d.r.) viene espresso sotto un simbolismo traslitterato in un pittogramma di araldica suggestione, un carminio frascame, una branca vermiglia di calcare marino che ha più valore dell’oro. Che pregio può avere la carta stampata a cospetto di si tanto valore, tangibile ed immediato? Fu proprio un caro torrese corallaio che un giorno mi disse in quell’ironia socratica che lo contraddistingueva: «Ma se la carta è così utile per gli incarti, perché vi stampate sopra? Che razza di matti, ciarlatani e perditempo siete voi tipografi!». E già: Carmina non dant panem. La letteratura non ha mai arricchito nessuno, (tranne nei casi di superproduzione di un autore), specie in passato, ai tempi degli incunaboli, quando le tirature non superavano le duecento copie. Oggi coi best sellers il discorso cambia. E dal momento che sotto il mio Campanile non attecchiscono elucubrazioni e transumanazioni, spesso faccio capolino presso qualche tipografia editoriale del Capoluogo. Nelle librerie si ravvisa 1’importanza dell’alfabeto, nelle tipografie editoriali la suggestione, l’incantesimo della copia fresca. L’atto dell’impressione della prima copia costituisce un vero orgasmo intellettuale per 1’autore del testo ed i1 parto professionale per il tipografo.

L’ALFABETO E IL POPOLO VESUVIANO

Non dimentichiamo che l’alfabeto, al di là delle arti grafiche e della letteratura bene, è stato anche il mezzo diretto per esternare i sentimenti più svariati della sfera emotiva dell’uomo. Nella letteratura mondiale solo negli epistolari si è potuto carpire la natura del vero pathos creativo dei grandi autori; nella corrispondenza l’artista si sventra cedendo alla foggia dialettica e alla smania di trasfigurazione artistica, rinunciando alla mascheratura o sublimazione dei suoi istinti caratteriali. Dagli epistolari si attingono le biografie perché la lettera e il vero miraglio dell’anima.
Quante lettere non abbiamo mai scritto! Noi quarantenni ancora trasognamo il fragore delle ultime carrozzelle sull’asfalto di Via Caracciolo o sui basalti del Miglio d’Oro che lega Torre del Greco a Ercolano. Erano i tempi delle interiezioni, della pargolezza che sapeva ancora di candore da Prima Comunione e non di puerizia pilotata da dottrinarismi clinici che tutto prevengano, tranne la predisposizione all’angoscia prematura. Evoluzioni socioscientifiche che hanno dato un taglio netto a due epoche. Le carrozze sui basalti non sonavano fragore o dirugginii, ma accordi melici. Reminiscenze romantiche che hanno sentore nostalgico, d’accordo. Ma l’asetticità dei giorni nostri non sa meno d’infermità.
Una terra ferace, quella vesuviana, che fa invidia alla motriglia del Nilo. Due raccolti l’anno. Fertilità del terreno grazie anche all’«ingerenza» delle sostanze eruttive dello sterminator Vesevo, che si è accanito nei secoli a svellere in rovinose devastazioni ora le mirifiche e sontuose ville vesuviane, ora i tuguri fatiscenti relativi alla letteratura verista e neorealista. Sempre nel quadro della napoletanità i nostri autori a cavallo dei due secoli mettevano 1’accento su di un personaggio ora grottesco, ora romantico, a mezza strada tra il barbassoro e il fattucchiere, che si può definire, senza tema di smentita, una sorta di derivazione dell’amanuense: lo scrivano! Quando, imberbe, apprendevo i primi rudimenti dell’arte tipografica, rammento con nostalgia un vecchio scrivano che, tra 1’altro, ha tanto colorito di lirismo la mia fantasia. Veniva a Torre del Greco, a piedi, naturalmente, dall’allora Resina, e ambulava pacato e monacale puntando frequentemente lo sguardo sulle architetture ora di Villa Favorita, ora dell’Istituto S. Geltrude, fino al Palazzo Vallelonga del Vavitelli, che egli scandagliava lentamente, ponendo sulle costole a manca il viluppo di scartoffie nella cartella di bazzana color porpora. Indi si impancava presso il famoso “Caffè Palumbo” a centellinare una bibita, procacciandosi, intanto, il lavoro tra i passanti. Lo scrivano ha avuto risonanza storica, anche se aneddotica quando partivano i bastimenti, dove diecine di sensali di carne umana trasferivano oltre oceano migliaia di italiani. Lo scrivano era il loro tramite interiore, il loro poeta, colui che coglieva i sentimenti più vivi e sanguinanti dal cuore delle madri, e forse un po’ vizzi e annacquati dall’animo delle mogli, trasmigrandoli nelle Americhe, immortalati sulla carta spesso olezzante di misteriose quintessenze. Lo scrivano adoperava l’alfabeto come un ponte immenso sull’oceano.

So di ditirambeggiare i miei personaggi, ma opino che il tipografo artigiano quello della bottega degli impresepiati centri storici, sia un po’ lo scrivano delle arti grafiche. Una buona parte del suo lavoro sfrutta l’alfabeto come un macchinismo pro-socializzazione. Il bottegaio tipografo napoletano, chissà fino a quando, sviolina i suoi caratteri nel copositoio, concretizzando sentimenti ed emozioni franche ed inaffettate, ora gaudiose o gongolanti, ora meste o austere. Forse nella mia provincia, oggi come mai, tutt’altro che «addormentata», le vampe del sottosuolo igneo ancora premono lo svisceramento dai precordi. Esuberanza, azione, fremito eruttano dall’animo come reciticcio, a mo’ di materiale eruttivo. A questo gaudio spirituale si associa una spiccata tendenza alla concezione epicurea della vita. Questo spiega il pluralismo di una catena di piccoli ristoranti dalle falde del Vesuvio, giù giù lungo tutta la Litoranea, purtroppo devastata dall’urbanistica di natura demagogica della mia Torre del Greco, e poi di nuovo su verso le pendici a sud-ovest del Vulcano, sulle abbarbicate pinete di Boscotrecase e Boscoreale di prischiano ricordo.
Nessun popolo al mondo sublima il banchetto nuziale come quello Vesuviano. Il tripudio della gente semplice si manifesta in quelle lunghe ore di abbandono epicureo dove il luculliano è bazzecola; dove le crisi bulimiche quali smodate voracità d’affetti, si materializzano nella crapula e nel cioncare. Agape mistica, orgia dionisiaca e Convivio dantesco sono tutt’uno. Al culto gastroenterico nessun circumvesuviano è dissidente, neppure l’intellettuale di grido. Anzi. L’alfabeto immortala su partecipazioni, annunci ed inviti la legittimità caratteriale partenopea dell’appagamento mistico, spirituale e metabolico. Documenti che simboleggiano il tripudio delle feste delle unioni (anche se un po’ precarie, dopo); delle nascite (anche se non tutte legittime); e purtroppo delle estinzioni, la cui liceità e inopinabile, tranne, talvolta, durante le consultazioni elettorali…

E a proposito della morte, 1’alfabeto è lo strumento che più di tutti da la idea dell’immortalità dello spirito umano. All’ombra del Vesuvio, però, malgrado la scoperta del thanatos freudiano, la morte viene sempre esorcizzata sotto un travestimento faceto. In quei centri vesuviani con un reddito (sperequato) superiore alla media nazionale, la morte è una trovata da propaganda religiosa, è, cioè, il sonno… quando si e scocciato di ridestarsi.
Torre del Greco è in declivio alle falde del Vesuvio prospicienti il Tirreno. Essa è compresa da nord a sud tra Ercolano e Pompei e da est ad ovest dal cratere al cimitero, sul mare. Ho dato priorità al camposanto rispetto la costa perché la cittadina ha una positura geografica, come dire, necrostorica, non già a causa delle ecatombe degli stermini vesuviani, ma perché il mio popolo è uno dei pochi a custodire così bene la concezione egittologica del trapasso, sebbene qualcuno si ostina a guardare i cimiteri come materia promozionale relativa alla propaganda religiosa: un reiterare costante, in pratica, del memento mori.
«Sono di più le scese o le sagliute?» farfugliò un marmocchio col viso impiastricciato di cippa e di moccio, affacciato all’uscio della mia bottega di Via Purgatorio. Il moccioso sciolse una smorfia di gaudio quando io gli risposi che non vi era differenza fra i due dati topografici. Ce sta ’na scesa ’e cchiù – bofonchio quegli – chella d’ ’o cimitero, quanno ’a scinne nue ’a saglie cchiù».
Il tipografo artigiano vesuviano forgia e modella l’alfabeto a seconda delle complesse esigenze del suo popolo. Da questo fondamento germogliano le sue progettazioni. Il lavoro nasce e si completa già nella fase ideativa, proprio nell’arco di tempo della richiesta, quasi sempre di getto, verbale, o dietro qualche frettolosa annotazione o un vago diagramma illustrativo. Una progettazione, come dire, estemporanea, al di là della metrica teorica e dei canoni didattici. Una schematizzazione che trova la sua catarsi ancor prima di mettere mano ai caratteri di piombo. Mai come adesso cade bene la locuzione «Chi bene inizia è a meta dell’opera». Il risultato di un indovinato lavoro tipografico di piccola entità dipende da questa breve, ma laboriosa fase creativa, là dove il bottegaio plasma e modella il progetto facendo anche leva sull’espressività contenutistica del testo spesso fiorito e schiccherato, dato gli argomenti domestici, in modo da affacciarsi sul materiale tipografico con le idee chiare, sfruttando appieno la precedente immediatezza creativa.

L’ALFABETO

Ma torniamo alle origini della scrittura. L’alfabeto fenicio consisteva, si dice, in 22 lettere. Gli esperti dicono che da esso deriva l’aramaico e quindi l’ebraico; inoltre il siriano, l’arabo e via dicendo. La palese polemica sulla paternità dei Fenici dell’alfabeto sembra ormai lenita. La storia ci insegna, comunque, che i Fenici non hanno mai brillato in fatto di cultura e civiltà. Ma se avessero estorto davvero l’idea agli egiziani, non ne vedo affatto l’importanza, dal momento che la storia non è che una lunga querimonia di prosa schematica su eccidi, saccheggi ed appropriazioni indebite. Quasi sempre ciascun gruppo etnico vincitore ha frodato a quello sconfitto sostanze, cultura, commerci e carnai umani.

E’ doveroso ricordare, pero, che l’alfabeto il quale ha aperto la strada all’arte scrittoria (intesa come poesia, prosa, teatro, filosofia, quindi teologia, ecc.) è stato quello greco. Non per nulla, come tutti sanno, il termine deriva da Alfa e Beta. L’alfabeto greco era composto da 24 lettere. La lettura, in origine, non era dessiografica, ma procedeva da destra a sinistra. Si dice che il documento greco più antico sia il Papiro di Timoteo risalente al IV secolo a. C. L’alfabeto latino, invece, era formato da 21 lettere, dopo verranno aggiunte G, Y, e Z. Gli addetti ai lavori stabiliscono che l’alfabeto latino si riallaccia agli alfabeti delle precedenti civiltà, compreso il greco. Oggi la letteratura mondiale, diffusa attraverso lo sviluppo editoriale, è penetrata in tutti gli strati sociali, in maniera che ciascun uomo abbia potuto capire quale importanza abbia avuto l’alfabeto nella storia umana.

Come abbiamo visto esso si affermò centinaia di anni fa, quando dai segni legati alle figure si passò a quelli sillabici, dove ogni elemento rappresenta una lettera con un suono proprio. Un insieme di segni, come ènoto, che consente da secoli l’umanità di tramandarsi storia, scienze, religioni, e via dicendo. Il suo valore immenso, chiaramente, sta nella sua combinazione in parole, che sono, in pratica, la traduzione di particelle di pensiero. Mavien da pensare: dal momento che la storia, come ho gia detto, non ricorda che stragi e saccheggi, la religione riflette spesso fanatismi talvolta paranoicali e allucinatori, la poesia e determinata prosa, per certi versi, alimentano nostalgie e malinconie, la filosofia finisce di solito col proporre vaneggiamenti a catena, la scienza sfocia ad estuario nelle catastrofi; e partendo dal presupposto che molta gente beve per dimenticare, l’alfabeto, per svariate ragioni, è stato davvero giovevole all’umanità?

L’ALFABETO IN CRISI

Ora, prima di imbroccare l’argomento della diffusione della stampa vista come moderna uniforme dell’alfabeto, osserviamo cosa ha causato l’obsolescenza dell’invenzione di Gutenberg. Il 3 gennaio 1954, ad esempio, alle ore 11 nasce anche in Italia la Televisione. Personalmente ho avuto la fortuna di raccogliere questo vagito. Avevo nove anni. Il gracchiare della nostra logorata radiogrammofono, dall’aspetto di una cassa sepolcrale, non avrebbe dovuto più ammaliare me e i congiunti, né i condomini prossimi e confinanti, in quel declivio di basalti di mera roccia vesuviana che è via Beneduce. Le nostre condizioni economiche erano ben lungi dal consentirci l’acquisto di uno dei primi apparecchi televisivi. Ma in un locale pubblico potei assistere alla telecronaca diretta dell’inaugurazione dagli studi di Milano. In precedenza avevo raccolto solo le solite voci di corridoio circa le trasmissioni sperimentali del 1953: il film alle 17 e il telegiornale alle 21. Il sortilegio TV incantava tutti. Sui giornali apparivano ampi i programmi della radio e brevi, a margine, quelli della TV.

Allora i librai ed ancor più gli editori del libro propriamente detto non temevano cali, anzi, sei anni dopo, come ho gia accennato, si ebbe il boom editoriale, che andava a braccetto con quello economico; tanto meno temevano alcunché i gestori dei 10.000 cinematografi italiani con i 92 miliardi di incassi l’anno, forse oltre 900 miliardi di oggi. Le piacevoli ore di lettura del 1954 venivano già disturbate dai sia pur brevi e frammentari programmi di Mamma Rai. Le automobili in Italia erano poco più di 600.000 e quasi tutti gli italiani trascorrevano il fine settimana sdraiati in poltrona.

Già da allora l’editoria, forse inconsapevolmente, instradò la produzione sull’iconografia. Come ho già designato,l’abbondanza di immagini nel testo scritto ha una funzione agevolatrice atta a ridurre sia lo sforzo visivo che il processo mentale di traslazione dei segni fonetici in immagini. La mia modesta bottega di Via Purgatorio archivia una serie di piccoli clichès di orientamento iconografico generico da adibire a questo scopo. Testo-illustrazione offre un sistema ibrido di assimilazione dei concetti senza dubbio efficace. Ciò spiega il successo dei fumetti e degli oramai disattuali fotoromanzi, sostituiti ampiamente dalle telenovele.
Se, ad esempio, si parla di mare in un testo di solo scritto, il lettore dovrà associare l’immagine di un altro mare visto da lui in precedenza. Qualche complessità insorge, pero, quando un lettore non ha mai visto il mare nemmeno in cartolina. Deve solo usufruire della descrizione che non sempre è soddisfacente poiché si presume che il mare lo conoscano quasi la totalità delle persone. E sarà pure vero se si parla di mare; ma se si descrive la fissione dell’atomo o la sintesi clorofilliana ? Le illustrazioni, dunque, per i testi scientifici, sono un complemento efficacissimo. Dannose, invece, nei testi letterari o poetici, dove la fantasia personale deve mettersi in moto per ricavarne la catarsi finalizzata nell’opera.
Le moderne composizioni grafiche costituite da assemblaggi la dove predomina l’immagine scuotono indubbiamente la pigrizia mentale verso la lettura, tipica dell’uomo medio italiano, così propenso all’evasione, pressato da un ritmo di vita sempre più frenetico, quindi malproprio alla lettura e alla sua prerogativa: la concentrazione. Questi nuovi avvenimenti hanno ottenebrato non solo il fascino del prodotto delle stamperie, ma la stessa forza espressiva del pensiero combinato in parole attraverso l’alfabeto, uno dei maggiori strumenti capaci di stimolare e fertilizzare la fantasia.
Il processo di stimolazione mentale della trasfigurazione artistica ha mutato i canoni compositivi nella pittura, nella letteratura e nelle arti applicate ad esse affini. L’ambiguità del reale è conforme al mistero della vita e della morte, quindi all’insoluto esistenziale più intenso. Le pulsioni sessuali, ad esempio, vengono alimentate dal «celato» o, meglio ancora dall’immaginato, in molti casi. Le culture planetarie di stampo religioso, dal canto loro, hanno allenato l’uomo per millenni ad atteggiamenti comportamentali scaturiti dalle speculazioni teosofiche, dove i composti lasciavano spaziare la fantasia con trasognamenti, speranze, illusioni, delizie, meccanismi intellettivi che impegnavano la mente e spesso conciliavano il sonno. In ultima analisi: sognare, di giorno e di notte. Un filosofo diceva: «Guai all’uomo quando smetterà di sognare!» Cert’è che oggi non solo si sogna poco, ma si dorme pochissimo. Chissà quali utilità arrecano all’uomo le scienze positive, a parte l’apparente benessere fisiologico. Il corpo e analizzato e curato in ogni cellula, ma al di la del cancro e dell’AIDS, la mente chi la cura ? La salute mentale collettiva e individuale, quale scienza o psicologia la garantisce in maniera empirica. Pure la psicologia, idonea per la prevenzione dell’angoscia si rivela dubbia per la terapia. Le scuole in materia si moltiplicano, come un tempo con la filosofia, polemizzano tra loro, prevalgono dottrinarismi categorici ma teorici, spesso perentori e sussiegosi. Le teorie non sperimentate non allettano nessuno. L’alfabeto vecchia maniera spaziava, trasognava, sconfinava, ora si concentrava, ora si rarefava, e la gente dormiva almeno otto ore per notte.

IL PIOMBO FUSO IN CRISI

Il piombo di Gutenberg basisce lentamente da più lustri, come e romantico ma arcaico dire. L’elettronica, nella fattispecie l’informatica, per non scomodare la cibernetica, ne sta praticando l’eutanasia. Ma diversi noi quarantenni, in alternativa ai disagi di uno squallido dopoguerra, fino ad oggi mai sanato per i nuovi malesseri, abbiamo assorbito, sin da quell’infanzia travagliata, gli ultimi vapori del romanticismo, che rasentava, certo, un genere d’infermità, ma non esiziale o apocalittica come quella odierna. Quei trasognamenti e suggestioni mistiche denominati valori etici ed ideali, altrimenti detti sostegni psichici, erano atti a scongiurare ed esorcizzare 1’insoluto esistenziale di sempre, ed in special modo le pressioni negative di una società asettica e disumana come quella odierna, che concentra nel sistema, al di la dei colori politici, angherie di potere coercizioni consumistiche, vessazioni camuffate di democrazia.
Ah, care, vetuste, fuligginose tipografie artigiane napoletane; oscuri anfratti, ferite nere dei dedali infestati di bucato, gemme brune della cultura partenopea, disposte a raggiera intorno al Corpo di Napoli. Antri sgraziati, disadorni, bizzarri; prestigio ideologico dei dedali fatiscenti, onore del sottoproletariato urbano. Non scomparite nell’asetticità del cemento, restate là come diamanti ideali incastonate tra bassi e portoni spagnoli, fra letti e fornelli. Ecco un seno nutre a ridosso di tomi ancora intonsi nell’effluvio della résina. Bottega, dimora e strada, una cosa sola. Nessun auto, oggetto o persona può sostare a lungo nei dedali del centro storico perché è come soggiornare in casa altrui senza consenso.

NAPOLETANITA’ IN CRISI?

Certo, sa di anacronismo reiterare qui moduli veristi o neorealisti della Napoli delle cartoline. Ma l’immagine dei dedali di Forcella infestati di bucato sciorinato sulle corde di canapa in un contesto di metropoli-giungla, la dove un quindicenne si buca dietro un portello e due dodicenni scippano, non e retorica. E’ la vecchia Napoli che non regge più alle pressioni dell’europeizzazione edonistica. I ghetti del sottoproletariato sono l’altra faccia del progresso. Tuttavia, malgrado lo squallore e le lordure volute anche dalla contaminazione capitalistica, in questi siti si può ancora attingere calore umano e soprattutto solidarietà, credo, purtroppo, ancora per poco tempo. I rioni del Centro storico di Napoli somigliano alle piccole polis del vecchio mondo, autocrate e solidali. Comunità un po’ fuori dalla storia, là dove certe forme comportamentali di solidarietà restano istintuali, caratteriali, un sociale allo stato brado, mai culturalizzato in pieno. La famigerata arte dell’arrangiarsi scaturisce da un metodo autarchico di gestire la propria pelle, sia pure in maniera eslege, nella inconsapevolezza ovvia e cronicizzata di un popolo, come dire, storicizzato a metà. Un piccolo stato nello stato. Il popolo napoletano, quello originario dei bassi fatiscenti, è uno di quelli che ancora disdegna l’operato di Garibaldi. Una comunità legata alla strada, alla splendida costa, incapace di rinunciare all’elio e talassoterapia buona parte dell’anno, ed ancor meno al culto gastroenterico, alle vecchie strutture spagnole fitte di bassi e case giardino, portoni, portelle, balaustrate ed ampi davanzali sempre ingombri di opulenze femminili. Gente, malgrado le apparenze, emotiva, scrupolosa e tradizionalista, che si nutre di passato, di retorica, di suggestioni mistiche. La razza che, pur pressata a rinunciare alla fede, non disdegna i tabernacoli e confonde il rituale religioso con quello pagano in fusione totale alla superstizione. E una volta che non riesce a rimuovere le parossistiche crisi esistenziali preferisce ancora 1’Apocalisse alla catastrofe atomica. Ma ecco che il progresso, lentamente come un tarlo, continua a strappare questo popolo dal suo habitat. La strada da palcoscenico diviene giungla urbana. L’equilibrio incomincia ad incrinarsi; 1’artigianato secolare soccombe. Gradualmente scompare il lavoro a misura d’uomo, il rapporto di gomito, 1’afflato del mercanteggiare.

La Serao ci ricorda nella sua dilogia i tipografi sottopagati della sua epoca; ma forse beneficiavano di condizioni psichiche migliori rispetto a quelle dei giovani tipografi mancati di oggi per ragioni che è superfluo reiterare; poveri figli di mamma finiti inevitabilmente nella rete della malavita o incappati nella ruota della tossicodipendenza. Ogni dieci artigiani che chiudono bottega dovrebbero essere sostituiti da un centro di formazione professionale; questi, invece, non solo non si moltiplicano, ma tendono a calare e ad impoverirsi strutturalmente. I tipografi artigiani vecchia maniera, dunque, sono ancora i soli, autentici sostenitori della romantica tradizione gutemberghiana; singolari superstiti e testimoni veri della riproduzione veloce degli scritti, quindi della diffusione della cultura e quel che di benevolo, egregio, propizio essa ha dato all’umanità. Il lavoro artigiano, se pure meccanizzato dal secolo scorso, era nella vita. La cibernetica sa di robotica extraterrestre, non ha nulla di umano come le cellule. Conciliare il micro col macrocosmo è una grave castroneria dell’uomo.

ALFABETO,GRAFIA E STILI IERI E OGGI

Tentiamo ora di focalizzare bene l’argomento relativo agli stili grafici. L’alfabeto adoperato a tutt’oggi in occidente è quello derivato dal Romano maiuscolo, divenuto minuscolo successivamente. Chi ha avuto modo di osservare il carattere Romano su riproduzioni di documenti antichi o sulle insegne romane attraverso il cinematografo, può notare come i tratti spigolosi, nel passare degli anni, abbiano preso forme sinuose, allo scopo di poter scrivere più rapidamente. Solo il gotico rimane, per così dire, la pecora nera degli stili. E’ palese che il gotico tedesco sia la scrittura più difficile da scriversi e da leggersi. Tutti i caratteri usati nel mondo occidentale prendono la denominazione di Antiqua in contrapposizione al Gotico e ai suoi derivati, sebbene (e qui il paradosso) il gotico non è altro che un forma esasperata dell’alfabeto latino.

Oggi la bella scrittura come materia didattica è stata soppressa. Il lettore dalla chioma canuta rammenterà quante rigate nel palmo delle mani ha patito, da scolaro, quando veniva imputato di sgorbiare il proprio scartabello. La calligrafia, detta poi scienza degli asini, ha impiegato cinque secoli per essere declassificata, poiché essa, è chiaro, è stata retaggio dell’arte degli amanuensi. Attualmente operano sul territorio nazionale svariate scuole di formazione professionale per tipografi, per lo più di gestione clericale (sempre di numero esiguo secondo me). Molte, tanto per variare, sono concentrate in testa allo stivale. In Campania e famosa quella di Pompei in seno all’Istituto BARTOLO LONGO, singolare fucina di provetti operatori del settore, dove si sono formati molti miei colleghi di Ercolano, Torre Annunziata e della mia Torre del Greco. Il programma comprende, oltre alla pratica d’officina, le nozioni teoriche affini. Ma la società consumistica tende a riformare i canoni tradizionali relativi alla stampa come meccanizzazione dell’alfabeto ed amplia la materia inerente la grafica pubblicitaria e la cartotecnica legata al confezionamento dei prodotti di consumo, e via dicendo. La diffusione dell’alfabeto ha raggiunto i fastigi intorno al mezzo secolo XX, per poi declinare lentamente.
Non a caso oggi si parla di grafica in luogo di tipografia con esplicito riferimento alle elaborazioni policrome, seppure artificiose. Il tipo, ovvero il carattere, un tempo prioritario, trova sempre minore spazio negli stampati. Le immagini e gli ampi margini, per motivi di estetica moderna, sono maggioritari. Il tipografo di domani non sarà altro che un astucciaio, un bustaio, o, bene che vada, un rotocalchista.

Ma noialtri tapini bottegai tipografi artigiani come reagiamo al deperire della stampa relativa all’alfabeto? I tipografi artigiani campani, malgrado la precarietà di sempre sanno eseguire, in ogni caso, lavori ricchi di inventiva e ricercatezza, entro i limiti quantitativi, naturalmente, anche con attrezzature decisamente obsolete. Spesso si improvvisano aggeggi autocostruiti onde emulare i congegni sofisticati moderni. Senza tema di smentita noi circumvesuviani siamo i progenitori del fai da te. Congegni strani e bizzarri scaturiscono dell’estro e, come diciamo noi, dalla forza della disperazione. Quasi sempre si fa uso di materiale di fortuna, come assicelle di legno, cordicelle di nylon, scotch e polvere di sapone (boro talco).

Un folle genio tipografo, che bazzica Torre del Greco perché la sua consorte va matta per i ninnoli di corallo, un giorno folleggio l’impresa di combinare assieme due vecchie carrette tipografiche. Fu naturalmente deriso dagli importatori milanesi. Non solo l’esperimento andò in porto, ma ottenne dall’artificio una velocità di rotazione quasi duplicata rispetto a quella consentita, sebbene 1’ordigno si spostasse di frequente sul pavimento, malgrado i perni di fissaggio. Quando finalmente si fusero le bronzine e l’arnese si ridusse ad un rottame il collega impreco collerico contro i costumi corrotti dei costruttori teutonici perché, probabilmente, avevano adoperato materie prime di scarto. Devo aggiungere, inoltre, che il collega geniale espleta esclusivamente l’operato di impressore poiché, per sua sfortuna, è analfabeta irrecuperabile. Per evitare di stampare righi capovolti ha escogitato il sistema di trasfigurare le lettere dell’alfabeto. Egli, suggestionato da reminiscenze puerili le immagina come tanti pargoli che si tengono per mano distinguendone, quindi, la posizione eretta. Spesso lo sentivo esclamare: “Gua’ quanto so’ bellilli ‘sti fetentielli!”. Si trattava di titoli realizzati in carattere fantasia. E non immaginava per nulla, il candido, che tutti gli stili dell’alfabeto relativi al carattere Antiqua sono somiglianti nella loro struttura madre ai caratteri latini. Infatti fanno un po’ eccezione i cosiddetti caratteri fantasia, nelle loro forme esasperate e bizzarre.

TIPI DI SCRITTURA

E’ un errore pensare che, nel periodo antecedente 1’invenzione della stampa a caratteri mobili, gli stili calligrafici fossero uno o due. Gli amanuensi ne adottarono numerosi, definiti e classificati. Ve ne era quasi uno per ogni dottrina, per ogni indirizzo letterario. Infatti gli stili, come sempre, andavano pure a braccetto con i movimenti culturali e religiosi del tempo, sempre sotto 1’influsso delle correnti pittoriche e architettoniche, proprio come avviene adesso con i caratteri da stampa. Alcuni paesi d’Oriente, come la Cina e il Giappone, pur rimanendo fedeli alle loro antichissime tradizioni di stile, pur conservando le loro scritture classiche originali, utilizzano per motivi commerciali, culturali o politici, anche le scritture dell’Occidente, traslitterando, in pratica, tutti i testi del caso.
E’ arrivato il momento di superare lo scoglio della descrizione, sebbene a grossi tratti, della cronologia dei tipi di scrittura. Fate come me in questo momento, date fuoco ad una sigaretta per ingannare la noia. Veniamo a noi. Dopo le scritture cuneiformi, i geroglifici egiziani, e via dicendo, abbiamo, grazie agli ermeneuti, una classificazione delle scritture affermatesi nei secoli. Gia dal V secolo a. C. si scriveva con uno stile ripetitivo e ben articolato: la Lapidaria greca. Nel II secolo a. C. comparve la Lapidaria romana. Solo dal II secolo in poi si affermo la Capitalis quadrata, che fu adoperata fino al V secolo d. C. Come il lettore annoiato può immaginare, questa era una scrittura appunto larga e quadrata, bella a vedersi, chiara e intelligibile, ma divorava molto papiro o cartapecora per cui dal V secolo vi si contrappose la Rustica, che non ha niente a che fare con i siti agresti, una scrittura stretta, ma un po’ incerta. Dal IV secolo e per tutto il periodo carolingio si affermò la scrittura Onciale, e nemmeno questa ha a che fare con l’unità di misura di peso, ma che si può decisamente definire la scrittura principe della letteratura cristiana. Quindi la Semi-Onciale del V secolo, pur essendo sempre maiuscola incomincia ad accennare una scrittura alta e bassa, come diciamo noi tipografi, con un chiaro riferimento all’idea di maiuscolo e minuscolo. La prima scrittura minuscola fu la Carolingia, altrimenti detta Minuscola romana, apparsa nell’VIII secolo. Dopo di che scribi ed amanuensi pensarono bene di concedersi un po’ di riposo che durò, scusateli se fu poco, fino all’Umanesimo. Ci dovette pur essere in questo periodo qualche scrittura minore, ma la storia ricorda la Textura con la quale Gutenberg stampò la famosa Bibbia dalle 42 linee. La Textura, quindi, fu la prima scrittura imitata artificialmente con i caratteri di piombo. Segue la Rotunda del XV secolo, in pratica il gotico. Sempre nel XV secolo abbiamo la Minuscola umanistica o Antiqua, che, per antonomasia, dà il nome a tutti i caratteri oggi usati che si contrappongono al gotico. Nel XVI secolo si affermo la Franktur, nuova versione della Textura. Poi andò delineandosi la scrittura classicistica del XVIII secolo. Ed infine il corsivo classicistico sempre di questo periodo, molto simile a cio che oggi va detto Stile inglese.

DALLO STEMMA ALL’IDEOGRAMMA NELLA GRAFICA

E così, ce l’abbiamo fatta, caro amico, abbiamo quasi concluso il primo capitolo di questa chiacchierata a senso unico, perché dire monologo mi fa sentire solo, e soli, dice il saggio, non si sta bene neppurein paradiso. Andiamo avanti. Non a caso i ragazzi che si affacciano sull’uscio della mia bottega di Via Purgatorio chiedendomi uno stemma, desiderano invece un adesivo commerciale.

Nei paragrafi relativi alla serigrafia paleserò quanta importanza abbia per noi campani il simbolismo inerente 1’oggettistica, che affonda le sue radici nell’istinto primario animistico. Oggetto come feticcio totemico con finalità apotropaiche. Noi napoletani e campani tutti, non esclusi i miei torresi, siamo, forse, i cristiani più pagani d’Italia in fatto iconografico. L’individuo, soggiogato da una coscienza collettiva, cerca nell’autoadesivo moderno non solo l’ideogramma grafico attuale, ma il simbolismo araldico di un tempo, se non l’ideogramma primario pre-alfabetico. Il ragazzo di quest’epoca squinternata, dove si registra la più alta percentuale di confusione mentale della storia, si identifica non solo con la fuoriserie o la moto-razzo, ma finanche con un semplice autoadesivo che rappresenti, pero, the best, riproducente ora un big della canzone, ora il marchio di uno stilista di grido. Qualcosa che «valga», insomma, come gli elementi della vecchia simbologia araldica.
Il mondo non cambia, l’uomo sostituisce, ma non annulla i suoi sostegni psichici, anche con quelli più effimeri e puerili. La simbologia araldica, come si sa, comprende le corone dette, ad esempio, di conte, di barone, di principe, di duca, di marchese, di patrizio, e via discorrendo. Le croci: latina, greca, di Malta, di Loxena, Papale, fino all’uncinata nazista, alias la svastica. In più abbiamo gli scudi (da cui: scudetto) quindi stemma per autoadesivo. Gli scudi erano detti: svizzero, sannitico, inglese, ancile, a losanga, e via dicendo. Inoltre vi erano gli scudi-pellicce: ermellino e vaio. Le partizioni: scudo troncato, tagliato, trinciato, inquartato, ecc. Le pezze onorevoli: palo, sbarra, banda, ed altre. Dulcis in fundo gli scudi con figure ideali come il drago, la sirena, 1’idra, il liocorno, le cinquefoglie, il giglio, le anatrelle e, come e sfizioso dire, chi più ne ha più ne metta.
Dunque, abbiamo appreso che la grafica relativa agli emblemi si riallaccia alla simbologia ideografica e all’araldica. Lo stemma araldico, come il marchio commerciale o il simbolo politico non sono altro che la simbolizzazione di una idea. Ogni ideogramma, intanto, al di là della concezione estetica e formale, è studiato perché si inserisca nella sfera psichica dell’osservatore, influenzandola positivamente. Perché il marchio tipografico sia di stampo ideografico lo dimostra pure la segnaletica stradale che assicura messaggi elementari ed inequivocabili. In Campania vi è una doppia segnaletica, quella relativa alla circolazione e quella dei grafomani, forse tipografi mancati. Alcune scritte sono facete, altre drammatiche. A iosa si legge: Dio c’e; Gesù salva. Altro come: O voti di qua o di là sempre in c… (nei fondelli) ti arriverà. Tutti i marchi moderni hanno come prerogativa la stilizzazione dei tratti e l’elementarietà del concetto per garantire la massima comprensione. Non mancano, di certo, i marchi di contenuto ermetico allo scopo di stimolare la curiosità e la fantasia, a discapito, pero, dell’intellegibilità. Inoltre una certa pubblicità, per così dire minore, gioca d’ambiguità con ideogrammi e scritte camuffate allo scopo di confondere dei prodotti con altri più famosi.

E’ arrivato il momento di concludere il primo capitolo di un libro che potrebbe apparire un elogio alla stampa tipografica tradizionale. E’ chiaro che molto spesso mi lascio prendere la mano dalla deformazione professionale, avendo senza dubbio il piombo nel sangue, non nel senso del saturnismo, grazie a Dio. Bisogna provarla questa droga del piombo fuso. E qui voglio ricordare il fraterno amico Franco Penza che alla fine degli anni ’60 redigeva i due suoi originali, «scapigliati» giornali: «Il Penzatore» e «L’infinito», nella mia bottega nascente di Via Purgatorio. Egli si interessava di Critica d’Arte; io notavo l’aspetto psicologico (dietro una divertente ironia goliardica) di alcuni sedicenti pittori e attori torresi, ciascuno sempre inevitabilmente al centro di un eliocentrismo gigionesco o di un egocentrismo assolutista da genio incompreso. Dividevamo con loro le illusioni, le gioie fittizie, l’orgasmo spasmodico all’apparire della prima copia del manifesto o del depliant relativo al loro singolare operato.
Ah, questa mania dell’animale uomo di primeggiare e di sentirsi inimitabile! Tutta brava gente, in fondo, tutti cari amici, soggiogati dall’allucinazione del sogno mirifico della trasfigurazione artistica. Nulla tolgono, però, queste osservazioni all’operato di questi simpatici facinorosi estremisti dell’arte, il cui giudizio peculiare non mi compete. L’aspetto psico-caratteriale dell’artista è estraneo alla valutazione delle sue opere. Quanti visi in deliquio! Misteriosa forza della Tipografia, sempre legata a tutti i generi artistici! Ma sono passati nella mia bottega anche personaggi torresi affermati in campo nazionale ed internazionale. Forse anche noi, Franco Penza, facciamo tesoro delle illusioni? Tu che riferendoti a questo lavoro hai azzardato simpaticamente che il Marinismo rivive nel Mari la sua nuova epopea? Io la reincarnazione di Gian Battista Marino? Non esageriamo, caro amico dei sogni letterari sempre vividi. Per nostra fortuna prendiamo ancora tutto come un gioco e non ci immoliamo sotto il giogo di questo spinoso sentiero delle ambizioni artistiche.

II progresso è una piacevole malattia.

«One times on» – Edward Estlin Cummings

CAP. II

GLI AMANUENSI E LA STAMPA A CARATTERI MOBILI

C’è, per le scoperte un tempo di maturazione,
prima del quale le ricerche sembrano infruttuose.
Una verità aspetta per sbocciare la riunione dei
suoi elementi.

«Enciclopedie» Jean-Frangoise Marmontel

LO SCRIPTORUM

Tutti sappiamo, oramai, che furono i monaci medioevali i maggiori amanuensi della storia. Lo scriptorum era un’officina scrittoria fornita, come nelle aule scolastiche, di regolari sgabelli. Assorti nel loro lavoro, i certosini, e il caso di dire, sbuffavano quando, probabilmente, secondo il rituale, un collega si affacciava sull’uscio per rammentare il memento mori. Dal momento che non era stato ancora inventato il vetro, si dice che i poveretti incontrassero molte difficoltà durante il lavoro. Sebbene adoperassero oggetti adeguati per fermare le scartoffie, non vi erano, purtroppo, le aspirine per combattere i frequenti raffreddori. I cenobiti, in genere, non erano avvezzi a tabacco e a Venere, ma in quanto a Bacco… Altro che prevenzione dei malanni! Poi, grazie all’avvento della carta oleata, gli amanuensi trovarono maggiore difesa contro le scalmane. Si dice che i monaci, tra l’altro buone forchette, divorassero bulimicamente, date le diverse astinenze, pecore e selvaggina, scuoiate allo scopo di ricavare la materia prima per fabbricare il supporto destinato alla scrittura. Alcuni religiosi fungevano pure da miniaturisti per disegnare quelle complesse maiuscole e per illustrare qua e là i codex. Vi erano dei testi così estesi e complicati che spesso non bastava 1’intera vita di un amanuense per realizzarne una copia. Prima ancora che sorgesse la copiatura laica quasi tutti i testi, non teosofici, venivano burattati da dissolutezze ed impudicizie. Per fortuna il Decamerone non cadde mai nelle grinfie dei monaci…
E’ superfluo aggiungere che la copiatura avveniva sia attraverso il lavoro individuale che dietro dettatura del bibliotecario. E quante volte, c’è da immaginarselo, un po’ per il tedio, un po’ per il sonno, l’uno avrà dettato patate e 1’altro avrà scritto cipolle. In ogni modo i monaci avevano libero arbitrio di purgare, modificare, intrapolare o estrapolare. Gia ai tempi dei romani, però, esistevano officine scrittorie frequentate da schiavi. Dall’anno uno ab urbe condita, al 1450 dell’Era Cristiana gli amanuensi hanno rappresentato il lungo periodo di preludio della storia della stampa, perché, appunto, sono stati i precursori pazienti e un po’ secchioni, delle arti grafiche. Fu probabilmente il loro superlavoro a suggerire 1’invenzione a Gutenberg. Gia dal VII secolo, intanto, esistevano delle sparute officine laiche che si moltiplicarono, nel tempo, molto lentamente.

NON DI SOLO AMANUENSE

Non bisogna dimenticare, però, che uno dei primi sistemi di stampa fu inventato dai cinesi. Gli orientali adoperarono dapprima caratteri di terracotta per stampare i loro singolari giornali. Nel VII secolo apparvero i primi caratteri di rame e altre leghe. Il metodo si rivelò problematico se si considera che l’alfabeto cinese comprende circa cinquemila segni. Così, mai scoraggiati, inventarono la stampa tabellure, altrimenti detta xilografia. Essa consiste (perché per finalità artistiche ancora si pratica) nell’utilizzare come matrice una tavoletta per lo più di legno incisa a mano. Il risultato era pressappoco simile a quello dei clichè zincografici, ottenuti con 1’ausilio di un negativo fotografico, la luce attinica e la morsura d’acido, adoperati tutt’oggi dalle tipografie tradizionali.
Idonea per la riproduzione di immagini, la xilografia non risolveva il problema della composizione alfabetica. Diffusasi pure in Europa non cadde in disuso, infatti dopo l’invenzione della stampa a caratteri mobili venne utilizzata come ausilio alla nuova scoperta per illustrare le opere stampate, data la sua ottima compatibilità col torchio. E’ pur vero che sulla tavoletta era possibile incidere quante lettere dell’alfabeto si volesse, ma a parte la laboriosità del sistema, la matrice, essendo monoblocco, non consentiva correzioni; inoltre lo strofinio vigoroso degli xilografi nella parte posteriore del foglio non concedeva la possibilità di stampare ripetutamente sul fronte retro. I caratteri mobili risolsero ogni problema. Sebbene alcune polemiche sulla paternità assoluta di Gutenberg della stampa tipografica non si siano mai del tutto dissipate, la storia vuole che 1’orefice di Magonza, nel 1450, iniziasse a sperimentare gli strani bastoncini di piombo fuso, aventi sull’estremità superiore il rilievo delle lettere a rovescio. Come è facile capire, lo scopo che si era prefisso quell’astuto di tedesco fu quello di rendere rapida non già la formazione delle pagine, ma la copiatura di esse una volta ultimate. Johan Gutenberg, come ho detto, era orefice di professione e, guarda caso, Torre del Greco, la mia città, ovunque riconosciuta come Patria del Corallo, trabocca di orafi ed orefici. Ma sono certo che nessun torrese trascurerebbe l’oro per mettersi a fondere il piombo. Gutenberg lo fece, ma posso assicurarvi che non era uno stupido. Cercava sì la gloria ma, come gli alchimisti, riteneva la sua invenzione una vera pietra filosofale, perché, appunto, tentava di trasformare il piombo in oro, coi ricavi del suo notabile operato, in origine, comunque, non poco contrastato, come tutte le grandi innovazioni della storia.

SE GUTENBERG NON FOSSE NATO

Certamente, se Gutenberg non fosse nato, per certi versi l’umanità non sarebbe stata coinvolta nelle maglie di quella rete inesplicabile della cultura dotta, che rimpinza, per dirla in tono arcaico, persino i poveri cerebri dei pitocchi. La cultura, con le sue aporie e i suoi macchinismi cogitali ha turbato il sonno finanche ai poveri cristi. I barboni talvolta diventano barbassori, i coltivatori diretti culturalisti, con almeno un figlio prete o avvocato. Ma il se, come si e soliti dire, non ha fatto mai storia, cosi, quel figlio di una buona tedesca, Gutenberg, scoperchiò la fissione dell’alfabeto. Mettiamo, per, che la fotografia fosse stata scoperta nel XV secolo, si sarebbe subito utilizzata la sostanza sensibile alla luce onde sperimentare 1’incisione agevolata e ripetitiva, in pratica il clichè, e provveduto, quindi, a celerizzare il lavoro xilografico, calcografico e via dicendo. Il teutonico, ochi per esso, avrebbe, forse, riprodotto le pagine dei codici amanuensi nella loro scrittura originale con la riproduzione anastatica, invece che con i caratteri mobili, evitando, in questo modo, di sentirsi rimbrottare continuamente che i libri stampati con i suoi diabolici bastoncini di piombo fossero, in definitiva, null’altro che delle fallaci contraffazioni dei codex. E dal momento che l’orefice sperimentava i caratteri con i testi di moda, quelli sacri, tanto per variare…, non avrebbe mai corso l’alea di una condanna per eresia, stregoneria o che dir si voglia, rischiando di finire arrostito sul rogo dal Tribunale del Santo Uffizio.
Ciò non avvenne perché, tutto sommato, ai monaci amanuensi, oziosi e sbuccioni per seconda vocazione, faceva comodo che qualcuno, finalmente, smaltisse loro un po’ di fatica, anche se dietro artifici dissacratori… Ma, come mai si continuava ad usare i caratteri mobili anche dopo la effettiva scoperta delle prime dagherrotipie, quindi del clichè, avvenuta nel secolo scorso? Intanto si colse a volo la scoperta zincografica per utilizzarla come impareggiabile alternativa alle lente, laboriose e malagevoli tecniche xilografiche e calcografiche.

Il clichè, come tutti i sistemi fototecnici pre-fotocompositivi, risolveva il problema della riproduzione anastatica, ma non quello della composizione di sana pianta detta a caratteri mobili, anche perché i caratteri mobili, rispetto alla calligrafia erano ripetitivamente precisi e regolari. Il clichè, quindi, miracoloso per la riproduzioni. di codex o di libri già stampati, era disadatto per le opere inedite. Tanto più, in solco binario con la fotomeccanica, l’invenzione di Gutemberg fu meccanizzata e resa veloce da OTTMAR MERGENTHALER, il quale, nel 1883, ebbe la felice idea di mettere a punto il prototipo definitivo della gia parzialmente sperimentata compositrice automatica monolineare, meglio nota col sostantivo Linotype. La disfatta, però, della geniale invenzione della stampa a caratteri mobili non è da imputare alla fotomeccanica, né alla stampa offset o .alla sua consorella rotocalco, tanto meno ai sistemi dattiloscrivibili elettronici o meno, a pallina o a margherita, ma al calcolatore elettronico, nella fattispecie la fotocomposizione!
Se Gutemberg non fosse venuto alla luce probabilmente il clichè di zinco avrebbe riprodotto i codex ottenendone la stampa veloce. FIRMIN MILLOT sfruttò la fotografia per realizzare i suoi clichè. Già nel 1850 incise la prima lastra di zinco tramite morsura di acido nitrico, utilizzando la luce e un negativo fotografico che fungeva da maschera sulla lastra sensibilizzata con una vernice trattata. II clichè aveva emesso il primo vagito, ma non avrà lunga vita. Caratteri automatizzati linotipici e clichè piani di zinco hanno dominato 1’arte nera fino alla metà del XX secolo. Le poche officine di alcune Testate che ancora non si sono convertite alle nuove tecnologie tuttora formano le pagine di giornale con piombo linotipico e clichè, specie il giornalismo minore. (Oggi 2002 non più. N.d.r.). Ed è proprio in questi vetusti opifici che si ascolta il rantolo letale del piombo fuso. E’ proprio in questi nostalgici casermoni di minuscoli soldatini di piombo che gli anta di animo lirico e ispirato sentono salire il groppa alla gola. Intanto la sgherra fototecnica, ormai computerizzata (sistema a freddo, contrapposto al sistema a caldo del piombo fuso) avanza con i cosiddetti passi da gigante, e, nella scorreria impietosa, si modifica e migliora, solo ai fini produttivi, naturalmente, requiando uno dei fattori fondamentali del lavoro creati- vo e delle arti applicate tutte: la partecipazione emotiva, il contatto epidermico, l’afflato diretto con la materia da plasmare con le dita come l’artista con l’argilla. Il sistema a freddo squassa la sua criniera reiterando di continuo la fredda compiacenza delle vittorie, dove il traguardo del bottino estorto, però, non alimenta che nuove bramosie e concupiscenze.

Se Gutenberg non fosse nato la cintura vesuviana non avrebbe neppure beneficiato dei sostegni etici positivi che certamente si recuperano dal groviglio di nodi della diffusione della cultura. Quale mestiere avrebbero esercitato i nostri Vico, Croce e De Sanctis dietro la consapevolezza che le loro analisi andavano. trascritte. in una o due copie di codex, destinati al massimo ad arricchire le sontuose ville vesuviane degli altoborghesi? Cosa avrebbero fatto i nostri. Ferdinando Martello ed Emanuele Melisurgo se non fosse esistita la vecchia partenopea tipografia Flautina che stampava uno dei primi giornali umoristici della storia, intorno alla meta del secolo scorso: L’Arlecchino?. Fossilizzazioni borboniche avrebbero stagnato il torpore di un popolo in perpetua precarietà, sempre dominato e prevaricato dall’alto e dal basso. Sarebbe stato ancora condizionato ad oziose controre nei dedali spagnoli, negli androni sgraziati e disadorni dei centri storici di provincia, nell’acre delle fatiscenze, là dove visi olivastri statuavano assisi, in un’etra infestata da aculeati frugiferi (scusatemi i termini dell’epoca).
Non si sarebbe diffuso, certo, alla fine del XIX secolo il famoso Monsignor Perrelli, che dettava i primi veri spunti o sputi, se più vi piace, polemici ed anticonformisti, in contrapposizione ai millenni di oppressione stagnante, allineandosi ai grandi riformatori del pensiero scientifico del secolo scorso, se Gutenberg non fosse nato. E, d’altro canto, come si sarebbero diffusi gli spunti de’ Il concetto dell’angoscia di Kierkegaard o i Tre saggi sulla sessualità di Freud, o ancora le crude, assideranti “verità” dell’elegiaco Leopardi o del caustico Nietzsche? Insomma, come avremmo fatto a vivere ancora peggio attraverso il doppiotaglio della conoscenza? Il vecchio saggio napoletano diceva: chi capisce patisce.
Se Gutenberg non fosse nato, Antonio Scarfoglio non avrebbe potuto pubblicare il primo rotocalco d’Italia Il Mattino Illustrato, del 1924, perché la moderna, meccanizzata versione della vecchia calcografia, non avrebbe potuto beneficiare della composizione alfabetica dei caratteri mobili. Se quel calabrese di tedesco, volitivo e testardo come tutte le persone geniali, non fosse esistito, ce la saremmo sognata a Napoli la rinomata Emeroteca Tucci e la Biblioteca Nazionale ai Cavalli di Bronzo (Largo Castello) che nacque con la raccolta farnesiana di Carlo III di Borbone e arricchita con la fusione di altre biblioteche napoletane. (Non tutti i campani sanno che si tratta di una delle più importanti biblioteche d’Europa, dove è possibile osservare, oltre ai famosi Papiri di Ercolano, incunaboli, manoscritti e codici miniati di diversi orientamenti culturali). Grazie a Nonno Gutenberg la nostra Napoli ha potuto sfoggiare anche le sue tradizioni culturali, riallacciate anche alla vecchia Scuola Salernitana.
Ah, costa campana, perché ti sei europeizzata (l’accezione non è quella relativa all’unione europea, alla moneta comune, ecc., siamo negli anni 80. N.d.r.), perché ti sei deturpata nell’urbanistica? Leggiadra fetta di ecumene principe che va dall’amena Pozzuoli e via via con le alture di Posillipo, lungo la invidiata Caracciolo, e giù per la storica Ercolano, per la mia ferace Torre del Greco e la fastosa Pompei, indi Castellammare, dove termina la fascia vesuviana tirrena, proseguendo ancora per la suggestiva Vietri e la impresepiata Amalfi, quindi la notabile Salerno fino alla talassoterapeutica Pesto dei Greci. Una terra (alla faccia degli antiretorici) decantata dai miti più antichi, dalle sirene di Ulisse; bersaglio degli insediamenti magnagrecisti, dimora amena e tranquilla per svaghi e riposo dei romani antichi.
La terra vesuviana, oggi in degrado, ha esternato in passato il suo genio interiore creativo ed intellettivo con la filosofia popolare-verbale e cattedratica, con la poesia più intensa e vibrante, con la scienza e le arti, aderendo alla diffusione della stampa, sempre utilizzata e seguita nelle sue fasi evolutive. Grazie anche all’orefice di Magonza l’amena costa vesuviana non è rimasta solo una figura leggiadra di venere seducente, ma vacua, come molte belle donne. Peccato che il flemmone della bramosia di potere si stia allargando a macchia d’olio in tutte le fasce sociali. Per la prima volta nella storia il malessere scaturisce dall’individuo, emarginato dalla recrudescenza del suo insoluto esistenziale. Il male dell’uomo moderno è sociale solo per conseguenza. Anche Napoli, purtroppo, diventa un capoluogo di folla-sola.

L’unico antidoto contro il babelico ordinamento comportamentale suggerito dai mass-media è la loro nociva grancassa propagandistica inneggiante al consumismo, potrebbe essere una sana lettura, oserei dire pre-culturale. Ricusare l’intricato onanismo intellettuale delle elucubrazioni dottrinarie e delle speculazioni filosofiche senza sbocco. Una lettura inedita, che non coinvolge il lettore negli interessi pratici o ideologici dell’autore; una lettura puerile, bonaria ed amorevole, antiscolastica, antisapienza, antistorica, che non si prefigge di insegnare nulla se non la riscoperta di saper stare insieme nella piena gioia di vivere. Semplicismo o qualunquismo? Banalità, retorica? Signori, con la mania della critica, dell’analisi scelta, del the best artistico abbiamo distrutto la spontaneità espressiva, abbiamo contorto e complicato tutto, abbiamo deformato il corso autentico e naturale della vita persino con le favole dei bambini, ricche di trasfigurazioni e contorsioni della realtà, con la mania dell’arte, del desueto, dell’ambiguità creativa, dell’effetto. Abbiamo finito per trasmettere ai bambini la parte inferma della creatività artistica. Lasciamo che i bambini scrivino i libri per noi, i bambini appena accostati ai rudimenti lessicali, i bambini incolti e incontaminati dalla cultura, i bambini come immagine speculare degli uomini di Neanderthal, semplici, bonari e pacifici perché appunto incolti, ignari dell’elaborazione culturale dell’angoscia umana legata all’idea del decesso e la probabile assenza salvifica o alla devastante idea del peccato. I bambini lontani da TV e computer, gli ultimi e più terrifici strumenti di una cultura in saturazione; i bambini nuovi, pasturanti nei prati virenti e rigogliosi, nutriti con more e aromatici agrumi, lontani dalle derrate martoriate nei laboratori per la conservazione o dalle mattanze della vivisezione.. Lasciamo che tali bambini scrivano i libri per noi e bruciamo le biblioteche, forse assisteremo alla nascita di una umanità diversa, almeno per qualche millennio… Perché l’unica salvezza del mondo, la vera non utopia e quella di creare una umanità la cui ragione sia finalmente aliena da tutte le elaborazioni culturali accumulate nei millenni, comprese queste mie considerazioni scritte..

E così, cadendo io stesso nella prosa scolastica, cedendo alla mania, come tutti coloro che usano lo strumento della scrittura, di coinvolgere gli altri nelle proprie idee, tronco tosto la dissertazione osservando, invece, che la stampa a caratteri mobili di piombo fuso è ormai agonizzante anche perché il progresso, inteso soprattutto come evoluzione fisiocratica, fa pressione sulla domanda crescente relativa al movimento demografico. Devo spezzare una lancia in favore dei progressisti riconoscendo che le tecniche veloci sono più idonee al fabbisogno planetario di stampati. E’ discutibile, pero, (ricompongo la lancia) se questo tipo di fabbisogno sia necessario o superfluo, se non dannoso. L’inventore d’altra parte, oblia 1’aspetto speculativo di ogni scoperta, per non dire quello esiziale (vedi la bomba atomica) perché spinto innanzitutto dalla molla dell’affermazione personale.

MA GUTENBERG FU

Ora soffermiamoci un tantino sulla nascita della stampa a caratteri mobili. JOHAN GENSFLEISH GUTENBERG, nato nel 1394?, sperimentò il sistema per moltiplicare gli scritti in un tempo di gran lunga inferiore a quello impiegato dagli amanuensi. Come ho già accennato, sebbene i caratteri di piombo fossero più simmetrici e regolari tra loro, quindi più gradevoli e facili da leggere rispetto alla scrittura manuale, lo stesso Gutenberg definiva i suoi libri «scripture artificialiter». Come informano diverse attendibili fonti, senza voler togliere nulla ai tedeschi, l’orefice non fu l’inventore della stampa in assoluto, ma essenzialmente il più accanito e costante sperimentatore dei caratteri mobili e del torchio da stampa ricavato, sembra, da un torchio da vino. Sarà per invidia, sarà perché al mondo è difficile che qualcuno si faccia i cavoli propri, alcuni pedanti e zelantoni affermano che il teutonico (uso questo termine nell’accezione di: preciso e tenace, non in senso dispregiativo, amo nonno Gutemberg) si avvalse di esperienze analoghe già praticate in tutto il mondo e in ogni tempo. In quel periodo sembra abbiano tentato esperimenti equivalenti: PANFILO CASTALDI di Feltre, il fiorentino BERNARO CENNINI, il tedesco LAURENT COSTER, e via dicendo. Con molta probabilità era già esistente lo spionaggio industriale, attività difficile e perigliosa, perché le delazioni, come per i ladri in Oriente, venivano castigate con l’amputazione di un arto. E… ora sto sbellicandomi dalle risate all’idea che tali estreme sanzioni fossero comminate oggi in Campania e anche altrove, d’altra parte,… sai quanti moncherini si vedrebbero in giro.

La stampa a caratteri mobili in pieno Rinascimento fu subito conosciuta in tutto il mondo occidentale, ma ricevette, all’inizio, solo parziali consensi. E’ strano constatare che una tipografia cinque-seicentesca, anche la più importante, non avesse altra attrezzatura che una esigua scorta di caratteri, un modesto torchio da vino modificato, dei compositori più o meno incerti e dei robusti torcolieri.
Ed io, tapino e modesto bottegaio, nell’ottica del capitalismo, con il ginepraio di arnesi usati e la varietà di risoluzioni tecniche adoperate o inventate, cosa potevo rappresentare allora? Le officine Mondadori? Ho senza dubbio sbagliato epoca per mettermi a fare il tipografo nella bottega-bazar di Via Purgatorio. Ché, poi, questa Via Purgatorio suggerisce sempre tono di dileggio alle verbalità telefoniche dei fornitori per arti grafiche irriducibilmente e irrimediabilmente milanesi. Ma andiamo avanti. I tipografi di allora (voci di corridoio) erano gelosissimi dei propri caratteri, (come se adesso non lo fossero) Li custodivano come reliquie, e pure adesso, poco ci manca, a parte alcuni tipografi sciagurati di mia conoscenza, che fanno una tale bruzzaglia o mmescafrancesca e ’nfranzesaggine, per dirla in gergo, che, sempre per dirla a modo nostro, il Padreterno ne vuole il cuore.
Si dice che allora la fusione dei caratteri avvenisse manualmente, attraverso arnesi rudimentali autofabbricati. Proprio come accade oggi da noi per attuare soluzioni ottenibili, invece, con zuppe sostanziose, alla milanese… Adesso capisco perché dicono che siamo arretrati di cinque secoli. Il torchio da stampa, dopo aver spremuto anni ed anni vino, indossava la marsina o il pastrano e si dava alle lettere. Il famoso mezzo di stampa, a parte le freddure da goliardo, ebbe lunga vita. Era costituito da una base molto pesante, dal piano portaforme (dove veniva inserita la composizione, cioè i caratteri allineati in righi uguali), e dalla grossa vite che veniva manovrata da una leva, il cui movimento permetteva al piano di pressione superiore di abbassarsi dolcemente, ma con tutto il suo peso, sulla carta inumidita, poggiata sui caratteri preventivamente inchiostrati, del piano inferiore. I rulli erano di cuoio.
Pare, pero, che in quel periodo le madri degli inventori prendessero la pillola, o comunque adoperassero anticoncezionali molto efficaci, dal momento che il travaglioso torchio, come direbbero i siculi, fu impiegato per oltre trecento anni. I primi libri stampati, com’è noto, vengono detti incunaboli (in culla). Il periodo degli incunaboli va dall’inizio della scoperta della stampa fino alla meta del diciottesimo secolo. Fu un periodo duro per l’affermazione della stampa. Un giorno i tipografi scesero in piazza insieme ad una sorta di rappresentanti di categoria, postulando che bisognava smetterla, una buona volta, di ritenere il libro stampato una contraffazione. Infatti, nei giorni seguenti, gli incisori di matrici (poiché la petizione era stata respinta a suon di carciofi e cavolfiori, dai monaci che minacciavano scomuniche in tono sussiegoso e perentorio) non si risparmiavano nessuno sforzo non già allo scopo di creare caratteri ripetitivamente uguali e perfetti, ma irregolari ed il più possibile fedeli alla scrittura manuale. Ma guarda le fisime dei conservatori! Solo molto tardi la stampa fu riconosciuta, non solo come invenzione utile, ma come moderna forma d’arte. I caratteri, cosi, presero il sopravvento sulla scrittura manuale. Un po’ come fanno molte mogli dopo i primi anni di matrimonio.
All’origine i libri avevano un aspetto molto diverso da quello d’oggi. La carta, ad esempio, spesso conservava il suo aspetto ondulato a causa delle bagnature sulla parte posteriore, onde favorire il contatto del foglio con i caratteri. Veniva lasciato molto margine intorno allo scritto e soprattutto il libro se richiesto rilegato dal cliente era consegnato intonso. Gli incunaboli non avevano le pagine numerate, né rontespizio, né soscrizione o colophon, come dicono all’estero. Si dice che la massima tiratura. non superasse le duecento copie. (Come avranno fatto a contare – tutte le tirature di allora?). Mah, questi storici e filologi, faranno come gli amanuensi, di tanto in tanto qualcosa se la inventano, Ma andiamo avanti.
Verso la fine del 1500 si ebbe la prima fioritura della nuova scoperta. Gli studiosi, fedelmente o meno, ci ricordano che agli albori del 1600 si contavano in Italia ben 150 tipografie. (Oggi manca poco che si contano nella mia piccola Torre del Greco). Ma, bando alle ciance. La capitale del libro fu Napoli… Domando: fu Napoli? Pare proprio di no, purtroppo.. (Fosse mai stata la capitale di qualcosa). Fu la languida Venezia. Il maggiore prototipografo italiano fu ALDO MANUZIO. Egli si può considerare il padre dell’editoria italiana. A libro affermato i prototipografi avevano più fans degli autori di libri. Manuzio produsse molti esti classici aumentando la tiratura da duecento a mille copie. (Ci crediamo?). Con molta probabilità nelle vene di quell’uomo dovera scorrere sangue milanese o giapponese, perché aveva davvero il cosiddetto bernoccolo degli affari. Avvalendosi della locuzione: Carmina non dant panem, la modificò n: Imprimer carmina dant panem, e non andava errato. Fu lideatore, in nuce, tanto per stare in tema di latino, di ciò che oggi chiamiamo le collane economiche. Ne produsse una gran quantità (saggiamente non ci affermano quante) il cui basso costo favoriva la diffusione. Si dice ancora che Aldo Manuzio avesse una particolare sensibilità artistica, cosa raramente presente in chi ha molto fiuto per il danaro. Penso di condensare gli scritti per economizzare carta e inchiostro e per rendere i libri più maneggevoli ma nello stesso tempo non trascurò di offrire una lettura gradevole, per questo si fece disegnare da FRANCESCO GRIFFI il famoso corsivo detto appunto delle edizioni aldine. Il corsivo, in genere, viene detto anche italico dai fabbricanti internazionali di macchine da scrivere con riferimento al carattere di Griffi. L’arte della stampa si affermòmano mano non solo in Italia, ma in tutto il mondo occidentale. Nel 1700 emigrò oltreoceano.
Nel Nuovo Mondo ne fu pioniere BENIAMINO FRANKLIN di Boston, che fondò inoltre una cartiera, una grande biblioteca, e stampò la Pennsylvania Gazetz, il primo giornale americano, e scusatelo se fu poco. I plutocrati sono sempre esistiti, non mi spiego, però, come mai, i Berlusconi e gli Agnelli non nascano mai a Napoli. Nello stivale le tipografie si diffusero in modo sorprendente, non certo nella misura in cui si sono diffuse in Campania ai giorni nostri. Ma in entrambi i casi, oggi come allora, si verifica il fenomeno del regresso qualitativo per motivi di concorrenza. Le arti grafiche subirono, per una ragione o per l’altra, una sia pur leggera flessione negativa e persero alla fine del 1700, un po’ del loro prestigio relativo alla prima affermazione del secolo precedente.
Anche questo si dice, che a sollevare il tenore della tipografia italiana dal 1700 in poi fu GIANBATTISTA BODONI, da cui il famoso carattere Bodoni. Egli rappresentò un’altra pietra miliare nel lento cammino della stampa italiana. Non solo valorizzò di nuovo la nobile arte, ma la miglioro nell’estetica portandola a fastigi mai raggiunti. Erano lontani, oramai, i tempi in cui i libri venivano considerati delle imitazioni. Napoli, purtroppo, figura raramente nella storia italiana della stampa, se non per un riflesso culturale. Le notizie storiche sulla evoluzione della stampa napoletana sono inserite in maniera frammentaria nelle pagine seguenti nel quadro generale della cultura napoletana in relazione al- l’arte scrittoria fino all’Illuminismo e via via lungo i secoli successivi di lenta aderenza allo sviluppo dell’arte nera.

I CARATTERI DI PIOMBO E IL VECCHIO «PADRONE»

I tipografi non hanno mai brutti caratteri… perché, come ho gia detto, tutti i caratteri usati in Occidente discendono da un’unica nobile famiglia: 1’Antiqua. Il gotico, figliuol prodigo, in declino sin dal 1500, è ritornato nelle tipografie di tutto il mondo. Rivisitato e modernizzato fa, comunque, la sua sporadica presenza in molti tipi di stampati. Il capostipite dell’Antiqua, non dimentichiamolo, è il carattere Romano. Il carattere di piombo da stampa è costituito da un parallelepipedo poco più alto di due centimetri. Il fusto di un carattere da libro, come quello che avete sotto gli occhi, è poco più spesso di un fiammifero da cucina. La lettera e incisa sull’estremità superiore in rilievo (a rovescio). Sulla parte inferiore del fusto vi è un solco tacca, che serve al senso tattile del compositore onde allineare i fusti nel compositoio senza bisogno di guardare. Ho sentito doverosa questa sommaria descrizione perché fra qualche anno si finirà solo col descrivere la salma di questi famigerati, e diciamolo pure, valorosi soldatini.
Chissà quale intruglio adoperò Gutenberg per realizzare i suoi caratteri, credo pressappoco la lega odierna: piombo, antimonio e stagno. Il piombo per la duttilità l’antimonio per la resistenza, lo stagno come antiossidante, e talvolta un pizzico di rame per rendere fluida la lega.

Fino a qualche decennio fa alcuni giornali venivano ancora composti con i minuscoli caratteri mobili. Ricordo con nostalgia un personaggio, in una parola, grottesco, della tipografia napoletana: Don Pietro. Ma sì voglio immortalarlo: DON PIETRO riusciva a comporre un rigo di libro in 15 secondi (in media 50 lettere) quasi 4 bastoncini al secondo e questo per la durata delle giornate lavorative di una volta. In più componendo, si scioglieva in lazzi e scurrilità facete. La palpebra dell’occhio destro si era perpetuamente anchilosata nell’atto di chiudersi nelle ripetute attese delle scoppole in testa, del padrone, che a quei tempi si concedeva diverse angherie. Sappiamo bene come il mercimonio operaio riprese nell’immediato secondo dopoguerra. Lavoro intenso e paghe da fame.
L’ultima volta che vidi Don Pietro fu quando mi fece visita nella bottega di via Purgatorio nell’ottobre del 75. Era radioso. Aveva riscattato la sua dignità di lavoratore sotto l’egida dei sindacati e aveva finalmente maritato tutte e otto le figlie femmine. Si rammaricava solo che a nessuna di esse era toccato in sorte un marito tipografo. «Il vecchio padrone – mi disse quella volta – era un vero tiranno». Pochi diritti erano tollerati. La rivoluzione sociale del 1831 aveva perso, con le guerre, il suo mordente. Nessun Marx poteva garantire la scodella di minestra per un nucleo di dieci bocche. Né venivano riconosciuti i diritti conquistati a cavallo del secolo da movimenti come quelli di Metello di Vasco Pratolini. In ogni caso la parola d’ordine era: là sta ’a porta!
Poi con l’ironia che contraddistingue ogni napoletano autentico Don Pietro biascicò: «Ma oggi… povero padrone. Quello mio, attuale, non fa altro che piangere miseria. Veste dimesso, lesina sugli acquisti. E’ annichilato dai sindacati. E’ capace di ingerire il danaro che incassa se lo sguardo bieco o sornione di un dipendente gli piomba addosso. Povero padrone; la sua dichiarazione dei redditi e sempre inferiore a quella del suo garzone. Davvero una vita da cane. Immagina che, spesso, (sempre per evitare di vendere uno dei suoi quaranta appartamenti di Napoli o qualche acro di terreno di Afragola) chiede in prestito a noi dipendenti, ora i soldi per le sigarette, ora la mancia per il cartaio… Il Natale scorso – concluse Don Pietro – cadde in un tale stato di abbattimento che noi dipendenti pensammo di risollevarlo regalandogli un panettone con la bottiglia e la pazziella per la befana al suo unico figlio. Sai, lo facemmo spontaneamente. Non siamo mica padroni, noi!».

A mezzo di quegli esili bastoncini di piombo la stampa, che per trecento anni aveva essenzialmente asservito il libro, raggiungeva la sua totale affermazione. Il libro, appunto, era ormai perfezionato nella sua struttura fisica ed estetica. Era completo di frontespizio, mai visto negli incunaboli, tanto meno nei codici amanuensi; affermato pure il colophon o soscrizione: Finito di stampare coi tipi, ecc. Anzi il frontespizio rappresentava proprio l’emblema dei libri stampati rispetto ai codex. Le pagine ormai sempre numerate. Si affermò la segnatura, una sorta di ciak cinematografico, che aiuta ancora oggi a riordinare progressivamente i quinterni in 32’, 16, 8’, ecc. (Il numero indica quante volte il foglio da stampa è stato suddiviso per ottenere la pagina). Frequentissimi i titoli dei capitoli, i sottotitoli, gli occhielli, le epigrafi, le dediche, ecc. Già era:in uso l’ex libris. Alla fine del 1700 il libro gia aveva l’aspetto attuale.

BREVE PANORAMICA SULLA DIFFUSIONE DELLA STAMPA NEL 1500

La patria della stampa a caratteri mobili, per antonomasia, è la Germania. Negli annali di storia della stampa, insieme a Gutenberg, figurano sempre altri due nomi: JOHANNES FÜST e PETER SHÖFFER. Füst era un avvocato di Magonza. che spesso dava ossigeno all’orefice per finanziare l’azienda. E così, ottocento fiorini oggi, ottocento domani, divenne socio dell’impresa che produceva nientemeno che scritti artificiali. L’avvocato, non.riscontrando subito i frutti dell’investimento, ben presto incominciò a lagnare i diritti di creditore. (Dice un mio caro torrese: Le società andrebbero compiute con membri di numero. dispari, inferiori a tre…). E accade sempre che tra i due litiganti un terzo goda. Ecco l’ultimo del trinomio: Schöffer, il quale, adottando 1’infallibile arma degli affetti, si appropriò ben presto di tutte le sostanze e le attrezzature impalmando la figlia di Füst. Potenza della mentula! Dopo altre peripezie, non escluso frequenti successi, Gutenberg capì che non si può essere artisti e plutocrati contemporaneamente, (oggi si direbbe: conflitto di interessi N.d.r.) e poiché i suoi manager dimostravano più interesse per il danaro che per la cultura, determinò che a.questo mondo non si può servire appunto Dio e mammona. Si rese conto che non era possibile ricavare 1’oro dal piombo in maniera nobile e lecita. Come tutti gli uomini geniali ed estrosi che non si piegano ai compromessi si affacciò alla vecchiaia sostenuto da una. pensione elargitagli da un arcivescovo. Morì il 3 febbraio 1468. Prima.che facesse capolino il XVI.secolo la Germania.aveva centinaia. di tipografie efficienti. Alcune città tipografe furono Magonza, Bamberga, Augusta, Bruges, Strasburgo, Colonia, Norimberga, Lubecca, ecc. Per dovere cronistorico citerò qualche nome di grandi stampatori. A Strasburgo JOHAN MENTELIN, a Basilea BERTHOLD RUPPEL, allievo di Gutenberg, ad Augusta GUTHER ZAINER, a Norimberga ANTON KOBERGER, a Colonia ULRICH ZELL, a Lubecca STEFFEN ARNDES. Magonza, naturalmente, fu la culla della stampa.
Alla morte del genero di Füst successe il figlio JOHAN SHOFFER, appassionato di archeologia produsse molti libri del settore. In Francia le città più sensibili all’arte nera furono Parigi e Lione. Una importante tipografia fu impiantata in seno al grosso centro intellettuale transalpino La Sorbona. La famosa Università si avvalse di valenti tipografi tedeschi come PASQUIER BONHOMME.
L’Inghilterra fu iniziata all’arte della stampa da un bizzarro signore di nome WILLIAM CAXTON, dopo escursioni culturali e viaggi in Germania impiantò la sua tipografia nell’Abbazia di Westministery. La Spagna ebbe in massima parte stampatori tedeschi immigrati, che operarono a Valencia, Barcellona e Saragozza. Tipografi famosi JOHAN von SALZBURG, PAUL HURUS, ecc. Un aborigeno fu ARNAO GUILLEN DE BROCAR che operava in seno alla giovane Università di Alcalà.
Dulcis in fundo 1’Italia conclude questa odiosa sfilza di nomi, comunque molto, ma molto sommaria. Roma capitale della Chiesa, fucina della produzione di codex da sempre, maggiore mercato librario del mediterraneo con le migliaia e migliaia di codici scritti dai monaci amanuensi, disponeva, sin dagli albori dell’invenzione della stampa, il maggior numero di libri stampati, rispetto alle altre grandi città europee. I migliori stampatori italiani furono, come ho già etto, i veneziani, ma Roma ricorda due tipografi famosi: UDOVICO DEGLI ARRIGHI e ANTONIO BLADO A Venezia, però, i primi stampatori furono tedeschi: JOHANN e WENDELIN VON SPEYER.

Aldo Manuzio, più volte citato, fu il genio dell’editoria libraria del 1500. Iniziato alla cultura dall’amico Pico della Mirandola, all’età di 40 anni aprì a Venezia la sua stamperia, la quale si mantenne onorevole per oltre un secolo. Alla sua morte l’eredità passò prima al suocero Andrea Orsolano, quindi a suo figlio Paolo, infine ad Aldo il giovane, figlio di Manuzio. Gli eredi, però, uomini di cultura, ben lungi dall’idea di imbrattarsi le mani, lasciarono la stamperia in mani disposte a impeciarsi, ma inesperte. Così la tipografia chiuse nel 1590. Altri editori veneziani furono FRANCESCO MARCOLINI e GIOVANNI GIOLITO DE FERRARI.

L’uomo ragionevole si adatta al mondo; l’irragionevole
insiste nel tentare di adattare il mondo a se.
Quindi, ogni progresso dipende dall’uomo irragionevole.

«Uomo e superuomo» G. B. Shaw

CAP. III

VEICOLI DI STAMPA PARALLELI AL PIOMBO E LE NUOVE SCOPERTE

La grande storia vera è quella delle invenzioni.
Sono le invenzioni quelle che provocano la storia,
sul fondo dei dati statistici, biologici e geografici.
«Batons, chiffres et lettres» Raymand Queneau

I PRIMI «STAMPI» XILOGRAFIA, CALCOGRAFIA, ACQUAFORTE

Uno dei più antichi sistemi di stampa del mondo è quello cosiddetto xilografico. La matrice, come già ho accennato, è costituita da una tavoletta di legno su cui viene inciso a mano, col bulino, una immagine, delle lettere o altro. Si legge sovente nelle storie della letteratura che tale antico sistema fu inventato dai cinesi nel VII secolo. Le xilografie illustravano i libri degli amanuensi e continuarono ad apparire nei libri stampati fino alla meta del 1800, sino a quando, lo ripeto, fu scoperta la fotomeccanica, altrimenti detta fabbricazione di cliché. Furono realizzate xilografie a più colori sovrapposti, ed alcune eseguite addirittura con tecniche chiaroscurali di eccezionale finezza da non aver davvero nulla da invidiare alle moderne elaborazioni fototecniche; quest’ultime forse più, come dire, ripetitivamente perfette, grazie ai mezzi, ma senz’altro inferiori alle prime come valore artistico. L’esigenza di moltiplicare le immagini fu pressante.
I caratteri di piombo non erano sufficienti ad estrinsecare alcuni concetti che sono e saranno sempre di carattere visivo. Fu sperimentata, ad esempio la calcografia, inventata nel 1450 da TOMMASO FINIGUERRA, parallelamente ai caratteri di Gutenberg. La tecnica consiste nell’incidere col bulino delle lastre di metallo, ma in negativo, in maniera che, all’atto dell’impressione, l’inchiostro, depositato nei solchi, aderisca alla carta con gradevoli caratteristiche di morbidezza. Con buona pace di Gutenberg, questo sistema di produrre uno stampo costituiva già allora il rudimento della moderna stampa rotocalco che sostiene, oggi, forse il 30% del mercato grafico generale. Tratterò ampiamente l’argomento più avanti. Solo nella metà del secolo XVIII la calcografia si traduceva in rotocalco, grazie ai componenti chimici fototecnici. Fu scoperto che collodio e bicromato divenivano sensibili alla luce, così sulle lastre di metallo veniva spalmata una colla mista a bicromato di potassio. Sovrapponendo alla lastra presensibilizzata una garza nera che fungeva da retino (ma in questo caso produceva alveoli e non punti a rilievo) insieme alla maschera costituente il disegno, la si esponeva al sole. Durante lo sviluppo la colla si scioglieva nelle parti non colpite dalla luce. Sulla lastra rimaneva la forma della figura copiata. Dopo la morsura dell’acido, si otteneva una matrice composta da una miriade di alveoli, al contrario del retino del cliché, costituito da migliaia di puntini in rilievo. Quindi: impronta digitale come cliché tipografico, sudore dai pori come rotocalcografia. Furono dei pittori: DURER, tedesco e il nostro PARMIGIANINO a sperimentare un’altra tecnica per riprodurre illustrazioni: 1’acquaforte. Eravamo intorno al 1500. Gli artisti stendevano sulla lastra di metallo una resina speciale e provvedevano a scalfire la vernice indurita senza intaccare il metallo. A disegno ultimato si immergeva la lastra nell’acquaforte (acido nitrico) perché corrodesse le parti scoperte da vernice. Una volta ripulita la lastra da tutti i residui si procedeva per la stampa. Le matrici calcografiche e quelle ottenute con l’cquaforte non presentavano sostanziali differenze, sebbene ottenute con tecniche diverse. Quando lacquafortista, però incideva le lastre procedeva ad una vera e propria fase creativa. Impiegava tutto lingegno e l’estro nel comporre il disegno graffiando la vernice. E’ da notare, però, che a differenza delle altre tecniche ortodosse, non vi era malta possibilità di correzioni e modifiche.

IL PROTO NICOLA

Con 1’acquaforte, aguardiente, alcool o che dir si voglia, voleva risolvere i suoi problemi Nicola, un anziano tipografo napoletano che conobbi una ventina d’anni or sono all’ingresso di uno stabilimento tipografico campano. Era quella che si suol dire: una fredda mattinata di febbraio cinerea di bruma. S’intravedeva la figura curva di Nicola che, malgrado il primo dilucolo, compiva il gesto ripetitivo di portarsi la bottiglia alle labbra. Lo osservavo incupito e sentivo le estemità inferiori gelare nella guazza, quando il comando automatico provoco al cancello il suo rigoroso dirugginio.

Qualche minuto dopo Nicola mi esibiva le foto della consorte e dei tre figliuoli in età scolare, che diceva di adorare. Aggiunse che quel mattino aveva fatto storie con la moglie, forse per via del bere, ed era angosciato perché i ragazzi avevano assistito all’alterco. Quando il custode della fabbrica mi favori l’ingresso, Nicola si era gia dileguato nella nebbia trascinando una gamba. L’uomo mi prese sottobraccio e mi suggerì di non far caso a quello che diceva Nicola. Mi assicurò che una volta era il proto dello stabilimento grafico. Il custode si fece scivolare la mano manca sulla guancia canuta come per celare il disagio. Subito ciancicò che era stato adibito alle pulizie. Concluse che erano trascorsi dieci anni, ormai, da quel maledetto giorno che lo volle alla guida della sua Fiat 128, peraltro nuova fiammante, la prima ed ultima auto nuova della sua vita.
Quando la macchina andò a incastrarsi sotto la cabina di un autotreno sulla tortuosa Napoli-Pompei, la moglie e i tre figli morirono sul colpo. Nicola fu superstite per un vero miracolo. Miracolo? I giudici lo condannarono a… vivere insieme all’acquaforte. Quando nel ’70 tornai da Colonia, da emigrante, per mettere su la tanto agognata bottega a Torre del Greco, mi recai da Nicola. Certo: lo prendevo con me, giammai come spazzino, come proto. Bevevo con lui, se necessario, a costo di rigirare a bettola la tipografia nascente. Non sei solo Nicola, sei innocente. Sei in gamba, sai, ilmiglior proto di Napoli. Siamo intorno a te Nicola, non ti vogliamo spazzino. Siamo i napoletani di sempre, dimentichi il nostro cuore, la nostra solidarietà? Lancia via la bottiglia, ti vogliamo bene.
Il custode, quando mi avvistòsul ciglio del viale, abbasso gli occhi. Lungo la strada, nella mia sbandellata Fiat 600 arsa dal solleone, mi si chiuse la gola. Mai gli occhi bassi di un uomo avevano così bene traslitterato lalfabeto. Immaginai inequivocabili le parole. Aggiunsi nel mio pensiero: forse Nicola era gia morto da un pezzo.

LE NUOVE SCOPERTE

Sino alla fine del 1800 nulla di nuovo accadde per emendare in modo sostanziale la stampa a caratteri mobili e le tecniche grafiche parallele. L’arte tipografica, espletata essenzialmente tramite la raccolta manuale dei bastoncini di piombo dagli scomparti delle casse di legno, aveva permesso la diffusione della cultura ancora soltanto tra le classi superiori, le uniche a conoscere il latino e litaliano. Ad allargare lindirizzo della cultura in Italia è tata non già solo la diffusione dell’istruzione relativa alla legge Coppino ed altri provvedimenti, ma l’evoluzione delle arti grafiche grazie, finalmente, alle nuove scoperte. Il periodo che va dal 1800 in poi è ricco di innovazioni tecniche e non solo per l’arte tipografica, d’altra parte.

L’arte nera, meccanizzata ed automatizzata, sfociava a mo’ di estuario nella vastità del popolo in continua espansione, attraverso la realizzazione di opere massicce relative al sapere ed all’informazione. Nacque in quel periodo il giornale da rotativa. Furono realizzati i primi lessici, le prime raccolte antologiche ed encidopediche, non certo facilmente riproducibili, bisogna riconoscere, con l’al- lineamento certosino dei rudimentali soldatini di piombo e con la insufficiente produzione di carta fabbricata a mano. Ma solo agli albori de1 XX secolo si è raggiunti 1’Everest della diffusione della stampa come meccanizzazione dell’alfabeto, tanto che la letteratura, di fronte ad un nuovo pubblico, ha modificato il contenuto e trasformato o sovvertito l’orientamento. Arte letteraria ed informazione sono penetrate in tutte le fasce sociali. Il linguaggio aulico e ricercato ricco di virtuosismi strategici, frutto, secondo me, di un allenamento assiduo ed estenuante, resta quello dei filosofi, degli scrittori e dei poeti di puro stampo intellettuale che, spesso, grazie a sperimentalismi e sovvertimenti garantiti dalla fama del proprio nome, si guadagnano 1’attributo di capiscuola, provocando così, una pluralità vastissima di correnti artistiche.
La diffusione della stampa ha creato un’altra esigenza, quella di classificare un linguaggio fedele alla realtà sociale di massa per consentire lo smaltimento della grossa produzione destinata proprio al popolo, nel consumismo fino al collo. Mi riferisco alla letteratura cosiddetta di terz’ordine, il fumettone, la novella da settimanale femminile, insomma ciò che viene detta in gergo zavorra letteraria, ma si tratta, appunto, di un prodotto di largo consumo, che la massa mastica facilmente. Attenzione a non far confusione con gli sperimentalismi moderni ricchi di voluti solecismi, anacoluti, dialettalismi ecc. che, alla fine, sono entrati nel vocabolario per il loro largo uso.

L’evoluzione della stampa, grazie alla notevole meccanizzazione del XIX secolo, è intesa pure come rivoluzione culturale, per così dire, demotica, al di là delle grosse riforme cattedratiche di un De Sanctis, di un Croce, di un Flora. La terza età delle arti grafiche ha visto la luce negli anni 80 con l’informatica. Lo stile letterario, col suo valore precipuo di espressione univoca, inteso come tecnica artistica di estroversione o trasfigurazione di pensiero e sentimenti viene compromesso e svalutato non solo dai nuovi mezzi concorrenti come il cinema e soprattutto la televisione, ma modificato in sé stesso, nelle viscere, dai sistemi creativi moderni relativi ai calcolatori, che escludono parzialmente non solo la priorità dell’opera umana, ma propongono una concezione estetica e di contenuto prefabbricato o aleatorio o addirittura schematizzato e ripetitivo. Tutto avviene in seno al gioco arido e asettico dei calcolatori che la nostra esterofilia fa chiamare computer. Diacronia, cronologia, posposizioni, scelta lessicale, inventiva, creatività scaturiscono da un cervello artificiale, specie nel campo giornalistico. Il computer stabilisce la forma e l’ampiezza delle notizie in base a moduli predeterminati per farla in barba ai costi.

LA MECCANIZZAZIONE DELLA STAMPA

Ma come avvenne la meccanizzazione della stampa gutenberghiana? FIRMIN DIDOT (famoso tipografo che determinò la metrica tipografica e finanzio la prima macchina automatica per la carta di ROBERT) riprese gli esperimenti dello scozzese WILLIAM GED di Edimburgo che ideò il sistema per realizzare una copia della pagina di caratteri composti, onde poterla riutilizzare a favore di eventuali ristampe in maniera da riadoperare i caratteri per altri lavori. Il sistema consisteva nel formare una impronta di gesso sulla superficie dei caratteri composti in pagina. La matrice ottenuta, negativa, serviva per ricavarne la seconda, positiva, dalle caratteristiche di stampabilità pressoché identiche alla pagina composta di caratteri mobili. Il metodo, oggi in disuso per la stampa, prende il nome esplicito di stereotipia. Da questo sistema si ricavò quello, in largo uso nei decenni passati, per la fabbricazione dei timbri, oggi compromesso dalla tecnica fotopolimerica (vedi paragrafo specifico). Stereotipico era pure il sistema usato in passato da tutte le officine dei quotidiani per ottenere le matrici curve monoblocco delle rotative, ricavate dalla pagina di piombo assemblata con cliché zincografici.
Finalmente il vecchio torchio di legno fu sostituito con torchi in lega, capaci di stampare composizioni tipografiche più estese. Poi fu la volta del famoso torchio meccanico, costruito da FEDERICO KOENING e ANDREAS BAUER, progenitori dei costruttori di macchine tipografiche. Il nuovo torchio col la battuta di stampa automatica fu presto sostituito da una nuova macchina dove la stampa non avveniva più tramite contatto piano, ma attraverso un cilindro su cui aderiva il foglio per mezzo di pinze. Il cilindro, ruotando su se stesso, vedeva scorrere sotto il suo punto di contatto le composizioni di caratteri bloccate su di un carrello mobile che consentiva la successiva stampa con un andirivieni.
Era nata la prima macchina tipografica, la quale, sebbene rudimentale, aveva le caratteristiche essenziali e soprattutto il principio di funzionamento identico a quello delle macchine tipografiche, via via perfezionate ed ulteriormente accessoriate, che hanno dominato il mercato fino al secondo dopoguerra. E ancora ruotano in migliaia di tipografie artigiane, come quella negletta di Via Purgatorio.
Nel 1868 fu inventata la rotativa, costruita per il giornale Times, la quale produceva già allora oltre diecimila giornali l’ora. Una cifra, come si suol dire, da capogiro, se si considera che fino a qualche decennio prima i torchi non consentivano tirature superiori a mille copie giornaliere di una sola forma. L’alta velocità di stampa fu possibile perché la rotativa, come tutte le macchine moderne tipo offset e rotocalco a bobina, sfruttano il principio della ruota, non sono ostacolate, cioè, dall’arresto, sia pur fulmineo, e dell’andirivieni del carrello delle macchine tipografiche. Determinante per le rotative fu 1’invenzione della stereotipia di GED, poiché il principio fondamentale di queste macchine è proprio la stampa cilindrica o semicilindrica, quindi la possibilità dell’immissione della carta continua a bobine. Le macchine, una volta abbrivate, non subiscono più nessuna fase di rallentamento.
Proprio come la corsa dell’uomo verso il danaro che qualcuno definisce: lo sterco del diavolo.

LE LEGATURE ALDINE

Prima di concludere 1’argomento delle nuove scoperte mi diverte farvi sapere che i libri copiati dagli amanuensi venivano forniti al lettore quasi sempre a fogli sciolti, o uniti insieme alla meglio. E non è solo un pretesto per chiacchierare un po’ sullo sviluppo dell’editoria. Ciò accadeva perché 1’antica arte della legatoria era scissa da quella della scrittura o della stampa. L’acquirente del libro, se lo riteneva opportuno, lo faceva legare secondo il suo gusto o la qualità desiderata. E’ proprio vero che le mode ritornano. Dopo oltre cinque secoli di stampa e interi millenni di scriptorum, le case editrici moderne adottano lo stesso sistema con le numerosissime pubblicazioni a dispense. Chissà se il mio amico Natale il legatore sa che 1’arte della legatoria risale a Giulio Cesare. In passato la legatura di un libro rappresentava, in molti casi, 1’esecuzione di una vera opera d’arte. Solo nel XVI secolo Aldo Manuzio, primo genio editoriale italiano, ideò le collane economiche fissate in copertine standard e denominate le semplici legature aldine, di cui molti cultori del libro (o forse bibliomani) disapprovavano. Questo dimostra che la fissazione oggettuale non è un fenomeno moderno. Spesso l’aristocrazia amava trasformare le proprie dimore in un tripudio di arazzi, porcellane, legni intarsiati e favolose rilegature, specie all’epoca barocca. A prescindere dall’eccezione di Manuzio solo nel 1930 nacque la legatura meccanica automatizzata che determinò, in un certo senso il declino dell’arte della legatura classica. Molte officine grafiche campane usufruiscono della legatoria annessa, sebbene nel Napoletano si pubblichi poco. Per le piccole e medie tirature di noi artigiani provvedono molte legatorie dislocate intorno a Spaccanapoli e all’Università, diverse delle quali trasferitesi in aree circummetropolitane più vaste, come, d’altra parte, molte tipografie incrementate. Questi complessi, sia pur di numero esiguo, napoletani o dei centri provinciali economicamente sviluppati e più densi di popolazione, come la mia Torre del Greco, Portici, Torre Annunziata, la stessa Salerno, ecc., preferiscono avere legatoria e cartotecnica annesse, che provvedono all’allestimento e alla manifattura di stampati relativi all’editoria e, in ispecial modo, ai prodotti commerciali di largo consumo. Lo sviluppo editoriale dell’inizio del secolo ha favorito le industrie grafiche, anche grazie all’evoluzione del settore cartario, con l’uso della pasta di legno che ne aumentò la disponibilità riducendone i costi, a discapito, chiaramente, della qualità. ’O sparagno nun e mai guaragno, diciamo in gergo.
La produzione raggiunse, qualche decennio fa, livelli mai toccati. Ancora oggi tutti gli stampati commerciali o editoriali non destinati alla lunga conservazione vengono impressi sulla carta fabbricata con pasta di legno. Negli anni ’50 rifiorirono molte case editrici in tutta Europa per rimpiazzare le centinaia distrutte nel corso dell’ultimo conflitto mondiale. L’editoria napoletana ha conservato solo la fama di un tempo, quella relativa al primo giornale italiano con disegni illustrati; L’Arlecchino, uscito nella metà del secolo scorso, o al primo rotocalco d’Italia: Il Mattino Illustrato, o al primo periodico a fumetti: Il Corriere dei Grandi.

LA CONTRAFFAZIONE

Vediamo ora come nacque il Copyright. Il problema che assillava i primi produttori di libri fu il plagio, eventualmente perpetrato più allo stampatore che all’autore. In Italia fu naturalmente Venezia ad adottare dei provvedimenti a favore della protezione degli stampatori contro edizioni contraffatte. Restava la difficoltà di far rispettare queste legittime regole oltre frontiera. L’importanza della stampa era ritenuta tale che lo stampatore aveva priorità sull’autore, anche perché la paternità di opere classiche era inconfutabile; inoltre gli intellettuali dell’epoca capaci di scaturigini si contavano sulla punta delle dita, e nessuno osava firmare 1’opera di un altro. Il Copyright Act inglese del XVIII secolo pose in parte fine a certe illegalità.
Un’altra legge francese, sembra della fine di quel secolo, proteggeva questa volta anche l’autore per appena due anni dopo la sua morte. Avevano fatto lo sforzo. I tedeschi, ma qui cade bene i teutonici, emanarono un’altra legge che li proteggeva oltre trent’anni dalla loro dipartita. Ma ciò che pose fine definitivamente allo sconcio del plagio fu, come molti sanno, la Convenzione di Berna, che riconosceva il Principio Internazionale dei Diritti d’Autore. E finalmente nel 1950, e questa è storia contemporanea, 1’UNESCO promosse la Convenzione Universale del Copyright, esclusi i paesi dell’Est.
Ed ora, ahi, ahi, ahi, mi tocca sfiorare una nota dolente. Le parole contraffazione, quindi illegalità, truffa, plagio o che dir si voglia, chiamano in ballo i napoletani. Questo modo antico di sbarcare il lunario, oggi, bisogna riconoscere, degenerato, ha origine lazzaronica, nato dall’esigenza di sfamarsi. I lazzaroni, come è noto, erano una torma di emarginati senz’arte ne parte, immigrati a Napoli da ogni dove. Dal Vicereame alla Repubblica le cose per il popolo napoletano proletario non sono cambiate, anzi, la televisione gli ricorda che se non spende, o va in fuoriserie, o fa le vacanze e il fine settimana è un uomo da niente, che non serve, oggetto di scherno da parte del condominio (o dell’agglomerato di bassi fatiscenti) e ce ne sono ancora molti nel centro storico e in tutta la provincia povera. La Campania progredita maschera bene questo squallore. E’ essenzialmente da questi siti, in solco binario del consumismo che si è rinnovata la piaga del disorientamento generale. Oggi, più che mai, essere povero è una vergogna, una umiliazione, in un mondo di ricchi. Una volta i poveri erano moltissimi, e la gente si sentiva dignitosa nella miseria; si riteneva vicina a Dio.
Oggi sono molti gli agiati, proprio come a New York, e i poveri sono solo emarginati, da ghetto. Anche se non giustifico niente e nessuno posso assicurare che, a prescindere dalle estorsioni, dal contrabbando, che si riallaccia ai traffici con gli angloamericani, o la droga, piaga planetaria, in Campania, ai giorni nostri, la contraffazione sfama migliaia e migliaia di persone, in più accelera il successo di certi marchi con la maggiore diffusione. Non certo per questo, però, va sostenuta o favorita. Da noi la contraffazione interessa i discografici e i videografici o la moda, più che gli editori.

SCARAFONE CONTRAFFATTORE PER AMORE

Incontrai Giorgio Scarafone all’ingresso degli scavi di Ercolano, 1’estate scorsa. L’appellativo di scarafone si giustifica dietro la sovrapproduzione melaninica della sua epidermide. Egli, però, si difende dicendo che i1 suo colorito è consone alla sua professione di tipografo, data la denominazione di arte nera attribuita alla stampa. Giorgio mi narrò, quel giorno, che era costretto, negli ultimi tempi, a lavorare, ironia della sorte, come un negro, nella sua bottega artigiana, non certo per essere coerente con i nostri tempi, cioè per avidità di danaro, ma perché, diagnosticato da molti specialisti come affetto da sindrome da ipersessualità cronica, riusciva ad ottenere adesione dalla consorte, nei continui, postulati rapporti, solo nei casi di congruo incasso quotidiano. «Quando le macchine stanno ferme, caro Mari, me la vedo brutta. E dire che avevo trovato il sistema per fregarla, in tutti i sensi… La sera portavo a casa due o tre assegni finti, sai quelli che stampiamo a scopo pubblicitario. Dove mettevo due milioni, dove cinque, per un mese intero, Marittiello mio, fu Sodoma e Gomorra! Una bella mattina quella stroscia che fa? Porta gli assegni in banca… Povero me! Mi costringerà a stampare i soldi falsi, un giorno!».

Ogni progresso è basato sull’universale desiderio,
innato in ogni organismo, di vivere meglio di quanto
consentano le sue entrate.

«Taccuini» – Samuel Butler

CAP. IV

MATERIALE TIPOGRAFICO E PROGETTAZIONE

L’artista e l’ultimo a farsi illusioni della sua influenza
sul destino degli uomini. L’arte non è una forza,
è soltanto una consolazione.

L’artista e la società” – Thomas Mann

LA CULTURA NAPOLETANA ALLE ORIGINI

Come ho accennato nel capitolo precedente Napoli non ha una sua storia della stampa, tranne notizie frammentarie che si possono attingere qua e là. Mentre, ad esempio, come abbiamo visto, la stampa veneziana in un certo senso predominava sulla cultura, nel Napoletano la stampa si asserviva alla cultura allo scopo di potersi espandere. E poiché mi accingo a stendere vari flash di compulsazione libresca relativa alla cultura napoletana, nella maggiore relazione possibile all’arte amanuense e a quella gutenberghiana, dovrò partire dalle origini. L’ossatura tecnica di questo capitolo è quella strutturale delle officine, dal materiale tipografico alla progettazione. Anche questo capitolo, pertanto, allo scopo di lenirne l’asetticità, è farcito di dissertazioni di vario genere.
Vedremo cosa accade nell’intimità delle officine e proveremo, mi auguro, lo stesso fascino che ci fa avvertire la storia antica, come, ad esempio, quella inerente la cultura napoletana. Sebbene diversi napoletani o meridionali in genere non abbiano poi quell’eccessivo entusiasmo per le lettere, si dice che un primo ordinamento dottrinario in Campania si ebbe col Sacrario della Sibilla Cumana in opera gia dal VII secolo a. C. I cumani, dunque, diffusero l’alfabeto nel Napoletano. Nessuno leggeva libri a Napoli, a parte i pochi iniziati, ma la storia veniva tramandata verbalmente con i fattarielli di sempre. Tanto più le leggende stavano sempre sulla bocca di tutti. Il popolo conosceva il poetico mito delle sirene fatto vivere nel nostro Golfo da Omero, sul quale, a furia di studiarci sopra non si sa più non già se sia esistito egli, ma la stessa Grecia, o l’Italia dove poggiamo i piedi. Questione omerica permettendo mi piace dire che 1’eroe di Itaca approdò a Ischia e fece fuori le tre figlie del figlio di Tetide in grado di imitare il canto melodioso della madre. Dice… ma che c’entra questo con 1’arte scrittoria? La letteratura riguarda la storia e 1’arte, la quale era in pieno fervore quando la città di Neapolis nacque nel V secolo a. C. Pur essendo un piccolo centro commerciale da fare invidia ai milanesi, la città non era insensibile all’influsso artistico e culturale ellenico. Quello romano, invece, di influsso, Napoli 1’ebbe, come molti sanno, con 1’opera letteraria di Marco Tullio Cicerone, (e chi volete che non lo conosca), il quale si fece costruire il Cumunan nella zona flegrea. Questa villa fungeva anzitutto da centro culturale, a parte qualche bisboccia, ma una di quelle eruzioni che hanno puntualmente sempre distrutto la mia Torre del Greco (che il Vesuvio 1’ha come copricapo) rase al suolo la casa del retore intorno al Lago d’Averno. Questo nel 1538. Dicono gli storici che Cicerone abbia composto Academica e Repubblica, in quella casa, ma vallo a controllare se ti riesce. No, perché col senso campanilistico che ci ritroviamo, non è difficile che si possa, in qualche occasione, affermare che Dante abbia scritto a Forcella La Divina Commedia, ispirandosi, in quanto a Beatrice, con Nanninella ’e Portacapuana, e l’Inferno con la Solfatara di Pozzuoli.
Freddure a parte, sappiamo bene che la Napoli romana ebbe, tra l’altro, la sua brava Scuola Filosofica ispirata, nientemeno, che a1 pensiero di Epicuro. E chi conosce le teorie del filosofo scioglierà da solo molti enigmi sulle abitudini caratteriali del popolo circumvesuviano. Questo movimento culturale sembra sia stato capeggiato da Filodemo e Sirone. (Scusate il tono anfibolo frequente. Purtroppo, da un po’ di tempo dalle nostre parti si e diffusa in maniera endemica la sindrome dello statt’accorto. Vale a dire non ti distrarre un attimo che in qualche modo ti fregano, non importa cosa: il borsello, 1’accendino, la camicia o le scarpe, 1’aria che respiri, il posto macchina, il sonno, 1’affetto, 1’amore. Insomma si sono verificati casi in cui hanno fregato la fregatura stessa, rimanendo fregati. Cosi si finisce col dubitare pure, perché no, della storia ufficiale!). Si dice che lo stesso Virgilio era discepolo di Sirone, che nella Napoli romana testimonia il fiorire della cultura di quel tempo.

A tutti coloro che pensano che 1’abbia vutata a pazziella, dirò che è vero, giuste le raccomandazioni della premessa sulla piena libertà concessami. Aggiungo, però, che spesso, in questi casi si scrive secondo vena e ambiente di lavoro. Questo libro, a parte la modestia, è desueto soprattutto da un punto di vista particolare. Credo sia uno dei pochi, se non l’unico libro al mondo, pensato, compulsato, coordinato e redatto direttamente sulla macchina compositrice linotipica, che, a differenza di una linda macchina da scrivere od un elegante computer, è la più asimmetrica, complessa, grossolana, sincronizzata, dirugginosa e conseguentemente fascinosa opera di meccanica evoluta mai costruita. Immaginate intorno a questo aggeggio da terzo girone lessici, testi di storia, manuali del settore e soprattutto le notiziole relative a scaturigini che insorgono spontanee lungo la giornata di lavoro, appiccicate dappertutto con lo scotch. E le correzioni o qualche ripensamento non gia fatti attraverso cancellature e aggiunte a penna, ma tramite uno spostamento meccanico ripetitivo di matrici nel compositoio. Quindi parole poggiate sui tomi, frasi intere, composte, dimenticate accanto al telefono. Una sera ho scordato un rigo intero di matrici nel WC. Decisi di sospendere il lavoro perché mancavano molte matrici di bassa cassa (le minuscole più usate) poiché la scorta di ogni lettera e di circa 20 pezzi. Insomma un lavoro da montaggio in macchina, come dicono i cineamatori. E così, secondo 1’umore della serata salta fuori la pagina.

Cicerone, Virgilio ed Orazio, scusate se è poco, costituiscono le fondamenta di quella cultura. Ma la città «otiosa» di Orazio rappresenta la prima frecciatina della storia sulla nota caratteriale oziosa dei napoletani, estesa, poi ai vesuviani tutti. E già, perché l’entroterra campano, appenninicamente più elevato sul livello del mare, favorirebbe maggiore vigore fisiologico in contrapposizione al secolare deperimento dovuto alla bassa temperatura costiera. L’accezione peggiore dell’ozio e senz’altro connessa ai fenomeni climatici. In tutti i paesi ipertemperati, dove si supera la soglia del parametro sudorifero, si riduce il vigore delle attività fisiche ed intellettuali, tranne la scaltrezza e 1’intelligenza che nell’ozio meditativo si acutizzano.
E nemmeno mi accingo, qui, ad esporre la fantasiosa teoria psicologica per cui la scaltrezza o l’aggressività caratteriale si riallaccerebbero a quei meccanismi reattivo-difensivi atti ad esorcizzare il timore salvifico post-mortale relativo all’inferno, che l’ipertemperatura terrena ci ricorda a livello inconscio in connessione a certe morali coercitive di stampo religioso. Fenomeno che si intensifica sempre più nei paesi caldissimi (vedi la densità confessionale degli orientali e quali reazioni aggressive scatena ancora oggi).
Dopo il periodo greco-latino della cultura napoletana la stasi perdura fino alla letteratura latina medioevale del VII secolo, con la conseguente disoccupazione cronicizzata degli scribi del tempo. L’arte applicata della tipografia partenopea ha sentito 1’influenza della cultura greca delle origini per alcuni tratti caratteriali del tipografo vecchia maniera che via via andranno delineandosi nel lavoro. Ma, finalmente, diamo uno sguardo molto ravvicinato alla tipografia europea dei cinque secoli nella specifica terminologia tecnica.

IL TIPOGRAFO VECCHIA MANIERA

I caratteri tipografici vanno in declino insieme al romanticismo. Essi rimangono legati alla letteratura classica, quella dei salotti di Mauriac, dei rimpianti di Proust, dei mesti turbamenti del melodramma e via dicendo. La stampa litografica e la rotocalcografia avanzate vanno a braccetto col Decadentismo, e, non a caso, col consumismo capitalistico, nonché con lo sviluppo demografico. Da geometria meccanica tridimensionale, la composizione tipografica si trasforma in struttura bidimensionale tramite la concezione fototecnica. Valutiamo da vicino 1’obsoleto materiale tipografico. E qui è necessario che adoperiate quel processo mentale che trasforma i segni fonetici delle parole in immagini. Oramai sappiamo a menadito, come e sfizioso dire, che tutti gli stili, finanche il gotico, derivano dai caratteri latini. Oggi lo distinguiamo in Romano antico, intermedio e moderno. I caratteri calligrafici sono, come suggerisce il termine, molto fluidi. Quelli fantasia sono elaborati e decorati, ma attingono sempre da stili già definiti e classificati. Le matrici di bronzo o di nichel per fabbricare i caratteri di piombo vengono prodotte col sistema della fresa-pantografo, di gran lunga più massiccia e di altissima precisione rispetto a quella utilizzata per incidere le targhe.
Agli albori dell’invenzione della stampa i caratteri mobili di piombo venivano coniati attraverso rudimentali formette a fondere. Col tempo questi sistemi andavano perfezionandosi. Solo alla metà del XIX secolo lo scozzese DAVIDE BRUCE fabbricò a New York la prima fonditrice di caratteri. Gutenberg adoperava delle casse per contenere i caratteri con più di 200 scomparti poiché usava molti logotipi. Oggi le casse hanno circa cento scomparti poiché i logotipi sono stati ridotti a una diecina: fi-fl-ffi-ffl-qu-ae, ecc. In Europa sono in vigore due altezze del fusto dei caratteri, 1’una altezza francese, 23.566 mm., la più diffusa in Italia; 1’altra altezza italiana 24,809 mm. Da notare 1’espressione in millesimi di millimetro. Ciò perché è necessario che tutti i fusti di una composizione, compresi gli altri elementi, come linee e cliché, abbiano rigorosamente la stessa altezza, onde poter ottenere una stampa omogeneamente perfetta. Purtroppo, ben presto, i residui d’inchiostro o 1’usura compromettono questa rigidezza tipometrica. Problema che non sussiste con la stampa planografica offset o rotocalco.

I fregi e i fuselli servono per decorare e guarnire uno stampato. Indispensabili i filetti, il carattere linea, tanto per intenderci, scuretti, chiari, punteggiati, ecc. I fili vengono fabbricati in ottone allo scopo di prolungarne la durata, vista la loro semplice struttura. La misura tipografica e suddivisa in punti, come quella metrica lo è in millimetri. Il punto tipografico misura esattamente 0,370 mm., praticamente lo spessore di un buon cartoncino. Infatti quando in una tipografia vecchia maniera vi è penuria di interlinee vengono usate le strisce di cartoncino. 12 punti formano la riga tipografica, come 10 mm. formano il centimetro. Per ottenere un centimetro occorrono oltre due righe tipografiche. Venti righe equivalgono a circa 9 centimetri, e così via.
Il metro del tipografo, guarda caso, si chiama tipometro. Nelle grosse e medie aziende da piombo, quasi scomparse o convertite o parzialmente convertite all’offset, il tipografo che conosce a perfezione tutto il materiale tipografico si chiama compositore. L’impressore è il tipografo addetto alle macchine da stampa ed ha una conoscenza sommaria del materiale da composizione. A Napoli ho contattato impressori che hanno raggiunto il pensionamento senza aver composto mai un rigo di caratteri. In alcune tipografie, per contro, vi sono tipografi ambivalenti, i famosi Don Simone stampa e compone. Nelle botteghe artigiane il tipografo è onnifacente e accentra su di se tutte le fasi di lavoro.
Questi lavoratori, nei quali mi riconosco, sono satelliti dipendenti dal complicato meccanismo mentale di eliocentrismo operativo. Le tipografie artigiane dell’angolo, non convertite o parzialmente convertite all’offset, sono armate di materiale tipografico fino ai denti grazie al massiccio mercato dell’usato. La marginatura, com’è facile intuire, è costituita da lingotti e barrettine più bassi dei caratteri e di tutti gli elementi stampanti che da essa affiorano. La marginatura, di piombo, duralluminio, bachelite, ecc, è insomma tutto ciò che si contrappone al visibile stampato. Tutto va sempre disposto nella geometria del rettangolo. Nel contesto del telaio, che serra le composizioni, i conti tipometrici devono tornare, come avviene in banca per il danaro. Un solo errore di calcolo compromette la tenuta del mosaico; la mobilità di un elemento provoca disagi allo stampatore. Più elementi mobili provocano inconvenienti più seri.
Il punto tipografico viene anche detto corpo quando si riferisce ai caratteri tipografici. Infatti si va dal corpo 6 al corpo 72. Dopo questa misura i caratteri vengono fabbricati in legno, di minor peso e di conseguente maneggevolezza, sono misurati in righe: da 8 a 100 righe, e oltre. La diffusione della stampa offset ha consentito anche al tipografo più sprovveduto di acquistare sul mercato dell’usato la diabolica Linotype, di cui tratterò ampiamente più avanti. La composizione manuale e, quindi, limitata ai caratteri da titolo e da avviso cittadino. Buona parte della terminologia tipografica è rimasta invariata anche dopo la diffusione quasi totale della stampa planografica: offset, rotocalco, eccc.

Ne ho raccolti caratteri dalle casse, da giovinetto. Un modo di iniziarsi alla cultura non già col libro ma dentro il libro. Amici soldatini dei bei tempi andati, della Tipografia Turris di Torre del Greco, di quella Editoriale presso la stazione Termini a Roma o quella annessa al Ministero della Marina sul Tevere, o della Genovese, al Pallonetto S. Chiara a Napoli, ed infine della mia bottega-bazar di Via Purgatorio a Torre del Greco.
L’aneddotica, tramandata verbalmente, relativa al comportamentale degli artigiani tipografi campani e vastissima, fantasiosa e grottesca. L’epilogo delle liti comporta, talvolta, lo impiastricciarsi a vicenda il viso con 1’inchiostro. Le delazioni vengono punite col caffè corretto al… petrolio. Altri aspetti rasentano il maniacale. Un anziano tipografo divideva la somma delle prestazioni per il numero di copie da stampare onde provare 1’ebbrezza dell’accumulo centesimato. Un altro tipografo dovette cambiare lavoro perché le macchine in movimento gli davano pulsioni erotiche.
Ah, tipografo napoletano che dici errore: fesseria!

I CARATTERI DI PIOMBO FUSO

STAMPANO L’ULTIMO CUORE DI NAPOLI

Ho gia specificato come la stampa tabellare fu uno dei primi tentativi dell’uomo di produrre in maniera ripetitiva 1’espressione figurativa. Non fu mai possibile, prima dell’acquaforte e della calcografia, però, riprodurre in serie, in maniera fedele, la pittura propriamente detta con le numerose sfumature e mezzi toni. Il mio popolo ha sempre amato 1’iconografia, forse perché suggestionato da quella religiosa; a cospetto dei vecchi codici si incantava sulle miniature e sulle vecchie stampe xilografiche e le commentava in pubblico. Nasceva il cantastorie che dal meridione d’Italia si espandeva sino al Nuovo Mondo. A prescindere dalla cultura napoletana connessa alla stampa su cui ci soffermeremo via via nel lavoro, il popolo partenopeo, sin dalle letterature romanze, non ha mai avuto molta dimestichezza con 1’alfabeto. Apprendeva la storia e 1’arte attraverso il teatrino dei pupi, fino alle rappresentazioni popolari della Commedia dell’Arte e il melodramma. Il popolo vesuviano era in cuor suo poeta ed artista e non ha mai attinto direttamente dai canoni della letteratura classica, in primo luogo perché l’analfabetismo, è inutile reiterarlo, nel meridione era quasi totale, in secondo luogo perché il benedetto clima non induce a concentrarsi sulle sudate carte, per dirla col pallido Giacomo che, nel suo soggiorno a Torre del Greco, preferiva l’ombra alla verzura.
Il popolo napoletano, più d’ogni altro in Italia, specie in passato è quello che più ha marinato la scuola, forse per l’atavica influenza epicurea delle origini. Proprio i compaesani hanno fatto orecchi da mercante alla estetica crociana. Dalla Serao fino al De Crescenzo attuale la forma non avrà mai priorità sul contenuto. Vedi la canzone napoletana condannata per retorica. Il potere gerarchico dell’espressione letteraria si trincera dietro i virtuosismi dei capiscuola o si arrende, tutt’al più, agli sperimentatori avanguardisti, i quali, se hanno fama possono permettersi anche ciò che, fatto da un povero cristo, sarebbe quanto meno oggetto di dileggio. Senza generalizzare, naturalmente, e con tutto il rispetto per i milioni di grandi autori della letteratura. Dice bene il proverbio: Fatti buon nome e piscia a letto, diranno che hai sudato? L’espressione adottrinaria sincera, ma colorita, semplicistica, ma palpitante, è, secondo la letteratura bene, solo zavorra di scrittore da dopolavoro rionale.
Come esistono le classi gerarchiche inferiori così si classifica una letteratura non già minore, ma da scandalo. Ma il mio popolo non si lascia condizionare dall’intellighentzia, con buona pace di Croce e De Sanctis, e continua con i premi letterari aziendali o ad alimentare un mercato discografico dove il testo e la musica attingono da moduli frusti e rancidi, ma immortali per chi, per una ragione o per l’altra, non diventa dottrinario e la cui sfera sensitiva risente solo i canoni impartiti dall’educazione domestica o quella della strada che, in alcuni casi, e l’anticamera della casa, fucina, talvolta, di candidati all’eslege. Sta ’ncopp’ ’a ’nu mala strada, oppure: E’ omm’ ’e miez’ ’a via. Queste espressioni suggeriscono come, i lazzaroni del Viceregno, spinti dal disagio e dal bisogno in un’esistenza esente da dimora fissa, ripiegassero con espedienti delittuosi come reazione all’emarginazione.
Il malavitoso delle origini, in pratica, era un uomo vessato dai soprusi ed veniva iniziato alla dissidenza sin dalla fase orale. Non era completamente fuori dall’etica o dalla cultura, ma emendava la morale e la legge a modo suo. Ogni azione umana delittuosa è ingiustificabile ed aberrante, individuale o corporativa che sia, ma ogni dissidente tende sempre a sopraffare la sopraffazione, finendo col prevaricare egli stesso. (Leggi La fattoria degli animali di Orwel). Legge e fuorilegge sono un dualismo come il bene e il male, l’amore e l’odio, contrapposti e irriducibili che fanno perno sullo stesso meccanismo di azioni reattivo-difensive dell’uomo.
La Napoli della vecchia letteratura oleografica, ad esempio, si lasciò non poco influenzate dai canoni comportamentali della vecchia camorra perché riconosceva in essa le suggestioni dei moduli delle antiche letterature romanze. I personaggi malavitosi del secolo scorso erano carichi di ardente umanità. L’onore, la giustizia, la morte onorata, erano il retaggio storico di Orlando, Rinaldo, Ruggiero, Astolfo e via dicendo. Non a caso gli scugnizzi che assistevano all’opera dei pupi, che esaltavano le gesta di tali eroi, venivano chiamati palatini e molti dei quali seguivano le fila dell’Onorata Società. I vecchi canoni d’onore della malavita attingono anche da quelli politico-religiosi del Medioevo, come avveniva nelle guerre sante. Nelle guerre fredde, invece, del XX secolo non vi è posto per i guappi generosi, ne per i Fra Diavolo o i ladri gentiluomini. Non sono degenerate le corporazioni, ma l’uomo, sempre psicologicamente più isolato nella folla, l’uomo che soggiace impotente sotto la coercizione di allettanti, ma nocivi modelli sociali, illuso da ideali effimeri, là dove l’allucinazione chimerica epidemica si estende in maniera capillare in tutte le fasce sociali.
Gli estremismi, le rivoluzioni, l’illegalità sono fenomeni di sempre, rappresentano alcune delle facce poliedriche della cultura millenaria, con 1’epicentro sul dualismo bene-male, altrimenti detto Dio-demonio. Una società in cui vengono compromessi i sostegni psichici fondamentali, ai fini dell’insoluto esistenziale, diventa una società più inferma, terrorizzata in cantina, dall’ossessione culturale dell’irreversibile destino di finibilità della vita umana. Aggredire e prevaricare nell’illusione di potenza fittizia, scaricando sui deboli e gli oppressi la dannazione del proprio destino di mortali.
La minaccia atomica esclude, inoltre, il palliativo della continuità ereditaria con eventuali intercessioni salvifiche. La finibilità individuale o collettiva senza sorta di palingenesi, la massima espressione della pochezza e dell’impotenza dell’animale uomo. I caratteri di piombo fuso stampano l’ultimo cuore di Napoli, la capitale di una razza che, per ultima ha resistito alla faccia negativa del progresso. Ho usato l’aggettivo negativa, e non esiziale, per evitare di trasformare questo libro nell’Apocalisse biblica, dato il ricorrente tema della morte. Ma cosa volete, 1’ho chiarito nella prefazione che la parte letteraria del lavoro veniva stesa sotto un’ottica psicosociale. Ebbene due sono i temi centrali della psiche: la morte ed il sesso. Del thanatos avrete gia piene le… tasche; riguardo il sesso, potrete attingerlo nei brevi aneddoti sul comportamentale napoletano passim nel testo presente.

LA LINOTYPE

Gutenberg inventò, o diffuse, i caratteri mobili, Mergenthaler, nel secolo scorso, perfezionò l’invenzione completando il prototipo della Linotype (linea di tipi). Entrambi si avvalsero di sperimentazioni del passato. Sono poche le tipografie artigiane vecchio stampo (è proprio il caso di dire) che non adoperano questa macchina straordinaria, che rimane nella storia come uno dei maggiori prodigi della meccanica. Dopo diversi tentativi di alcuni inventori, falliti spesso per motivi finanziari, OTTMAR MERGENTHALER nato nel 1854, tedesco anch’egli, avvalendosi di esperimenti dei suoi predecessori, nel 1886 portava a termine la Linotype. Non mi approfondirò nei particolari costruttivi in maniera analitica. L’intricata successione dei movimenti e la complessità dei sincronismi farebbero apparire inesplicabile la descrizione più minuziosa, togliendo merito alla potenza dell’alfabeto. Traccerò a grosse linee solo una sintesi del suo funzionamento, così come si svolge in questo momento sotto le mie mani.

Tutte le complesse e susseguenti fasi di ogni ciclo sono comandate da un unico gruppo di eccentrici, fissati su di un solo asse rotante. Il magazzino contenente le matrici è disposto in posizione obliqua nella parte superiore della macchina. Esso contiene all’interno solitamente novanta canali, in ciascuno dei quali slittano in caduta una ventina di matrici per ogni lettera alfabetica, più la punteggiatura e le maiuscole. I segni speciali vengono inseriti a mano nel compositoio della macchina.
La tastiera alfanumerica (minuscole e maiuscole separate) aziona delle barre verticali che, durante lo sfioramento dei tasti, spingono dei dispositivi di sganciamento disposti nella parte inferiore del magazzino. Ciascun tasto sgancia la matrice voluta che va ad allinearsi in un compositoio mobile, il quale, a rigo ultimato, va a posizionarsi innanzi alla forma a fondere, dietro la quale un pistone affonda nel crogiolo di piombo fuso perché si formi rapidamente la barretta gia solida e improntata lungo la linea di matrici del compositoio mobile. Indi questi si posiziona innanzi ad un braccio meccanico che preleva le matrici per riscomporle automaticamente nel magazzino. Il rapporto di tempo tra un rigo composto a mano ed uno linotipico è almeno di 1 a 6, senza contare il tempo risparmiato per la scomposizione, e soprattutto l’assenza di usura dei caratteri, poiché, a stampa ultimata, i righi vengono rifusi per formare nuove linee di scritto. (queste tecniche sono oggi (albori del 3° millennio) obsolete e praticate solo per lavorazioni speciali o in aree geografiche retrograde. N.d.r.).

MASTRO LUIGI FICASECCA

Dovremo, tra poco, trattare la progettazione tipografica che nelle botteghe avviene raramente sulla carta, proprio come ha sempre operato Luigi Ficasecca, un anziano tipografo del capoluogo campano. Lavora ancora e da solo, malgrado le 80 primavere, perché, come me, dice di avere il piombo nel sangue, non, pero, nel senso del saturnismo. A dire che nel dopoguerra aveva un organico di cinque camici neri, sei tute blu e due grembiuli bianchi, quest’ultimi, tiene a sottolineare, coprenti molta opulenza. «Ma cosa vuoi, caro Luigino, figlio mio, ca figlio mi puoi essere, anzi nipote, se non pronipote, cosa vuoi, una vertenza sindacale oggi, una domani e sono finito in mutande».

Il boom economico incominciava a dissolversi negli anni 60-70, ma le botteghe sorgevano ad ogni angolo. Le amministrazioni imbandivano spesso gare fittizie. In poche parole transitava un periodo di crisi ancora oggi per nulla risolto. Spesso rivedo Luigi Ficasecca nel suo monolocale, angusto, fuligginoso, unto dappertutto. Stanco, emaciato, curvo sotto quell’aria affettatamente esuberante di sedicente direttore tecnico. A lutamme, rispondeva al mio fugace saluto formulato sull’uscio della sua bottega, con l’aria derisoria e beffarda quanto puerile che assumono i candidi quando vogliono apparire sarcastici, allo scopo di saziare gli occhi del mondo, l’opinione altrui. ’A munnezza, contrabbattevo io

ricusando il doppio senso di a lutamme, che non sta per salutamme con aferesi della s, ma come a lutamme: il letame. Altre volte adoperava come intercalare in risposta ad un cenno di stupore: E tu che te credive ca ch’era?, dove gli ultimi lemmi non stanno per cos’era, ma cachera, ora più esplicito; e via dicendo.

L’ultima volta che mi recai a Napoli per rifornimenti presso il Corpo di Napoli, dove si concentrano diversi fornitori per arti grafiche, decisi di fare una scappata pure da Luigi Ficasecca, magari sfrocoliandolo sul non aver mai capito un fico dell’arte nera. Era raggiante nel suo tugurio. Mi disse che aveva ripreso 1’hobby di essiccare i fichi al sole per le ciociole di Natale. Facevo finta di non accorgermi che aveva, almeno apparentemente, assunto un apprendista. Alla fine sbotto: «Ma ’o vide ’o guaglione, o no?». Aveva gli occhi lucidi. Sembrava un regnante detronizzato e diseredato che, sul lastrico, dopo mesi di stenti, ripiegava con uno scranno in luogo del trono. Al mio sorriso solidale non trattenne le lacrime. Le pressioni nostalgiche premevano troppo dal basso. Ed io gli volevo bene, amavo la scimmia umana, mio simile, che impazza da adolescente con l’ardore, l’impetuosità, l’azione. Poi sorge, gode, folleggia la giovinezza, indi lotta e difende la sua posizione, poi cade, poi annaspa, difficilmente si risolleva definitivamente, anche perché incombe la drammatica fase senile. Luigi Ficasecca si terse col fazzoletto quel viso villo e grinzoso e riprese a parlare del più e del meno. Discutemmo sul lavoro clientelare, la crisi economica, le pressioni fiscali. Dopo che avemmo centellinato una bibita il ragazzo sbircio l’orologio da polso e senza fiatare raccolse una banconota dalle mani del vecchio ed in piena mattinata guadagno 1’uscio. Mi baleno l’ipotesi di una settimana supercorta, ma 1’uomo dissipo subito le mie congetture.
«Caro Mari, tu sei giovane, certe cose le puoi e non le puoi capire. Ciccillo non lavora qui… Insomma… lavora e non lavora… Oggi l’apprendista prende la paga di un operaio, tanto vale metto a lavorare mio genero che si puzza dalla santa fame. Il ragazzo… sì Ciccillo, viene qui tre o quattro volte la settimana, giusto un’oretta. A me la nostalgia mi uccide, figlio mio: rimpiango i miei bei tempi, malgrado le due guerre e gli anni ruggenti… Ero un piccolo signore, mi mangerei le mani a morsi. Mannaggia a Garibaldi e gli americani, mannaggia! …Ciccillo sta qui giusto il tempo per potergli fare una cazziata, che so: una tirata d’orecchi, qualche volta pure un calcio nel sedere, senza cattiveria, però, in buona fede. Alla fine prende diecimila lire e se ne và. Così restiamo soddisfatti tutti e due».

Quando, divertito, gli dissi che aveva escogitato un ottimo sistema, rispose che era sorto un altro problema: «La mattina, fuori la bottega, faccio folla folla di scugnizzi. E chi mi chiede tremila lire per uno schiaffo, chi quattromila lire per una carocchia. Uno ieri mattina mi ha chiesto centomila lire per una mazziata generale, dicette: vi concedo pure la lavarella di sangue. Io, prima che mi arrestano per sadicità prendo la mazza di scopa e li caccio, così abbuscano lo stesso, ma senza una lira».

LA PROGETTAZIONE

Vi sono tipografie artigiane che non adottano nessun metodo di progettazione. Pure nel caso di stampati più complessi l’ideazione e la scelta realizzativa avviene mentalmente, per così dire, affacciati sul piombo. Molti miei colleghi torresi e campani ideano tutto di getto, sfruttando l’immediatezza della creazione. Il buon risultato del lavoro è anche dovuto alle numerose esperienze precedenti. Io stesso adotto questa procedura nella mia bottega di Via Purgatorio, indipendentemente dalla tecnica o veicolo di stampa adoperati. Tutti i calcoli sono empirici ed immediati, sebbene si tratti molto spesso di stampati di piccola entità, non per questo, però, di poca importanza o di basso prestigio. La progettazione tipografica eseguita in uffici appositi riguarda le grosse aziende partenopee, che oggi stampano prevalentemente in offset ed utilizzano la fotocomposizione computerizzata e lo scanner elettronico per la riproduzione di immagini onde poter realizzare, in tempi relativamente brevi, le matrici da stampa. In questa prima fase di lavoro tutto viene ideato, progettato ed eseguito in camice bianco, come in ospedale. I camici scuri relativi all’arte nera sono sempre più rari a vedersi.

Nelle medie tipografie campane la progettazione avviene nello stesso ambiente di lavoro attraverso calcoli e schizzi eseguiti poco prima di intraprendere il lavoro di composizione. Il proto, generalmente il tipografo più anziano, conosce a perfezione tutto il materiale tipografico esistente in officina. Egli è il coordinatore di tutto il lavoro. I nostri tipografi compositori sono dotati di uno spiccato senso pratico e, da buoni campani, di una fertile fantasia, pur se questa categoria è in estinzione. Da questo estro creativo nascono i prodigi del collage meccanico tipografico. I compositori campani per secoli hanno saputo assemblare, con gusto ed eleganza, i pezzi prefabbricati di cui disponevano, che in un certo senso somigliano al contenuto di un lessico. Le parole, similmente all’attrezzatura tipografica, solo se combinate con sentimento, talento, virtuosismo, e perché no, con una punta di artificiosità, danno sorprendenti risultati.

Oggi le macchine hanno priorità sull’individuo e lo spersonalizzano, e credo di non esagerare, finoall’annichilimento. Estinti, ormai, i tempi in cui si aspirava ad imparare l’arte per metterla da parte. Oggi un operatore è un numero, facilmente sostituibile, un pezzo di ricambio qualsiasi, da utilizzare finche è efficiente, e da buttar via non appena consumato. E il logorio avviene precocemente, oggi, perché l’uomo è svigorito dalle macchine.

Passati i tempi in cui, adolescente, sgambettavo magro e spaurito, restio agli studi regolari, nella stamperia di Don Ettore, una delle prime tipografie di Torre del Greco. Sin dal primo impatto col materiale tipografico, nelle cupe e fuligginose tipografie del secondo dopoguerra, appresi che la conoscenza dei caratteri e la padronanza d’uso determina la loro giusta collocazione. Questa maestria e alla base di tutte le composizioni tipografiche, anche nella versione fototecnica offset. L’operatore grafico della terra vesuviana, sovente, senza alcuna cognizione teorica o dottrinale è maestro a orecchio. Ha sempre plasmato e modellato le sue composizioni tipografiche con sorprendente senso pratico, forse ignorando che l’arte tipografica si riallaccia, nel tempo, alle influenze dell’arte pittorica e dell’architettura.

Da tempo, ormai, sono state introdotte nelle sia pur sparute scuole grafiche le moderne tecnologie relative alla stampa offset, trascurando i sistemi tradizionali. I nuovi orientamenti sono incentrati sulla fototecnica grafica, sul disegno, sulla composizione elettronica e, conseguentemente, sulla ripresa fotografica e montaggio. Beninteso, non è necessario essere pittori o disegnatori di professione per diventare valenti tipografi, sia con i vecchi che con i nuovi sistemi. E’ importante, però, che si abbia gusto artistico, senso delle proporzioni, sensibilità armonica, predisposizione, in una parola, l’euritmia. Si deve almeno saper distinguere un buon disegno da uno scarabocchio o un ammirabile dipinto da una crosta. Ci sono dei bravi disegnatori, ad esempio, che sono dei tipografi mediocri, se viceversa, è meno grave. Lo stampato tipografico allo stato di abbozzo, va interpretato come un canovaccio da palcoscenico. Impostato con gusto e sobrietà, quindi caricato e modellato con la personale forza espressiva attraverso il gioco degli elementi, sia nel caso di caratteri mobili, filetti e cliché, che in quello dell’assemblaggio fototecnico.

LE ARTI APPLICATE (LINFA DELLA VECCHIA NAPOLI)

Gli italiani del nord, date le loro caratteristiche somatiche, si avvicinano ai gruppi etnici europei; i meridionali, chiaramente, ai gruppi razziali del sud, vale a dire quelli del Continente africano. A prescindere dal fattore etnico vi è un’altra sorta di contagio da tener conto, ed è quello dell’assuefarsi ai tratti caratteriali dei popoli viciniori, al di là delle influenze di natura politica. Gli italiani del nord hanno molto appreso dall’Europa confinante, debarbarizzata e civilissima, nazionalsocialismo a parte, sebbene la civiltà, per dirla col padre della psicoanalisi, ha nevrotizzato il vecchio mondo. A parte la questione meridionale risolta solo nel senso che il benessere del sud è dovuto al potere eliocentrico del nord, con quali modelli viciniori, dopo l’Unità d’Italia, hanno avuto il modo di identificarsi i meridionali moderni? La nostra evoluzione rimane sempre in uno status quo da cenerentoli, stagna sempre in una dipendenza vassallica?

Devo spezzare una lancia a favore del nord Italia, perché si sta verificando la tendenza alla perequazione, nel bene e nel male. Nel sud non si può parlare più di aree molto depresse, come all’inizio del secolo; mentre nel nord non si può riscontrare una buona qualità della vita, almeno a livello psicologico. L’economia del sud si solleva, sebbene manipolata dai cisalpini e dalle multinazionali che puntano soprattutto sulle masse più sprovvedute, maggiormente disponibili alla grancassa propagandistica perché più inclini agli entusiasmi delle appariscenze. Noi meridionali siamo degli ottimi consumatori, ma che cosa produciamo se le nostre risorse, agricoltura ed artigianato, vanno alla malora? Il sud, in pratica, beneficiando in parte dello sviluppo nazionale, non si realizza nelle sue risorse naturali (vedi pure il turismo in parte compromesso) ma si settentrionalizza come una colonia del nord. Gli africani e gli arabi non possono che offrirci sentimentalismi accesi e ardori religiosi come modello sociale, di cui abbiamo avuto piene le tasche per millenni, ma che ci aiutavano a lenire l’angoscia esistenziale, non di meno la realizzazione individuale nel lavoro a misura d’uomo, sia pur svolto sempre in condizioni precarie ed aleatorie, il famoso vivere alla giornata, ma con la viva speranza di un domani migliore.

Il deterrente atomico stagna la stasi politica internazionale. Le speranze di rinnovamento, le ambizioni, le lotte sociali sono smorzate sul nascere. Le arti applicate, linfa della vecchia Napoli, vanno lentamente e pietosamente estinguendosi, tanto da non farcene neppure accorgere, e con esse le tradizionali botteghe, immediatamente dopo la loro massima esplosione numerica che la storia campana ricordi. Si estinguono dietro le pressioni fiscali, sindacali e multinazionali, cieche davanti alle condizioni sfavorevoli di un’area geografica. Le evoluzioni fiscali e sindacali sono giuste e sacrosante, applicate ai settori giusti. Le botteguccie dell’angolo, neglette e tapine, che in passato assorbivano una grossa fetta di adolescenti post-scolare, dovrebbero essere sottoposte a delle leggi speciali che vanno al di là dello sfruttamento minorile e del lavoro nero, degenerante e abominevole in una società moderna. Con la tradizione artigiana in crisi, in passato così connessa e amalgamata nel costume del popolo partenopeo, insieme all’acutizzarsi della crisi esistenziale individuale dell’uomo, si dissolvono tutte quelle forme comportamentali di socievolezza, solidarietà, altruismo, in una frase, quelle di un popolo d’amore, per dirla con Luciano De Crescenzo. Napoli perde il candore di una volta. Il cittadino vesuviano diventa adulto, perde l’immaturità e la salutare incoscienza del passato che lo faceva guappo d’onore o santo. Si avvicina alla teoria dello struzzo, assume sembianze megametropolitane, si allontana dall’idea di Dio dentro l’uomo, della sua enorme potenzialità d’amore. Non disdegna i tabernacoli solo perché apotropaici e, per la prima volta nella storia, resta obnubilato innanzi alla sua stessa paura. Sente l’angoscia del suo nuovo ruolo di pedina venduta al progresso che offre solo ideali effimeri e precari. Non spera più nella libertà, che esclude il bisogno né di comandare, né di obbedire. Dimentica di lasciare in pace se stesso, che è l’unica maniera per lasciare in pace gli altri. Oblia il sesso come puro atto d’amore, pur se lo ripete dieci, cento, mille volte, nella sua foga passionale di meridionale virile. Egli inizia a mitizzare i plutocrati ed i tesaurizzatori e come loro incomincia a nutrire qualche sospetto sulla propria atavica virilità, dietro il cogitare freddo dei dottrinarismi divulgati.

Nelle vecchie botteghe tipografiche cupe e fuligginose, spopolate e decadute, io vedo la napoletanità e la vecchia Citta-regno che muoiono nella loro oleografia più autentica e palpitante in quel sincretismo di povertà e gioia di vivere. L’adolescenza, nella terra vesuviana d’oggi, prostrata anch’essa sotto gli ideali effimeri dello sport mitizzato e della musica importata, certa di genere paranoicale, quale coerente colonna sonora delle nevrosi, è trasformata nei romantici congeniali turbamenti post-puberali, dietro una precoce problematica esistenziale.

Dov’è finita la confusione faccendiera urbana della mia Torre del Greco, distrutta dal Vesuvio e ricostruita diecine di volte, attingibile dalla letteratura d’arte e d’informazione post-bellica? E prima di proseguire in questo stralcio di sapore retorico rispondo alle smorfie rinitiche di qualche progressista. Qui non se ne fa una questione di componenti nostalgiche esasperate o di pessimismo progressista a copertura di carenze psichiche personali. Mettere sul tappeto i malesseri di un’epoca vuol dire tentare di rimuoverli. Se avessero ascoltato Leopardi nel secolo scorso, invece di rivalutare la sua filosofia solo oggi, forse molti mali si sarebbero prevenuti. La vita è bella in se stessa, ma la teoria dello struzzo guasta questa realtà. Già la cultura ci ha insegnato: dipartire per morire, amplesso per coito, così non abbiamo mai guardato con chiarezza in faccia la morte e il sesso e li sentiremo sempre misteriosi. Viviamo in una società senza dubbio più comoda, rispetto al passato, meno cruenta e, tirando le somme, politicamente tollerabile in confronto alle angherie politiche della storia, ma la nevrosi di massa planetaria odierna, dovuta a svariati fattori di evoluzione o involuzione, va risolta né con le rivoluzioni né con la violenza, ma con la riflessione. Perché non ci troviamo, come al solito, di fronte ad una crisi politica quanto a cospetto dell’esasperarsi dell’antico insoluto esistenziale dell’uomo, sostenuto in passato da molti sostegni psichici a misura di razionalità umana. Spero tuttavia, malgrado l’apparente caotica babele dei giorni nostri, che molte persone si sentano fuori da questa orbita, e che sappiano indicarci, nel futuro atomico, uno sbocco plausibile. In aggiunta dirò, a qualche barbassoro-culturalista, che ho superato la fase relativa a1 famoso aneddoto freudiano: “Quanta fatica letteraria fa costui per coprire i problemi personali”.

Dove sono le strade palcoscenico, 1’umorismo delle logorroiche meliche voci popolari? Ben venga la retorica oleografica, rivogliamo i tepidi soli, gli eterni tepori di primavera. Rivogliamo gli usci con le fornaci fumanti al posto dei cancelli automatici con videocitofono; le capere in luogo dei giornali di pettegolezzo; le tinozze o le braci con le rigogliose spighe bionde al posto dei pub con gli amburger e i crauti. Agogniamo la sinuosità delle forme del più salubre eterno femminino e non le mascoline silohuette delle manequin. Ben ritornino le camicette di seta sui seni floridi. Vadano a farsi benedire gli stilisti miliardari moderni con le loro felpe sintetiche firmate, le borse policrome ad armacollo ed i pantaloni casual unisex variopinti e guallarosi. Forse, però, i progressisti l’avranno vinta. La mia cittadina alle falde del Vesuvio, amena e ridente, come leggo da secoli sui libri di storia locale, non ridarà mai più alle fanciulle quelle labbra carnose sulla bocca larga e voluttuosa senza il belletto, il roseo naturale alle guance prive di fard, lo splendore ai denti d’avorio tersi con bicarbonato, gli occhi luminosi privi di mascara. Alcuni dedali sono stati risanati nella mia Torre del Greco. Falansteri di cemento armato fagocitarono le romantiche magioni-giardino delle costruzioni spagnole.

Mai più vedrò fanciulle alle finestre dagli infissi detti pezzi d’opera, da lavare e lucidare nelle prossimità pasquali. Occhi dolcissimi e sereni, mimetizzati tra vasetti di garofani e rose, le nostre rose, i garofani di Torre del Greco, rossi come il fuoco del Vesuvio. Immagini a mezza strada tra il mistico mariano e la passionalità shakesperiana. La mente richiamava epos trovadorici e cavallereschi che accendevano il meridionale ardore. Ahimé! Il Decadentismo si faceva avanti, la letteratura moderna analitica ed introspettiva aveva a mano a mano i consensi popolari ed interessava pure gli editori campani. La retorica alla gogna. Pure i giovani dei dedali erano suggestionati dai dialoghi interiori di Joyce e di Svevo o dallo sconvolgente pensiero di Nietzsche. Ancora Fromm e Jung e tutti i neofreudiani. Il giovane meridionale si accorge di aver addentato la mela. Determina che l’attrazione intensa per la fanciulla del cuore è solo una condizione mentale, un’elaborazione culturale dell’idea dell’amore. E sospetta, con amarezza, che quella folle passione che intende placare, non è, in fondo, amore per lei, ma per se stesso, attraverso lo specchio di lei.

La vecchia Napoli dei guantai, dei ciabattini, dei dolcieri, degli ambulanti, dei tipografi del piombo fuso tramonta inesorabilmente. Facciamo una capatina in queste botteghe, finche saremo in tempo.

IL LAVORO DELLE BOTTEGHE

Eccoci di fronte all’arte applicata propriamente detta. Da sempre i movimenti artistici relativi alla pittura, architettura e via dicendo, vanno a braccetto con la tipografia, o viceversa. Ciascun lavoro tipografico, per certi versi, non e meno di un messaggio d’arte, cioè 1’elaborazione e la realizzazione grafica di un’idea del bello. Nella progettazione con materiale tipografico, ad esempio, i caratteri parlano. Il disegno di uno stile: Bodoni, Romano, Gotico, Garamond, ecc. non è solo il risultato fortunato di una elaborazione più o meno artistica dell’alfabeto. La forza delle aste o la leggerezza dei tratti, gli svolazzi, la grazia dei contorni e la vivacità dei toni suggeriscono l’uso appropriato, quindi connaturale dei caratteri scelti. L’esecuzione del lavoro nelle botteghe artigiane avviene spesso in maniera frammentaria a causa della scarsità degli addetti alle svariate mansioni.

Forse il mio caso è emblematico. Spesso la mia giornata, come la via che mi ospita, e un purgatorio. La bottega angusta, come tutte le altre della terra vesuviana. La strada sempre a portata di mano. Le nonnine del gerontocomio adiacente richiedono la scrittura manuale di missive da destinare ai figli lontani, facoltosi, ma ingrati. Il falegname od il macellaio di fronte che domandano ora un cacciavite, più tardi un autoadesivo onde mimetizzare l’ammaccatura alla Vespa. Punto lo sguardo su di un avventore e dò un’occhiata di sbieco all’apprendista che mi domanda delucidazioni sul tono di un colore. Intanto l’orecchio è teso al trillo del telefono. Una mano è gia allungata sulla tastiera della Linotype per comporre un rigo di correzione. La consorte Rosaria mi chiede spiccioli per il resto. Ma ci sono i cinquanta avvisi di lutto da tirare. Un salto da una macchina all’altra con gli stinchi indolenziti per le contusioni contro le cassette di piombo o le pedane impilate. Quindi un calcolo tipometrico in piedi. Un occhio sul taccuino e l’altro che osserva la qualità di stampa all’uscita della platina. La bocca da un lato sorseggia un caffè corretto ai moscerini, dall’altro aspira un’ampia boccata di fumo per sedare lo stress. Per fortuna non è sempre così.

Nelle ore di minore traffico si provvede all’assemblaggio delle composizioni. Questa operazione richiede rilassamento e concentrazione. La disposizione delle righe deve essere tale da garantire una buona leggibilità. La lunghezza di uno scritto, ad esempio, deve essere proporzionale alla grandezza e allo spessore dei caratteri. L’interlinea tra un rigo e l’altro deve seguire una regola ottica suggerita dal gusto e dal senso delle proporzioni. Il lavoro del tipografo compositore, per certi versi, è più difficile di quello del grafico montatore offset, perché il tipografo da piombo deve operare attraverso una tecnica decisamente decorativa e ornamentale, coi relativi limiti creativi, poiché utilizza esclusivamente materiale prefabbricato, le cui disposizioni vanno eseguite sempre in parallelo o comunque con angolazioni a 90 gradi. Difficilmente può disporre elementi in posizione obliqua o circolare a meno che non ricorra ai cliché. Il tipografo da piombo, rispetto al grafico fototecnico, gioca molto sul gusto e sull’equilibrio delle proporzioni. Esso è un collagista meccanico che assembla dei magistrali mosaici, pur non disponendo di totale liberta creativa, se non, appunto, nei limiti del materiale prefabbricato, che esclude la geometria delle curve. Il tipografo da piombo, tra qualche anno, sarà solo un ricordo.

Sin dalla scoperta dei caratteri mobili il tipografo ha sempre coniugato le lettere con le immagini; pensate i napoletani, con la loro predisposizione all’iconografia. Solo la televisione ha offuscato l’endemico culto del fumetto dei ragazzi campani. Sebbene si possa pensare il contrario, le lettere predominano sull’immagine a causa del loro netto contrasto. Equilibrare le masse e le forme in qualsiasi fatto grafico è una delle regole fondamentali del tipografo. Quasi tutti gli addetti ai lavori delle tipografie campane sanno che le lettere e le immagini vanno disposte ed alternate con un ritmo proporzionale, suggerito dal senso critico interpretativo personale e avvalendosi di esperienze precedenti personali o di terzi. La spaziatura deve essere armoniosa, coadiuvata da una sicura scelta dei bianchi. Si dice che la bravura di un autista si misuri dal freno, ebbene io aggiungo che la maestria di un tipografo si misura dai bianchi. Tutte queste regole conducono all’euritmia, la preventiva disposizione armonica, cioè, di tutte le parti che determinano la gradevolezza visiva di uno stampato.

Non sempre, però, l’assemblaggio della materia grafica deve seguire le stesse regole. Vi sono dei casi in cui si presentano degli stampati destinati ad utilizzatori particolari che dietro peculiari motivi, lo osservano sotto un’ottica diversa da quella convenzionale. La mia piccola bottega artigiana, ad esempio, realizza ogni tipo di piccolo lavoro, dalla carta da visita alla partecipazione di nozze, dal volantino all’avviso murale cittadino, (utilizzando sia caratteri di piombo che lastre offset di piccolo formato), stampati, cioè, di uso domestico o relativi alla piccola grafica pubblicitaria di livello locale. Uno stampato destinato all’osservazione popolare dovrà contenere delle caratteristiche grafiche di assimilazione diverse da un catalogo, ad esempio, che interessa dei conoscitori d’arte. Un volantino dovrà essere coerente al genere di prodotto pubblicizzato e fedele ai fattori ambientali dei suoi utilizzatori. I cittadini campani, ad esempio, sono ligi alle tradizioni figurative, alle ampollosità geometriche: non possiamo sottoporre loro un volantino con ampie aree di bianco e una grafica avanguardistica, questo comporterebbe diffidenza non già nei riguardi del tipografo, ma dell’intestatario. In altre parole il tipografo deve in alcuni casi ridurre la propria cultura grafica ed abbassarla ad un rango creativo inferiore; talvolta dovrà modificare le proprie capacità, dirottandole verso 1’indirizzo verso cui è destinato lo stampato.

L’avviso murale cittadino, diffusissimo nella terra vesuviana, impropriamente detto manifesto, forse per estensione, sarà concepito e interpretato in modo diverso da una carta da lettera, non solo perché il primo viene osservato a distanza rispetto al secondo, ma poiché sono due stampati destinati ad osservatori diversi. Il tipografo, specie quello artigiano, addetto alla progettazione, deve essere anche, non dico psicologo, ma almeno intuitivo e perspicace. Egli deve spaziare la fantasia e combinare nella maniera migliore le soluzioni teoriche con quelle pratiche della vita quotidiana. Oggi però il tipografo della bottega, in barba agli operatori offset, può valorizzare il vecchio sistema tradizionale con l’ausilio della sostanza fotopolimerica, la quale, almeno per la fase creativa, elimina i limiti imposti dal materiale tipografico a caldo. I fotopolimeri consentono di ottenere i vantaggi fototecnici dell’offset pur stampando in macchina tipografica, e sostituiscono degnamente il complesso sistema zincografico eseguito da specialisti scissi dalle tipografie. Mai nessun tipografo si è cimentato nella fabbricazione di clichè zincografici proprio a causa della complessità di esecuzione, specie per quanto riguarda la fase di acidazione. I fotopolimeri oggi si sviluppano in acqua di rubinetto, ma hanno un costo di gran lunga superiore a quello delle lastre offset.

Bisogna riconoscere che la fototecnica consente di evolversi e spaziare la fantasia creativa. I metodi di elaborazione fotografica favoriscono soluzioni altrimenti irrealizzabili. L’ingrandimento o la riduzione di una scritta, la sua inversione in negativo, l’illimitato uso di elementi geometrici curvi sono indispensabili nella grafica corrotta da ogni tipo di innovazione. L’illustrazione negli stampati è una trovata antichissima, ma oggi viene concepita non solo come elemento complementare più o meno essenziale nel contesto grafico, ma come necessario impasto del nuovo linguaggio grafico a cui l’osservatore moderno si è avvezzato. L’alfabeto da solo, o interrotto da qualche figura si rivela graficamente insufficiente. La forza di attrazione delle cromotipie, le immagini fuse col testo o il testo fuso con le immagini, insomma il connubio alfabeto-figura costituisce forme espressive ricche di ricercatezza a vantaggio della gradevolezza visiva cosi diffusa dalla fotografia propriamente detta, dal cinema e dalla televisione, specie se l’assemblaggio è concepito con un ritmo sobrio ed equilibrato da facilitare al massimo la lettura e l’osservazione.

LA CULTURA NAPOLETANA NEL MEDIOEVO AMANUENSE

Prima di concludere il capitolo sulla vecchia tipografia diamo un’altra occhiata alla cultura napoletana relativa all’arte scrittoria. Dalla Neapolis greca, poi latina, soprassedendo sugli apologisti e i Padri della Chiesa che, sembra, non abbiano avuto con Napoli molto da spartire, ci soffermeremo sulla cultura latina medioevale napoletana. Gli amanuensi dei monasteri napoletani, specie quelli di S. Severino, copiarono a iosa gli antichi testi classici greci. La storia ci ricorda che i monaci napoletani, sotto la guida dell’abate Eugippio, trascrivevano molti codici antichi ed eseguivano trascrizioni tra greco e latino. Aveva, naturalmente, carattere prioritario la letteratura agiografica poiché S. Girolamo proibiva il trattamento completo dei testi pagani. Spesso nel lavoro di esegesi e nelle traduzioni i monaci assumevano l’arbitrio di apporre interpolazioni o estrapolazioni allo scopo di dare un senso cristiano alla quasi totalità dei concetti.

I vesuviani leggono poco, dicono le statistiche, figuriamoci dodici secoli fa. Vi è quasi una idiosincrasia verso la lettura, un fastidio epidermico, dovuto ad un disallenamento secolare. Nella totale ignoranza del popolo napoletano dell’Alto Medioevo i monaci rappresentavano gli unici sostenitori della cultura della Napoli Vescovile. La lettura è come il vino, va dosata, ma molti napoletani del popolo preferiscono esserne astemi, hanno imparato già abbastanza a leggere nel libro della vita. Infatti, come dice il proverbio, molti sono quelli che insegnano a leggere, pochi quelli che insegnano a vivere. I lavori moderni di ermeneutica e filologia vengono compiuti in larga parte su quei testi tradotti in latino dal greco e viceversa. Pertanto è improprio, a pensarci bene, definire opera culturale in senso stretto quella dei monaci, forse è più esatto parlare di “editoria manuale”. Il monaco metafraste non dà nessuno apporto artistico, creativo, storiografico o filologico. Il frutto di questi amanuensi rappresenta, però, l’embrione delle successive scaturigini culturali medioevali. Sappiamo quanto abbiano, quei codici, influenzato Paolo Diacono, il longobardo così dentro la cultura partenopea intorno al 750. Egli fu il fautore della poesia epigrafica dell’Italia meridionale.

Vi furono in Campania molti sostenitori di questo genere letterario, ricco di espressioni tronfie ed esaltanti. Non mancò, però, chi formulasse epigrafi denigratorie contro il nostro popolo, come il Principe di Benevento:”Il popolo napoletano si salva solo per la sua scaltrezza e la sua perfidia”. E meno male! Che volevano vederci per secoli e secoli proprio ai piedi di Pilato? E 1’altro bellimbusto, certo Ausenzio di Nola che fece scrivere, tra l’altro, sulla sua tomba: Ladruncoli partenopei. Il… malocchio, però, non perdona? Morì combattendo i napoletani intorno all’850.

Forse attinse da questa fonte chi fece affiggere, undici secoli dopo, dei cartelli nella stazione ferroviaria di Napoli: Attenzione, città di ladri. Si era nell’immediato dopoguerra, ma al malocchio, da un po’ di tempo, neppure i napoletani credono più.

A prescindere dal fenomeno fastidiosissimo della generalizzazione, è strano che il mio popolo sia visto sempre sotto due aspetti contrapposti e irriducibili: estrema bontà o notevole aggressività, spesso con irrazionale compiacimento. Da Malaparte in poi questa moda si è infervorita, giornalismo, televisione e cinematografo hanno sempre insistito su questo dualismo. Non esiste un popolo di individui bianco-neri. La bontà e la cattiveria spesso sono delle condizioni mentali aleatorie, latenti in ogni individuo. La malvagità consueta è presente nella minoranza, che, purtroppo, talvolta, per motivi epocali, acquista sonorità proprio perché ha carattere incidentale, quindi desueto. Il popolo napoletano è una razza di Esposito, nel senso politico. Dominato dieci, cento volte nella storia, non appartiene ad un ceppo genealogico monogamico, politicamente parlando. Il suo retaggio storico è la precarietà. Quando si affacciano nuovi mali comuni di stampo socialpolitico dice tra se: ecco, ci risiamo, come si chiamano questa volta, austriaci, borboni, multinazionali, associazioni a delinquere? Pazienza, troviamo il modo adeguato per convivere! Chi sono stati i genitori sociali, i fratelli storici con cui questa razza si doveva identificare? Chi ha seguito le fasi evolutive psicologiche di questo popolo?

Il popolo napoletano viene da radici storiche di oppressione e di tanto in tanto, ancora oggi fa qualche masaniellata. Forse è giusta la retorica, caro Croce buonanima, quando recita con Charles Peguy: Ogni padre sul quale il figlio alza la mano è un padre colpevole. Colpevole di aver fatto un figlio che alza la mano su di lui. Lungi da me ogni intenzione scolastica o messianica, la giustizia, la felicità sono utopie come i messianismi politici e religiosi. L’uomo ha ricevuto la sua diabolica condanna da Dio: la ragione; e la ragione è tollerabile solo nell’ignoranza e nella contraddizione. Tutti coloro che si elevano sopra questo stadio sono degli illusi, perché credono di esorcizzare l’impotenza circa il loro insoluto esistenziale con teorie che sono ben lungi dal risolvere il mistero della vita e della morte. Proprio per non cadere nel messianico non dirò di sospettare che la nostra pace e la nostra serenità potrebbero cominciare appena dopo la pace e la serenità dell’ultimo degli uomini, perché mai si fa il punto sul senso di colpa collettivo inconscio delle società agiate, rispetto al terzo mondo.

Vi fu un altro Diacono, questa volta Giovanni, storico cristiano, che lavorò su diversi codici. Un terzo Diacono, detto il napoletano, compì un’altrettanta notevole opera filologica e traduttiva. Dal IX al X secolo la cultura napoletana era ancora prevalentemente religiosa. In questo periodo sorsero a Napoli molti monasteri benedettini, quindi altri scriptorum. L’hora et labora, per i monaci, consisteva essenzialmente nel copiare migliaia di codici destinati ad arricchire sempre più le biblioteche ecclesiastiche. Non c’era monastero, a Napoli, che non avesse la sua magnifica biblioteca, ricca di pergamene e codici miniati. Solo nel periodo normanno la cultura napoletana prese una svolta, anche perché la letteratura primitiva venne offuscata dall’insorgere di nuove forme, che allora avranno avuto carattere di sperimentazione. La cultura dottrinale, basata sulla dinamica della cogitazione, suggeriva nuove dimensioni di letteratura. Già si parlava di medicina e teologia. Nacque la Scuola Medica Salernitana, i cui studiosi furono i precursori della ricerca scientifica moderna. La Scuola Salernitana ebbe carattere planetario, nei limiti del vecchio mondo, naturalmente. Dovunque, questi studiosi, esercitavano la professione di medico.

A pensarci bene questo interesse dei campani per la medicina è un retaggio storico, a giudicare da un medico per famiglia dei miei torresi e dall’affollamento della Facoltà di Medicina dell’Università di Napoli. Dapprima, in questa fucina di scienza e cultura, si traducevano in latino opere arabe. Nel periodo normanno, intorno al XII secolo, assunse carattere prioritario la scienza medica. Dai Curiales, testi di questa letteratura, a mezza strada tra la medicina e la poesia, si affermò addirittura un tipo di scrittura, la famosa curialesca napoletana. Il XIII secolo fu il periodo della decadenza di questa importante istituzione scientifico-letteraria. «Se vuoi star bene – dice una delle ricette del Regimen Sanitatis – fuggi dalle cure intense e continue, non adirarti mai, (futtetenne, come dissero a S. Gennaro i napoletani moderni quando volevano declassarlo), scaccia la passione intensa. Ma accosta il labbro ai calici di Bacco molto sobriamente; godi di tutto il cibo, ma in abbondanza, un bel sonnellino al pomeriggio. Non trattenere né orina né scorregge. Così vivrai felice e lunga vita». Come attingono lontano le origini caratteriali del mio popolo.

COMPOSIZIONE TIPOGRAFICA IN PRATICA

Dalla biblioteca ritorniamo in tipografia col dubbio se sia la parte letteraria ad alleggerire la noia di quella tecnica o viceversa. Anche qui è questione di forma mentis. Dalle regole per una vita salutare passiamo a quelle di una buona stampa. Un rigo di scritto non dovrebbe essere inferiore a 12 righe tipografiche (poco meno di 6 centimetri di larghezza) e non superiore a 30 righe (testo di libro). Io, in questo momento lavoro con la giustezza 27 righe. (La misura si riferisce all’edizione cartacea del 1998. N.d.r.) Un rigo superiore a 30 righe causerebbe difficoltà a ricercare il rigo successivo, dato che la nostra lettura non è bustrofedica. Le interlinee tra i righi di scritto sono necessarie per allungare il testo e per migliorarne la leggibilità. Le linee linotipiche, generalmente formanti carattere di testo, mai superiori al corpo 14, ad eccezione di modifiche speciali, e le righe composte con i caratteri mobili, pur se accostate, senza interlinee, consentono la leggibilità perché è calcolata una minima spalla, sopra e sotto il carattere in maniera da evitare l’accostamento delle lettere.

Le composizioni possono essere: lupidarie, (spazi irregolari ai due lati); a bandiera (spazi irregolari solo sul lato destro); a blocco (testo allineato a destra e sinistra, come questo che leggete). Tale composizione non consentirebbe più di tre divisioni di parola consecutive; inoltre, l’ultimo rigo di ogni capoverso non dovrebbe essere inferiore ad un terzo della giustezza del blocco. Ho usato il condizionale per le due ultime regole perché io stesso non le ho rispettate in questo testo poiché le ritengo un momentino (come dicono alcuni) pedanti. E’ curioso notare che, in origine, tutti i lavori tipografici che non fossero relativi alla produzione libraria venissero chiamati lavori accidentali. Il XX secolo ha ribaltato la questione. Il campionario dei caratteri è uno strumento essenziale per una composizione equilibrata e gradevole.

Lo sviluppo del testo di un manoscritto o dattiloscritto si calcola contando un rigo dell’originale ed un rigo del carattere prescelto, quindi si procederà alle due somme e si confronteranno, potendo determinare, così, lo spazio che occuperà il libro stampato. Calcolo inutile per il libro che state leggendo, (Ci si riferisce all’edizione cartacea del 1998. N.d.r.) perché sono partito con un canovaccio di cinquanta dattiloscritti e ne saranno venuti fuori, affacciato alla Linotype, oltre trecento, data la posizione desueta di scrittore che assume un tipografo. Nei casi di composizione ortodossa, dove l’originale è completo e limato, la sproporzione del conteggio tipografico effettuato si modifica attraverso la scelta di caratteri più piccoli o più grandi, oppure più condensati o più larghi, in caso contrario si è costretti a diminuire od aumentare il numero di pagine. Nel caso di testi brevi, oltre ad una maggiore interlineatura, si provvederà ad aumentare lo spessore della carta per dare al tomo maggiore consistenza. Nei giornali, una volta, in caso di eccesso avvenivano dei tagli anche tipograficamente arbitrari, nel testo, o, viceversa, nei casi di difetto, si provvedeva con una maggiore interlineatura o con l’aggiunta di inserti. Con la fototecnica offset questi problemi non sussistono, perché il computer provvede a modificare il testo in lungo ed in largo a seconda delle esigenze di spazio. In un attimo un carattere minuto diventa espanso, un testo intero tondo diventa corsivo o neretto, e così via. Cose da far rivoltare Gutenberg nella tomba!

Le correzioni delle bozze di stampa si eseguono, com’è noto, attraverso dei segni convenzionali, mai standardizzati. Un segno viene posto sulla parola da correggere ed uno identico sui margini laterali del testo, accanto al secondo segno viene scritta la lettera da sostituire o la parola da aggiungere o da fare in corsivo o in neretto, mediante tre tipi di sottolineatura: tratteggiata, normale e doppia. Molti segni convenzionali per le correzioni variano non solo da paese a paese, ma da regione a regione, ed in certi luoghi, da città a città. I campionari di caratteri tipografici sono più limitati rispetto a quelli da computer, dove l’unica limitazione può essere lo spazio sull’hard o il rallentamento del sistema in caso di moltissimi caratteri istallati.

Negli ultimi tempi le fonderie di caratteri in Europa si contano sulla punta delle dita. Nell’Europa, ormai unita, le famiglie di caratteri più diffuse non hanno un nome internazionale standard, malgrado l’importanza originaria. Ciò che in Italia viene legittimamente chiamato Bodoni, in Inghilterra viene detto Moderno, in Germania Jungere Antiqua, in Francia Didot. Così in Italia diciamo Bastone in Germania Grottesk, in Francia Antique, in Inghilterra Sans Serif.

Anche i tipografi tradizionali ancora pochissimi non convertiti all’offset usano spesso i caratteri da computer data la vastità di scelta, trasformandoli in cliché per la stampa tipografica o adoperand gli ouptput laser o duplicatori oramai perfezionati. Oggi gli stili derivanti dalle famiglie principali sono pressoché infiniti, come illimitate sono le elaborazioni fototecniche di essi. E’ sempre un riflesso dell’arte moderna: pittura, architettura, scultura, letteratura. L’avanguardismo ermetico impera; la chiarezza, il figurato non solleticano più nessuno. Così gli artisti, i politici e, perché no, i grafici, si danno da fare. L’uomo trova dei sistemi convenzionali per esprimersi e comunicare, subito dopo li complica per sconfiggere la noia del consueto. Diceva bene Rene Char: Diffida dell’uomo e della sua mania di fare nodi. I caratteri tipografici hanno pure capacità espressiva sulle parole. Ciò in relazione ai titoli ed agli slogans. Ad esempio non si userà mai un carattere d’asta debole e sottile per scrivere acciaio, come si eviterà una scrittura larga e robusta in un titolo come: Fragilità. In pratica i caratteri, in sede espressiva, si riallacciano sempre alla loro primogenitura di ideogrammi.

Gli uomini prima sentono il necessario, di poi
badano all’utile, appresso avvertiscono
il comodo, più innanzi si dilettano del piacere,
quindi si dissolvono nel lusso, e finalmente impazzano
in istrapazzar le sostanze.

«La scienza nuova» – Gianbattista Vico

CAP. V

GLI STAMPATI TIPOGRAFICI

L’arma più potente dell’ignoranza:
la diffusione di materiale stampato.

«Guerra e Pace» – Tolstoj

I LAVORI COMMERCIALI DEL POPOLO VESUVIANO

Le botteghe artigiane della mia Torre del Greco e di tutta la cintura vesuviana e, beninteso, quelle della capitale del sud, soddisfano in pieno quasi tutte le esigenze relative agli stampati popolari e d’uso domestico, detti così per distinguerli da quelli di uso amministrativo, editoriale, ecc. I lavori commerciali, ad uso privato vanno dalla carta da visita all’avviso murale (e non manifesto), perché l’avviso, più o meno graficamente povero, rende pubblica una notizia commerciale, sportiva, culturale; mentre il manifesto, come elaborato tipografico, esprime un’idea ugualmente culturale, commerciale, artistica, ecc. Il manifesto è sempre concepito sotto un profilo grafico originale, partorito, comunque, da una personalità artistica, per questo si verifica di tanto in tanto qualche aborto. (Ce ne approfondiremo più avanti nel capitolo specifico). Alcuni artigiani, tuttavia, spinti dalla odierna bramosia di lucro, compiono ogni sforzo per incentivare la produzione a discapito della qualità. In questi casi si seguono schemi fissi di progettazione nell’assenza quasi totale di inventiva e creatività, rientrando, cosi, nella dimensione degli imbrattacarte.

Non tutti i tipografi artigiani, quindi, danno un’impronta personale al proprio lavoro. Ciò è da attribuire pure ad una domanda scadente che non riconosce un adeguato compenso al lavoro creativo, il quale richiede più tempo e maggiore impegno. Ma diamo un’occhiata a questi lavori cosiddetti commerciali, che devono risultare graditi non solo al cliente, ma soprattutto al pubblico a cui sono destinati. Il biglietto da visita, ad esempio, e il piccolo grande stampato, piccolo nella dimensione, grande per l’importante funzione a cui e destinato. Il biglietto reclamistico può essere nella grafica più funzionale poiché avrà carattere prettamente commerciale. Ma tutti i biglietti di presentazione devono essere coerenti con l’attività o la professione dei loro intestatari perché ne riflettono la personalità. Il tipografo deve impostarlo su misura come il sarto fa con l’abito.

La carta da lettera, alias foglio intestato, deve essere progettata in modo tale da lasciar trasparire, nell’insieme degli elementi grafici, l’attività esercitata dal suo intestatario, ancor prima di leggerne il contenuto. Essa deve ispirare fiducia senza lasciar trapelare nessuna incertezza grafica. Non bisogna mai eccedere con le estensioni cromatiche e la scelta dei toni dei colori deve essere sottoposta ad una attenta analisi. In caso di più colori l’accostamento deve scivolare sul netto contrasto per raggiungere soluzioni di gradevolezza cromatica. Le buste vanno stampate con la medesima impronta del foglio, ma leggermente ridotta. I formati regolamentari riguardo il bustometro sono 11 x 15 e 11 x 23 circa.

La fattura commerciale dev’essere, nella parte superiore, pressoché identica alla carta da lettera. Come è ben noto, il prospetto sotto l’intestazione conterrà le fincature dove verranno allineati i prodotti coi relativi costi, imposte, ecc. Le fatture moderne prendono forme sempre più desuete, sia per l’adattamento al calcolatore, che per le sempre più complesse normative fiscali. L’invito è lo stampato classico per eccellenza che, per estensione, comprende la gamma di partecipazioni di nozze, nascita e Comunione. Pure questi stampati risentono le nuove correnti artistiche e letterarie e mutano nella forma e nel contenuto rispetto ad un sia pur passato prossimo. Oggi i testi degli inviti vengono compilati in maniera telegrafica, si assoggettano spesso a forme bizzarre di contenuto in barba alla seriosità di una volta. I caratteri e la disposizione si riallacciano ai moduli architettonici d’avanguardia. E’ finito il tempo del pluralis maiestatis e del carattere stile inglese con le sue aste delicatissime, nella spinta dell’ornato. E’ tramontata la maniera della Signoria Vostra e della affettazione delle forme di cortesia e di galateo, che già da decenni sapevano di bacucco in parrucca incipriata. I messaggi forbiti e ricercati fanno posto ai testi concisi nel contenuto e sintetizzati nella forma. Negli inviti relativi ai party o bisboccie del sabato sera, numerosissime a Torre del Greco, non mancano le toccatine ironiche ed ilari fino al doppio senso di significato erotico, perché, cosa ci fate, da noi se non c’è di mezzo il sesso non si ride.

E qualche vesuviano autentico dirà: ’0 villoco, mo piglia ’a rrenzecata. Il mio popolo, si sa, coglie tutte le occasioni per fare baldoria, compresi gli scioperi. Favoloso l’aneddoto dello sciopero al Rettifilo, (senza voler togliere nulla a nessuno), dove un alto borghese si avvicina ad una delle migliaia di persone postulanti verbalmente e tramite scritte il diritto al lavoro: «Ho un lavoro per te». «Di che si tratta?». «Bisogna lavorare di vanga e di piccone». «Ma come, con migliaia e migliaia di persone proprio da me siete venuto a cadere?».

I vesuviani non amano la serietà, figuriamoci la seriosità, e nemmeno l’austerità, sa di dominazione. I napoletani, da secoli, hanno messo in pratica una citazione di Marc’Aurelio: “Nulla accade all’uomo che la natura non l’abbia fatto capace di sopportare”. Ebbene, nessun popolo al mondo, in passato, è stato capace, come il nostro, di sopportare tanto spadroneggiare. Il popolo festaiolo di ieri si difendeva trincerandosi dietro l’ottimismo che dice: o mangi questa minestra…, o sotto l’egida della Divina Provvidenza. La frequenza, però, dei mutamenti gestionali di potere alimentavano la speranza di un definitivo riscatto. E’ chiaro che oggi, economicamente e dignitosamente, rispetto al passato, stiamo nel ventre della vacca, alienazione generale a parte. E sebbene i problemi dell’uomo moderno siano più di natura psicoesistenziale che politica, è sempre attraverso la politica che la massa pensa di uscirne.

Oggi la stasi politica internazionale stagnata dal deterrente atomico e la caduta dei sostegni psichici fatti di ideali politico-religiosi, hanno incrinato l’atavica risorsa del popolo partenopeo di scivolare filosoficamente su tutti i problemi politico-sociali. La linfa vitale delle piedigrotte, dei megapellegrinaggi a Pompei o dalla Mamma Schiavone, le crapule bulimiche che fanno pranzo e cena una cosa sola non fagocitano più l’angoscia. L’equilibrio psichico secolare si incrina. Il fine settimana importato dall’estero, i party a base di alcool e sniffate del sabato sera rientrano nella routine del tempo libero campano, ma si rivelano una effimera ed insufficiente panacea rispetto le evasioni di una volta, come le passeggiate salutari, le lunghe chiacchierate rionali a centro strada, interrotte di rado da un omnibus, o le catartiche periodiche domenicali, dove venivano favoriti gli ingenui contatti sentimentali, i quali costituivano il preludio delle unioni monogamiche vecchia maniera, l’epilogo della maggiore commedia umana, la famiglia intesa, questa, come struttura formativa risalente alle più antiche culture. E’ insufficiente mezzo secolo per suggerire alternative ad istituzioni che sono nate con l’uomo, mai compromesse nei millenni.

La diffusione della stampa, come il resto dei mass-media, è colpevole della generale confusione mentale, perché le pressioni sociali esterne relative al progresso materiale repentino e all’evoluzione delle scienze positive, per lo più asservite alle asettiche leggi di mercato, hanno disfatto gli appigli ideologici, unico medicamento dell’universale, antichissimo interrogativo esistenziale dell’uomo. Gli inviti e le partecipazioni, per fortuna, sono ancora numerosi nella terra vesuviana, dove, tra l’altro, le metastasi dell’incancrenimento edonistico di carattere commerciale sono ancora per il momento contenute, tranne che nei centri con alto reddito. Da noi ancora non è diffusa in toto l’ipocrisia tipica di quel compromesso notarile a cui assomiglia l’unione monogamica moderna che coglie in pieno l’assunto di tutte le regole negative delle famiglie destinate a disgregarsi sul nascere. Molte unioni legali sono basate su una convivenza di comodo di carattere egoistico o su effimere basi terapeutiche atte solo a compensare squilibri personali, quindi destinate al fallimento. Ogni individuo adulto, però, è in diritto di decidere, in ultima analisi, sul fallimento o sul successo della propria esistenza, già meno di quella del partner, ma è delittuoso imporre angherie e disadattamenti nevrotici sulla pelle di coloro che non chiedono di nascere. Mi salva dal sentore messianico il sospetto autobiografico di queste note, ma è ora di tagliare corto con la digressione, introducendo argomenti di natura diversa relativi agli stampati popolari, che sono così vicini alla sfera emotiva dell’uomo.

Le partecipazioni di nozze, nascita, Prima Comunione, ecc. vengono generalmente prodotte da ditte specializzate che servono tutto il territorio nazionale. Da questa gamma vastissima il tipografo, in collaborazione col cliente, decide per la scelta e si assume il compito di completare i prestampati con le notizie fornite dall’avventore. Questo lavoro, apparentemente semplice, richiede una buona competenza e molto gusto, perché una cattiva associazione di elementi grafici nel pre e post-stampato causerebbe distonia e sgradevolezza. L’avviso murale urbano, il più grosso stampato delle tipografie artigiane, viene realizzato in macchina pianocilindrica di vecchia fattura, vale a dire con assenza di automatismi, dato le basse tirature, e con i tradizionali caratteri mobili di piombo e di legno, oggi in estinzione. Anche l’avviso cittadino nella tiratura di 50-100 copie viene realizzato in offset.

Nella mia terra vesuviana sono molto diffusi gli avvisi murali di decesso. Non sappiamo soffrire ancora da soli. Disdegniamo, chissà ancora per quanto, la massima di Mark Twain: Il dolore può bastare a se stessi, ma per vivere a fondo una gioia bisogna dividerla con gli altri. La solidarietà contro gli oppressori ci insegnava a fare tutto insieme. Uno stampato, l’avviso di lutto, non molto frequente nella mia bottega di Via Purgatorio a causa dell’emotività della mia consorte Rosaria, la quale, puntualmente, si scioglie, all’atto della commissione, in elegiaci convenevoli con il richiedente.

In più, alla consegna, si abbandona in lamentose querimonie con tale partecipazione che alla fine insorge l’inadempienza remunerativa sulla ipotetica base della carità cristiana.

GLI STAMPATI «DELLA STRADA»

Nella vasta gamma di lavori commerciali vi è quell’insieme di stampati che rappresentano una sorta di messaggio popolare relativo a gare sportive, manifestazioni folkloristiche, promozioni commerciali, e via discorrendo. Dall’avviso murale alla locandina, dal volantino alla cartolina pubblicitaria. Di questi stampati si fa largo uso nel circondario vesuviano, nella metropoli e nei centri più densi di popolazione. Questi siti palpitano di iniziative culturali di livello popolare. La produzione è favorita pure dal clima e dalla maggiore tolleranza sull’imbrattamento urbanistico. E’ probabile che la natura di questi stampati abbia avuto origine proprio sotto il Vesuvio, dove le tradizionali feste popolari hanno radici addirittura pagane. L’ambiente colorito e climaticamente confortevole della strada contribuisce al perpetuarsi di questi esternamenti dionisiaci, dove si vedono planare sulle teste aligeri messaggi, là dove, quando sono di carattere religioso, sembrano provenire, dedaleggiando, dai meandri del cosmo, proprio dall’aldilà. Caro popolo di festaioli, il nostro, di crapule e cioncate pure sui cigli delle strade; di abbuffate di taralli con sugna e pepe, di frattaglie di maiale, di lupini e semi di zucca o arachidi tostate (’o spassatiempo); di torrone d’Ospedaletto e di castagne di Montevergine. E così vola tutto dall’alto, intorno al Vesuvio, oltre alla cenere vulcanica: volantini, tagliandini inneggianti la gloria dei Santi, oggetti in disuso a Capodanno, sacchetti di rifiuti domestici dietro il «vigore» della pigrizia.

La carta stampata, anche minuta, rappresenta la modesta alternativa alla logorrea dei campani. Il cosiddetto non sputare mai è per noi, ricambio d’ossigeno. Se vuoi uccidere un napoletano condannalo al mutismo, tappagli la bocca, dopo due giorni non respirerà più neppure col naso. La parola stampata, invece, un po’ esotica ed aulica, associata all’atavica suggestione del verismo figurativo, giustifica l’enorme quantità di carta stampata prodotta in Campania durante le consultazioni elettorali. V’è una sorta di meccanismo inconscio, nel mio popolo, che insuffla credibilità a tutto ciò che è stampato. Un bozzetto eccellente di un lavoro tipografico rispetto ad un equivalente pessimo lavoro già stampato perde di credibilità, da noi. I cartai fornitori per arti grafiche sovente portano i ceri a S. Gennaro nella speranza che il governo vada in crisi. Ogni referendum è un terno secco per loro. L’Immacolata Concezione e la compatrona di Torre del Greco; la festa ne è caratterizzata dall’accensione di numerosi falò alla vigilia. Nel dopoguerra migliaia di volantini e manifesti elettorali sostituivano il faticoso insufflaggio tramite gli scarseggianti pruni e sterpi. Le vecchie impalcature del boom edilizio degli anni 60 lanciavano le fiamme sino in Paradiso a ringraziamento dei vani ricevuti. Tre elementi infiammano, invece, le mie reminiscenze puerili: lo sfarfallio dei fac-simile elettorali sotto il sole mai avaro; il veleggiare del bucato sciorinato sulle corde di canapa tra balcone e balcone e l’effluvio di naftalina esalante dalle balle di indumenti donati dai liberatori o dalla Croce Rossa lungo la salita del Mercato di Shangai di Ercolano.

GLI STAMPATI MODERNI

Un settore delle arti grafiche che si è molto sviluppato in seguito alle riforme fiscali degli ultimi tempi è quello concernente la produzione di stampati tipografici come bolle d’accompagnamento (sembrano dame di compagnia), (oggi 2002 soppresse da tempo. N.d.r.), schede fiscali, ricevute fiscali, e così via. Documenti che tutti conosciamo bene, ma che, talvolta, fingiamo di ignorare. Negli ultimi tempi ha invaso il mercato cartario (grazie a questi lavori che prevedono quasi sempre l’autocopiatura), la carta chimica. Essa viene trattata in cartiera: sulla superficie vengono fissate delle microscopiche vesciche di particelle chimiche, le quali, sotto la pressione delle biro, si rompono lungo il solco della scrittura, trasferendo il segno sulle copie sottostanti. L’uso della tradizionale carta carbone subisce un lento declino, come pure la carbonatura tipografica, antiestetica e insudiciante. Da ragazzo, sia a Torre che a Napoli o a Roma, durante le prove d’arte, ho dovuto sempre eseguire la composizione di uno stampato meccanizzato. Un termine avaro per raggruppare quella serie di stampati che vanno realizzati attraverso una disposizione rigorosa delle misure relative alle distanze degli elementi grafici costituiti da caselle, linee, fincature, ecc. Questi modelli tipografici venivano introdotti in macchine compilatrici con tabulazione ed interlineature prestabilite, le prime apparecchiature, cioè, connesse alla contabilità meccanizzata. Ma, ahimè, le botteghe artigiane hanno visto scemare gradualmente questo tipo di lavoro, per altro ben pagato, poiché l’avvento dei calcolatori ha trasformato questi stampati in moduli continui onde evitare arresti alla stampante. Le macchine per la stampa di moduli continui vanno al di là delle possibilità economiche ed impiantistiche delle tipografie artigiane. Così l’industria assorbe buona parte del lavoro destinato agli artigiani. Le piccole macchine per moduli continui, o gli adattamenti alle macchine tipografiche, non sono concorrenziali come costo di esercizio. Un altro colpo mortale vibrato al piombo tipografico, perché le matrici di questi stampati vengono fotocomposte per l’offset ortodossa o quella a secco (fotopolimeri).

LE PUBBLICAZIONI ARTIGIANALI

Diverse tipografie artigiane producono piccole riviste periodiche, giornali locali in formato ridotto, depliants illustrati, e via dicendo. Molti di questi lavori vengono realizzati col sistema classico di progettazione perché sono ancora composti col materiale tipografico: piombo e cliché. Oggi 2002 non più. N.d.r.). Tali pubblicazioni, pur se stampate in offset, una volta prevedevano la composizione col piombo linotipico e l’impaginazione avveniva col montaggio di bozze di stampa su patinata da fotografare o direttamente su veline per evitare la ripresa fotografica.
Sono poche le tipografie artigiane che utilizzano la fotocomposizione, costosa e complessa. Negli ultimi tempi è apparso sul mercato delle arti grafiche un modesto sistema di composizione elettronica detta editoria d’ufficio. Non emette pellicole da esporre ma copie a stampa laser da riprendere in camera oscura. In ogni caso la definizione è medio-bassa, ancora lontana dalla finezza dei caratteri da stampa. Fino a 1200 punti a pollice per questi piccoli apparati, 2500 e oltre per le fotocomposizioni professionali.

La composizione di un libro è semplice quando si tratta di testo corrente, come questo che avete sotto gli occhi. Le cose si complicano quando si ha a che fare con pubblicazioni ricche di titoli di vario stile, tabelle, diagrammi, chiose, illustrazioni, ecc. Anche la semplice impaginazione di libri con testo corrente, però, deve seguire delle regole ben precise. La fine di una pagina non dovrebbe avere una parola divisa, non deve terminare con asterischi o fuselli, si dovrebbero sfruttare le possibilità delle varietà di tono dei caratteri, possibilmente senza variarne lo stile ed utilizzare il corsivo ed il maiuscoletto per le differenziazioni. (Anche qui, dove uso il condizionale, ritengo le regole eccessive e come noterete in questo testo alcune sono state trasgredite). Riferimento al testo cartaceo del 1998. N.d.r.). Le note vanno disposte a piede di pagina o a fine capitolo e di corpo inferiore a quello del testo.

Le caratteristiche principali di un libro sarebbero, in ordine progressivo: l’occhiello, che ripete il titolo dell’opera; il frontespizio, che ripete le notizie di copertina; il retrofrontespizio, che rivela la proprietà letteraria; ancora il Copyright e, in qualche caso, la firma autografa dell’autore; 1’introduzione e finalmente il testo, diviso in capitoli, questi sezionati in paragrafi con titoli e sottotitoli, fino agli indici, il colophon o soscrizione: finito di stampare, ecc., dulcis in fundo, 1’errata corrige. Perché Gutenberg, insieme alla stampa, inventò l’errore di stampa, poiché non s’era mai sentito prima l’errore di scriptorum. In uno dei suoi primi libri l’orefice di Magonza scrisse spalmorum invece di psalmorum, nel famoso «Psalmorum Codex» del 1457. I caratteri mobili, essendo tali vengono inavvertitamente spostati. Hai voglia di leggere la bozza, dieci, cento volte, nulla da fare. Un editore diceva: La composizione di un libro senza nessun errore equivale ad un’opera d’arte.

Oggi l’errata corrige è in disuso. I libri sono lo stesso zeppi di errori, ma, data la società consumistica, chi volete che esibisca un documento di prodotto guasto al posto del certificato di garanzia?. Il sottoscritto, ad esempio, non utilizzerà l’errata corrige, altrimenti dovrebbe stampare un secondo libro a mo’ di note esplicative, tanti sono, probabilmente, i refusi, per non dire le… antipedanterie… A Napoli vi sono diverse tipografie editoriali, senza dubbio di numero parecchio inferiore a quelle del nord industriale. I complessi tipografici meridionali producono diversi libri, specie i testi scolastici. Alcune minuscole tipografie artigiane, pure, talvolta, si cimentano in questa operazione. E’ il caso mio, ad esempio. Molti di noi sprovveduti, però, ci avventuriamo, magari senza conoscere a fondo certe regole fondamentali per la realizzazione di un libro. (Ma guarda che si deve fare per essere solidale!). Ma andiamo avanti. In questi casi interviene l’autore che monta le bozze realizzando un vero menabò, il quale servirà da guida al tipografo impacciato. Accade, però, che l’autore spesso non riesce ad ottemperare appieno questo compito per la scarsità di conoscenza di certe regole grafiche fondamentali. Inevitabilmente viene fuori una pubblicazione alla maniera di Don Antonio.

UN TIPOGRAFO DI CAMPAGNA

Don Antonio è un tipografo di provincia che un giorno mi interpellò onde essere illuminato proprio sulla realizzazione di un volumetto religioso. Mi assicurò che il prete era pipì e un po’ fariniello e che non ci teneva a fare brutta figura. In più quando si arrabbiava, non potendo essere blasfemo, profferiva le più variegate scurrilità e trivialità da baccalaiuolo o portuale, giustificandosi con la teoria che i peccati veniali sono sfoghi consentiti dal Signore. «Una volta, caro Marittiello, (da noi si vezzeggiano pure i cognomi), solo per scrivere culo, invece di culto, me ne disse tante che mi fece venire la diarreta. E’ vero che in Chiesa ridevano tutti, ma benedetto Iddio, che è il suo capo, urlava: devi fare le mani come i piedi; devono fare ventiquattr’ore di terremoto con te all’epicentro; tu non morirai nel letto tuo, disgraziato, ciuccio matricolato; figlio di una meretrice (forse credeva che la buonanima di mia madre vendeva le merende), insomma mi fece una chiavica!».
La bottega di Don Antonio aveva le pareti incastonate di gabbie e mi chiarì subito che il suo era un paesello d’amatori d’uccelli. Gli feci intanto una chiara relazione sul da farsi per realizzare quel libro. Ad un tratto mi prese sottobraccio per guadagnare l’uscita in aperta campagna. «Quando esco dall’Alfa Sud – mi disse – il tempo che mi rimane lo passo un po’ a stampare, un po’ a zappare. Guarda che bella campagna! Ci pianto tutto, eh, ma solo per il fabbisogno personale… e di quello dei clienti».

Lo fissai senza intendere. Mi scosse la falda della giacca con cordiale veemenza ed aggiunse con un tono di rassegnazione nella voce “Quando sbaglio qualche lavoro – abbassò gli occhi, poi li puntò in alto, in un posto indefinito – e questo capita spesso, tu sei un caro amico, a te lo confesso: quasi sempre, Lui’. – Poi ribadì in tono perentorio, ma ironico – diciamo pure che non ne azzecco una, va! I fogli vengono troppo scagnati, o troppo ’nguacchiati… Il mio forte sono gli errori di grammatica. – Sorrise – Mi volevano dare il premio Nobello sugli errori di stampa, Marittie’… Basta! Dopo ogni lavoro, al posto di rifarlo, accontento il cliente con un paio di chili di pomodori freschi, una spaselluccia di fave, che so, due mazzi di ravanelli… Vedessi dopo il lavoro com’è buono!».

Ridevo di cuore, fino ai singulti. Presi fiato per domandargli cosa aveva offerto al prete quella volta. «Offerto? Quello se non lo fermavo si scippava pure le radici da terra. Disse che doveva nutrirsi molto, perché le arrabbiature gli portavano l’insonnia e lo facevano dimagrire giorno per giorno. Intanto la perpetua non fece la spesa per tre mesi… Vedi una «t» che mi costò… Ma che vuoi, caro Mari, io non lascerei mai la tipografia, le sono affezionato. Poi in paese hanno soggezione di me, mi chiamano professore, scienziato, uno mi chiama ministro; è gente ignorante, io almeno ho fatto la prima alimentare tre volte, poi mia madre, disperata, mi mandò a imparare l’arte da Ciccio ’o solachianiello, che i giorni pari aggiustava le scarpe e quelli dispari faceva i manifesti di morto, e diceva sempre Madonna mia non li fare morire i giorni pari. Quello si che era un maestro. Aveva fatto fino alla seconda alimentare senza ripetere neanche un anno».

Mi congedai da Don Antonio perché volevo subito raggiungere Torre del Greco, ma sulla strada del ritorno m’imbattei in una bicocca diroccata e polverosa da dove proveniva uno strano suono. Poi distinsi dei cinguettii di volatili che appurai provenire da una bifora del pianterreno. Ora quei suoni prendevano un timbro melico e divenivano, a mano a mano che m’avvicinavo, più articolati e distinti. Ora ascoltavo una singolare armonia, qualcosa a mezza strada tra un elegiaco spirituale ed il vocalìo ammaliante delle sirene di Ulisse. I solisti del concerto emettevano poi vagiti d’infante. Decisi di non approfondire, ma, voltatomi per riguadagnare il volante, mi scontrai con lo sguardo enigmatico d’un bimbo paffuto, ma sudicio. Gli chiesi perché quei volatili emettessero quegli strani suoni. «Il nonno – disse con un sorriso d’ebete il fanciullo – acceca gli occhi di tutti con uno spillo, così cantano meglio».

Non ho più saputo se Don Antonio portò a termine quel benedetto libro. A seguito di un’altra visita, infruttuosa, seppi che era andato a vivere a Modena con una figlia che, purtroppo, era divenuta vedova, come lui. Probabilmente Don Antonio stampò il libro, ma dovette emigrare per evitare il linciaggio.

A prescindere da questi casi limite, un libro viene realizzato con buona competenza in molte tipografie artigiane partenopee vecchia maniera ed in quelle più evolute tecnicamente, convertite alla stampa offset. Le pagine di un libro, una volta composte, vengono disposte sul piano della macchina tipografica tradizionale o sulla lastra offset in maniera tale che una volta stampato ed effettuate le pieghe del foglio, le pagine seguiranno l’ordine progressivo.

I GIORNALI ARTIGIANALI LOCALI

In passato la stampa per antonomasia era il giornale. Il popolo oggi identifica il lavoro tipografico maggiormente con i numerosi, fiammanti rotocalchi, oltre che con i quotidiani. I primi giornali venivano realizzati nelle botteghe artigiane dell’epoca. Durante l’ultimo conflitto mondiale, in assenza dell’energia elettrica, alcune testate si asservivano al procedimento tipografico artigianale per alcune edizioni ridotte, oltre ad utilizzare rotative e pianocilindriche come eccellenti ricoveri a difesa dei soffitti che crollavano. Dopo la composizione manuale di questi quartini di notizie urgenti, la stampa avveniva nelle pianocilindriche azionate manualmente con una leva applicata al volano. Ma oggi, com’è noto, l’avvento della radioteleiconografia in genere, ha ridotto l’informazione attraverso la carta stampata. Molti editori hanno dovuto ripiegare con l’etere. I giornaletti di provincia, quelli scolastici o di associazioni parrocchiali sono sempre meno reperibili in giro. Il fascino della carta stampata viene offuscato dai nuovi mezzi di comunicazione di massa, che, comunque, sono meno concreti della stampa. Col giornale od il libro, ad esempio, si può attingere quando si vuole senza il timore che le lettere o le immagini si dissolvano dalla carta, sebbene la videoregistrazione domestico abbia in larga parte sovvertito questo concetto; ma è difficile, ad esempio, portare in treno o sulla spiaggia il videotape ed il televisore. La diffusione del computer portatile risolve, invece, questo problema.

La tipografia artigiana riesce a produrre un giornale, ma nei limiti quantitativi, naturalmente, con un minimo di attrezzatura indispensabile, in vasta disponibilità, oggi, sul mercato dell’usato. Due o tremila copie di un giornale di medio formato (50 x 70 cm.) possono essere prodotte da una comune tipografia in possesso della oramai economicissima Linotype, nel giro di 3-5 giorni. Vi sono tipografie artigiane in Campania che non stampano per nulla lavori di testo. Esse realizzano solo modellame e bigliettame per cui adoperano poco o niente la Linotype, ma uno straccio di computer ce l’hanno tutti per realizzare piccole matrici offset o cliché fotopolimerici. Nei casi sporadici le piccole tipografie si rivolgevano alle linotypie, ormai tutte convertite alla fotocomposizione.

La stampa attraverso piccole macchine offset è diffusa pure nelle tipografie dell’angolo. Sono diverse le tipografie della terra vesuviana che stampano solo giornali locali e pubblicazioni di bassa tiratura, sebbene attratte dalla domanda del settore pubblicitario commerciale. Nelle tipografie editoriali, grandi o piccole, sino a qualche decennio fa si avvertiva maggiormente il fascino della stampa gutenberghiana. In quel chilometro quadrato intorno al Corpo di Napoli si addensano gli emblemi della cultura napoletana relativa alla stampa. L’Università, Via Benedetto Croce e Port’Alba con le numerose librerie, la Posta Centrale con la famosa emeroteca e la caterva di tipografie artigiane, alcune delle quali ancora tradizionali, talune antichissime.

LE MATTIZIE DI BOTTEGA

Concluderò questo capitolo con delle facezie. Il rapporto di gomito nelle botteghe artigiane e più costante e comunicativo di quello domestico, tranne nei casi di incomunicabilità, che sfociano, il più delle volte, in un mutismo squallido e deprimente, non da napoletani, in ultima analisi. Le goliardie liceali napoletane degli anni ’60 sono sconosciute alle mie gaie signorinelle: Francesca e Virna, le prime due cambiali, infinitamente “care”, d’una… quaterna che la vita mi ha dato. Se tutte le cambiali fossero così… mi indebiterei fino al collo!

Quelle locuzioni argute ed ilari degli adolescenti post-bellici si diffondevano in ogni ambiente, dalla scuola alla strada, ai sodalizi, alle botteghe. I miei ex apprendisti, durante le visite odierne, mi rammentano queste gioiose mattizie adatte per farla in barba alla monotonia d’una lunga giornata di lavoro. Ammesso e non concesso che io ti dicessi di fare poco il berloffo, tu che faresti? Oppure le caricate traduzioni letterarie di nutriti epiteti in vernacolo, le quali suonano: Vai ad operare in ciò che sta sotto il naso di colui che un giorno ti si spense, comunemente conosciuta come: Va’ fa’ mmocca a chi t’ è mmuorto. O, ancora: All’alma di colui che a te percosse i funerei rintocchi dei sacri bronzi, che sta per: All’anema ’e chi te sona ’a campana a mmuorto. Inoltre: Adesso piroetto sulle tue guance una discreta dose di enzimi orali, cioè: Mo te sputo ’nfaccia. E via dicendo…

Le contumelie moderate si limitano a 1’Eva t’amo tanto, che faceva inviperire le ragazze d’allora. Ché, dire, oggi, al coetaneo sessantottino: Levate ’a mutanda, equivale al dammi un bacio d’una volta. Noi anta ci scandalizziamo anche perché ignoriamo che i giovani si sforzano a naturalizzare il linguaggio sessuale (il che non è turpiloquio) allo scopo di esorcizzare l’ipocrisia bigotta del passato. E, fateci caso, alla fine si finisce ancora col parlare di morte e di sesso, quando c’è di mezzo la vita. Molte di queste trovate attingono, però, da una tale letteratura popolare teatrale pre-alfabetismo, come la maggioranza dei proverbi e delle locuzioni popolari partenopee. Le diffusero personaggi come Pulcinella o Felice Sciosciammocca, i cui autori attingevano a loro volta dal popolo. Quando nella bottega annuncio qualche pubblicazioncella, la prima cosa che mi chiede la gente è: Ma fa ridere?. Il bello è che essa ride pure quando ho creduto di scrivere cose serie. Non sarà per partito preso? Forse anche a Napoli, oggi, si insinua quel proverbio che recita: Quante volte le bocche ridono ed i cuori non ne sanno nulla. Abbiamo finito col dottrinalizzare pure le risate? Abbiamo fatto del proverbiale buon umore napoletano un’altra elaborazione culturale. Se così fosse, poveri noi!

On Luì – dicono sovente gli ex apprendisti quando s’affacciano all’uscio della mia bottega – All’alma di colui che a te percosse… Ed io mi commuovo per stupidaggini del genere, perché tali non sono. Esse sostituiscono i contatti umani d’un tempo, il senso dell’amicizia, sempre più compromessi, per questo tronco la frase dicendo: Curre, cammina, va a fa’ ’o duvere tuoie. Ed egli docile come un cucciolo riconoscente si avvicina soddisfatto alla “napoletana”. Io noto la prima stempiatura, gli incipienti segni della sua dissolta giovinezza. Penso a quando, paternamente, lo dileggiavo dicendo mesci il caffè, ed egli puerile ed ignaro lo zuccherava. Ah, scarzappulillo, non più imberbe, col tuo pomo d’Adamo che va su e giù, con qualche dente in meno e la consorte incinta ogni nove mesi perché non si decide a fare il maschio. Ricordo quando dicevi al cliente moroso che cincischiava nelle tasche inventando mille scuse: Ma dicite ca nun tenita a «zuppa». Rieccovi a fare ’o duvere vuoste, come un tempo, con la napoletana, dove il caffè scende. Ridico mesci, e voi, meno candidi, lo versate, dietro un adulto sorriso sornione. E’ accaduto, l’ultima volta, appena un mese or sono. Un ex scarzuppulillo centellinò con me quel nettare dell’amicizia e si dileguò per l’ingresso borbottando di avere una fretta del diavolo. Un attimo dopo ricomparve: «On Luì – sbotto – me scurdavo ’na cosa importante». Pausa. «Dai, parla», ruppi. E lui «Ammesso e non concesso che io ti dicessi di fare poco il berloffo, tu che faresti?». Fu molto più d’un abbraccio. Grazie, ragazzi, grazie perché mi fate, talvolta, riassaporare la giovinezza. Ciao Sergitiello Tramontana, Micheluccio Sorrentino, Enzuccio Santagata, Albertino Ascione, Sergitiello Paduano Giruzzo Accardo, Totore Vitiello e, l’ultima leva, Fabiuccio Viscovo. Grazie per aver tollerato i miei sbalzi d’umore dovuti alle vostre inottemperanze, per aver saputo sorridere a qualche mia verbale escandescenza: ’Ata fa’ ’e mmane comm’ e piede!

Quel che il tempo ci apporterà sicuramente

è una perdita; un guadagno o un compenso sono

quasi sempre concepibili, non mai certi.

«Appunti per una definizione della cultura» – T. S. Eliot

CAP. VI

AL DI LA’ DEI CARATTERI MOBILI

E’ il lavoratore solitario a fare il primo passo

in un dato campo. I particolari possono essere

messi a punto da un’equipe, ma l’idea prima

è dovuta all’intraprendenza, al pensiero,

all’intuizione dell’individuo.

“Discorso 1951” Sir. Alexander Fleming

GIOVANNI PAPERINO, TIPOGRAFO SVENTURATO

Per introdurre l’argomento concernente la meccanizzazione delle immagini desidero sintetizzare in poche righe la storia lirica e fantasiosa di Giovanni Paperino. Molti buoni tipografi artigiani della mia terra vesuviana amano talmente il proprio lavoro da farne una ragione di vita. E’ il caso di Giovanni Paperino, tipografo artigiano provetto, coscienzioso, esemplare, onesto fino allo scrupolo, per questo, da piccolo, in collegio, passava il suo tempo a curarsi ecchimosi, contusioni, ed ematomi vari. Ma reprimeva ripetitivamente le sue idee anticonformiste bruciando molte energie. Allo scopo di non confermare gli epiteti o le ingiurie di asociale e disadattato Giovanni stipulò il contratto monogamico. Veniva spesso nella mia bottega di Torre del Greco per commissionare timbri di seconda mano. Giovanni Paperino, sosteneva, tra l’altro, che i nuovi problemi esistenziali dei circumvesuviani facevano perno sulla sperequazione dell’economia. E’ un dramma, affermava, vivere nello stesso condominio con una differenza di introiti da uno a dieci. Il danaro, persino a Napoli, è divenuto l’unico parametro che determina il valore di un individuo, e via discorrendo. Paperino era tipografo da sempre, Aveva dato i fondelli, come lamentava lui, prima ai gestori del corso di formazione professionale, in collegio, poi ai padroni degli anni cinquanta. Finalmente aprì bottega ad est del Vesuvio, senza il beneficio di rivendicazioni sindacali, ma attraverso il centesimare dei suoi risparmi. Ma da quel momento, da paria mediocre del mondo del lavoro divenne un potenziale buon partito per l’occhio particolare di certe donne, non molte per fortuna, che ancora oggi ricercano l’affermazione accovacciandosi sotto l’egida di un marito portapane. Avvenne uno dei tanti matrimoni terapeutici dove l’illusione dell’idillio durò giusto i nove mesi della gravidanza. Giovanni Paperino, dietro un eccessiva possessività materna, da parte della consorte, si vide escluso dalla sfera affettiva dei congiunti, in più sentiva opprimente l’ingerenza della suocera.

Non si rendeva conto di alimentare da se queste manovre inferme della consorte perché non imponeva i suoi diritti e doveri rispettivamente di marito e di padre. Finì che, per sentirsi accettato, si immerse nel lavoro, come si suol dire, fino al collo. La donna, vittima del modello sociale capitalistico si crogiolava sui sensi di colpa di Giovanni e, attraverso finissimi ed eleganti ricatti morali, lo spingeva a sudare, come si suol dire anche questa volta, le sette camicie. (Perdonatemi le puntualizzazioni stilistiche, ma sento sempre la presenza della buonanima di Croce che mi fissa dal famedio). Giovanni Paperino, come tutti gli adulti bambini era, tutto sommato, un candido ossessionato. Il conflitto si consolidò quando, preso dal bisogno della fuga, dovette lottare intensamente contro la rinuncia affettiva dei suoi figliuoli. Una coppietta di pargoletti tenerissimi, si confidava, due batuffoli di cotone idrofilo, l’uno rosa, l’altro celeste, sebbene, secondo la moglie, lui avesse contribuito al loro concepimento solo attraverso un meschino, scellerato semino.

La fetta di potere ottenuta dalla moglie di Paperino era insufficiente secondo il parametro vigente, a stento riusciva a snobbare i condomini. Sebbene fosse detentore di una posizione economica superiore alla media nazionale, l’uomo si sentiva meschino, inottemperante, un poveraccio da questua. Schiacciato dalle pressioni domestiche il tapino decise di recarsi a visitare la famosa rassegna grafica del capoluogo lombardo onde acquistare macchine rapidografiche, turbografiche e, come si suol dire (per la terza volta), chi più ne ha più ne metta.

Il poveretto, stressato, esaurito, avvertì un malessere nell’aereo, ma invece di prendere la direzione della toilette aprì per errore un portello dell’abitacolo pressurizzato e precipitò. Non ebbe paura perché non dirupava, ma veleggiava, ora cabrava, ora picchiava, su, giù, a destra e a manca. Per la prima volta nella sua vita provò l’ebbrezza della libertà. Ad occhi aperti agitava le braccia come un volatile. Il suo cuore era inerte, non discerneva più la gioia e il dolore, il riso e il pianto. Una dimensione senza principio ne fine. Poi il vento lo spinse sempre più oltre, raggiunse la velocità della luce e confermò la teoria di Einstein, il tempo si arrestò quando sentì il suolo dolcemente sotto la regione plantare. Dischiuse le palpebre e non gliene importò un frego di essersi trovato in un retorico immenso prato, illuminato da un rancido tepido sole onde poter mirare, stagliato sull’orizzonte infuocato, la diafana creatura dei suoi sogni, la sua compagna ideale. Giovanni era precipitato in un altro mondo alternativo; in questo singolare paradiso sentì scrollarsi di dosso la vecchiezza di millenni di cultura inferma che gli aveva iniettato sotto l’epidermide la paura di vivere e di morire. Quel mondo gli rammentava il candore dell’infanzia, la fiducia e la sicurezza disgregata dal presente. Scoprì l’epilogo della teoria spazio-tempo, non già l’eternità, ma la vita a ritroso. A mano a mano che gli anni andavano, Paperino e la sua meravigliosa compagna ideale ringiovanivano sempre più fino a divenire due pargoletti paffuti, due batuffoli di cotone idrofilo, l’uno rosa, l’altro celeste, per poi addormentarsi dolcemente in una culla di giunco, irradiati dai loro candidi sorrisi, nella consapevolezza soave di un posto assicurato nel, (cosiddetto per la quarta volta), retorico limbo.

IL CLICHE’ DI ZINCO

Il sogno, invece, dei tipografi artigiani comuni, è stato sempre quello di poter realizzare cliché nella stessa bottega. Le complesse fasi del procedimento zincografico hanno sempre scoraggiato anche i tipografi più intraprendenti. Gli zincografi, agli occhi dei tipografi del piombo fuso, sono sempre apparsi come una sorta di alchimisti privilegiati che indettavano maestrie tecnicistiche e che, comunque, esercitavano un certo ascendente sui loro asserviti. Ma la chimica industriale ha fatto giustizia, ha messo a punto i composti fotopolimerici, i quali consentono di ottenere cliché in casa attraverso un procedimento (come cadono bene le locuzioni): all’acqua e sapone e all’acqua di rose. Infatti, dopo la semplice fase di esposizione, lo sviluppo avviene in acqua di rubinetto.
Bisogna ricordare che, per quanto la stampa offset abbia soppiantato quella a caratteri mobili vi sono delle lavorazioni che restano tipografiche e, allo stato, non si possono sostituire: stampa in oro tramite foil, stampa di supporti cartacei preconfezionati, rilievografia classica e chimica, ecc.

Vediamo, per il momento, come viene fabbricato un cliché di zinco al tratto. Devo subito puntualizzare che il procedimento fotografico per ottenere la matrice di qualsivoglia veicolo di stampa e sempre lo stesso. E’ necessaria, in tutti i casi, una maschera che consente alla luce attinica di agire o meno. Questa matrice della matrice, per così dire, è essenzialmente costituita da una pellicola o un montaggio di pellicole fotografiche. Per ottenere un semplice cliché di zinco, dobbiamo sfruttare la contrapposizione della pellicola ortocromatica ad alto contrasto: nero totale o bianco assoluto. Immaginiamo di voler convertire in cliché anastatico un disegno o una pagina di scritto. Fotograferemo l’originale con un apparecchio specifico capace di incamerare negativi di grosso formato o più semplicemente scannerizziamo la pagina fino ad ottenere con il procedimento disponibile: laser, fotounità, ecc. una pellicola negativa che risulterà, come è noto, nera la dove le zone dell’originale sono bianche, e trasparente dove sull’originale risulta nero.

Lo zincografo avrà preventivamente preparato la lastra di zinco con una speciale vernice fotosensibile, spalmata in centrifuga onde ottenere uno strato omogeneo. Fatta essiccare, la lastra viene sottoposta alla pellicola a perfetto contatto in appositi bromografi sotto vuoto. La luce attinica agirà solo attraverso le zone trasparenti, nel nostro caso i segni delle lettere e il disegno. La vernice fotosensibile indurirà solo nei punti colpiti dalla luce. Le zone neutre rimarranno solubili allo sviluppo che lascerà, in quei posti, ricomparire il metallo. E fin qui nulla di complicato, a parte la centrifugazione del bicromato sensibile sullo zinco. La difficoltà si presenta quando si immerge la lastra in acido nitrico che corroderà lo zinco solo nei punti esenti di vernice. La laboriosa incisione è sotto costante controllo dell’operatore che eviterà innanzitutto attacchi impropri dell’acido al fianco dei rilievi delle lettere in formazione. Quando 1’incisione chimica avrà raggiunto la profondità desiderata il cliché è bello e pronto per la stampa. Esso avrà l’aspetto del bassorilievo di un comune timbro, laddove gli elementi grafici sono disposti a rovescio e in rilievo e le parti bianche (sulla carta) sottoposte. Il procedimento fotopolimerico è pressoché identico con la differenza che non esiste acidazione, lo “scavo” del bassorilievo avviene spazzolando con acqua di rubinetto tiepida. Ciò consente a chiunque di fabbricare cliché di “plastica”.

IL RETINO

Fin qui abbiamo appreso che i segni in superficie del cliché raccolgono il colore dai rulli inchiostratori delle macchine tipografiche per trasferirlo sulla carta, similmente alla funzione del rilievo dei caratteri mobili. Le zone più basse che costituiscono la base dei rilievi di stampa non sfiorano i rulli e risultano bianche sulla carta. Ma come si ottengono le tonalità di grigio in una foto stampata? Se proviamo a tracciare su d’un comune foglio bianco tanti puntini precisi ed equidistanti tra loro noteremo che alla distanza di qualche metro essi scompariranno dal nostro controllo visivo ed apparirà una zona di una distinta tonalità di grigio. Più piccoli e distanti saranno i puntini, minore sarà l’intensità del grigio. Per ottenere un grigio piuttosto scuro dobbiamo tracciare dei punti più nutriti e più accostati. I punti addossati o fusi formano il nero. Se queste tracce vengono articolate in relazione a delle figure otterremo una rudimentale immagine tipografica da giornale.

Il clichè riproducente una fotografia ha lo stesso principio del nostro puerile esperimento, è composto da parti microscopiche totalmente nere o bianche, quindi alte e basse. Il segreto sta nella caratteristica microbica dei mirmifici puntini, che non vengono percepiti ad occhio nudo come tali, ma quali zone grigie più o meno scure che vanno appunto dal bianco al nero. Un cliché di una foto, detto a mezzatinta, presenta, nella sua struttura, una miriade di punti di microbica dimensione a diversa distanza da loro: piccolissimi e distanti nelle zone chiare; più sostenuti e ravvicinati in quelle medie; quasi uniti nelle parti scure, nelle zone nere sono fusi assieme e si va nel fondino tipografico. Quindi l’omogeneità dell’inchiostro distribuito dai rulli viene rotta dalle differenti zone di presa dei puntini.

A scomporre l’immagine in punti, in sede fotomeccanica, è il retino, costituito da un supporto dello spessore vario, a seconda se si tratta di retino a distanza o a contatto. Il retino a contatto, molto diffuso e pratico, è spesso quanto una pellicola e altrettanto flessibile, nella cui base semitrasparente appaiono fittissime serie di linee orizzontali e verticali, l’incrocio delle quali forma i punti che allo stato di retino sono tutti uguali. Essi si assottigliano per riflessione ottica della luce in fase di ripresa lungo le parti chiare dell’immagine; al contrario nelle parti scure si ingrossano perché la luce riflessa è minore. Il retino viene anteposto, a stretto contatto (sottovuoto), alla pellicola vergine in fase di ripresa o nei passaggi da negativo in positivo e viceversa. I retini vanno da un minimo di 25 linee a cm. quando il cliché è destinato ad una carta ruvida come quella dei giornali; 40 linee per carte collate e lisciate, fino ad 80 linee ed oltre per le carte patinate. L’offset consente un maggior numero di linee del retino, perché il sistema trasferisce solo un sottile velo di inchiostro ed evita l’impasto dei punti. Il retino 25 linee dei giornali è visibile ad occhio nudo come la luna ed il sole. Per osservare bene una retinatura oltre le 60 linee è necessaria una buona lente d’ingrandimento. Oggi la selezione dei colori è totalmente computerizzata e la possibilità di errori è minima.

I TIPOGRAFI DIPENDENTI NEL NAPOLETANO

La stampa di foto a colori (policromia) come avviene? «Attraverso quattro immagini retinate sovrapposte» rispose Giorgio ad un mio cliente. Io non ho mai conosciuto un artista più sincero, autentico, folle, di Giorgio, né in tutta Torre del Greco, col suo Istituto d’Arte, né ad Ercolano, né a Napoli, né in tutta la Campania. Giorgio era una tavolozza personificata. Erano i tempi in cui il Ministero della Pubblica Istruzione ebbe delle crisi di coscienza ed istituì numerosi corsi serali di recupero per anziani e giovani volenterosi. Era già caduto l’Impero Padrone, almeno nel linguaggio; il sessantotto a una spanna. Noi giovani campani avevamo in comune il problema dell’occupazione. Nasceva il posto clientelare e quello da comperare. Anelavamo la “sistemazione” per assicurarci la nostra fetta di dignità, per uscire dall’emarginazione e dalla miseria. Provenivamo da una Napoli prostrata nei disagi e nell’inedia. Malaparte ci ricorda la drammaticità di quegli anni, forse eccedendo nella trasfigurazione artistica con fioriti, declamatori ed ampollosi virtuosismi di stile. Tutti i popoli nell’annichilimento prolungato diventano servili e confusi. Nella disperazione non esistono popoli migliori o peggiori, ma solo folla di individui che, obnubilati, lottano per la sopravvivenza. Qualsiasi altro popolo al posto di quello napoletano, non avrebbe fatto cose migliori. E’ facile giudicare con la pancia piena, come diciamo noi. Con buona pace di Curzio, che amo e ammiro come scrittore e come persona, “La Pelle” sarebbe stata stilata dietro un’altra ottica se, invece di trovarsi, egli, nella condizione di consumare bisbocce con gli anglo-americani, il destino l’avesse voluto gomito a gomito coi diseredati, a dormire nei loro tuguri, a soffrire la propria fame e per quella dei figli, che egli non aveva e non solo a osservarli di passaggio, con l’occhio distorto e assetato del cronista.

Ecco perché un posto, nel dopoguerra, rappresentava la mèta per i giovani di allora, a cui le madri ancora rammendavano i calzini o facevano risuolar le scarpe. Allora, oggi si dovrebbe rifiutare il benessere, ammesso che sia veramente tale? No, si dovrebbe apprezzare la parte buona di esso, ma non si può quando, sotto la molla consumistica, esso alimenta un crescendo di se e rende i consumatori dipendenti di dosi crescenti all’infinito. Mai come oggi cade bene la locuzione: stavamo meglio quando stavamo peggio, e non credo che sia solo un qualunquistico luogo comune. La vita dei campani era senza dubbio più serena nel secolo scorso, sia pure nelle ristrettezze e nel servilismo, perché si apprezzava e si utilizzava bene quel poco che si otteneva. Chi poco tiene caro tiene, si dice a Napoli. Questa condizione mentale è totalmente sconosciuta alla generazione attuale.

La stampa tipografica ebbe il suo fulgore ai tempi della Serao. La moglie di Scarfoglio fu la prima a scuotere il dirigismo politico e difendeva tutte le categorie disagiate dei lavoratori, non di meno i tipografi: «Napoli – diceva – è il paese dove meno costa l’opera tipografica; tutti lo sanno: gli operai tipografi sono pagati un terzo meno degli altri paesi. Quelli che guadagnano cinque lire a Milano, quattro a Roma, ne guadagnano due a Napoli, tanto che è in questo benedetto e infelice paese, dove più facilmente nascono e vivono certi giornaletti poverissimi, che altrove non potrebbero pubblicare neppure tre numeri…». Ciò accadeva nel 1906. Dopo due grandi guerre la situazione era immutata, se non peggiorata. Ricordo con amarezza le angherie umilianti che i tipografi, capi di famiglia, dovevano subire a salvaguardia del posto di lavoro.

Oggi, grazie a Dio, tutti i tipografi dipendenti hanno riscattato diritti e dignità, sebbene, in diversi casi la pizza degli abusi si sia rivoltata. Questo dimostra che non esistono categorie o classi buone o cattive, ma che la benignità e la malvagità sono delle condizioni mentali presenti in ogni uomo, e che insorgono secondo la posizione che si detiene, in base a quale lato si tiene il coltello. L’homo homini lupus di Plauto, quindi di Hobbes, è l’estremizzazione di una cruda realtà, anche se oggi alla luce della psicanalisi si tende, se non a giustificare, a capire i meccanismi di difesa-aggressione dell’uomo. Perdonatemi il tono messianico, il dare sempre l’impressione di correre sul filo della bravura e della filantropia, ma devo riportare un proverbio della raccolta di Annarosa Selene: Ci vuole un coraggio da leone per astenersi dal fare violenza ai deboli.

GIORGIO, AVANGUARDISTA AUTENTICO

Quando ripenso a Giorgio, vero maestro del colore, esperto di grafica artistica da riproduzione, mi prende il magone. Rimembro i tempi andati del dopoguerra, quando noi ragazzi campani venivamo coinvolti nei mestieri improvvisati dei grandi. Una volta tentai di fare il madonnaro: fu un disastro, la pittura non faceva al caso mio. Infatti non ho mai capito la pittura di Giorgio. Amavo il suo entusiasmo, il suo credere ciecamente alla propria opera. Diceva che nelle sue super-avanguardistiche tele vi era concentrata tutta la travagliata storia di Napoli, un popolo clown. Ricordo Giorgio nella sua grossa mole fisica, quando fece saltare la serratura della porta d’ingresso di Via Purgatorio con una spallata. Si difese subito dicendo che la nostra è un’epoca disonesta, perché fanno le porte di ricotta «Desidero cento visita aggiunse. – Lui’, me li devi consegnare… ieri».

Giorgio mi osservava, con la testa altrove, mentre infilavo nel gruppo di rulli della pianocilindrica dei fogli di prova stampati più volte allo scopo di sottrarre inchiostro eccessivo. Mi fece notare che quelle scartine avevano fatto tutte le guerre. Infatti erano fogli di avviamento, passati per la macchina più volte in un arco di tempo lungo. Dove compariva una scritta, dove un fondino carminio, più in là un tono di colore indefinito, e tanti altri elementi frammentari e alla rinfusa. Un risultato che a volerlo realizzare non bastava Picasso; una di queste scartine di cartoncino rigido non si arrotolò, riuscì spontanea dalla macinazione e veleggiò intrepida per adagiarsi docile ai piedi di Giorgio. L’uomo dilatò le pupille e tentava di dischiudere le labbra nello sforzo vano di profferir parola. Era in completa afasia, tanto che io sospettavo i sintomi incipienti del grande male. Raccolse la scartina con la cautela di un artificiere, la poggiò lentamente sul banco, indi mi si avvicinò e mi estorse dalla guancia l’adesione ad un bacio vigoroso, per fortuna brevissimo. Lacrimava di cuore, poi si dimenava nel corpo, batteva i piedi sul pavimento, indi faceva le fusa e sorrideva ebete.

Prima che incominciasse a rotolarsi per terra capii che provava una gioia autentica, puerile. Tra riso e pianto, tremante, in pieno orgasmo fece il gesto di rilasciarmi un assegno, poi, per mia sfortuna, si. rimise il carnet in tasca dicendo che una tale opera non aveva prezzo, il cui compenso non rientrava nelle sue possibilità. (Il suo conto corrente era sempre in rosso…).

Quella scartina, per me, onestamente, insignificante, fu la vita per Giorgio. Quando gli dissi, più dietro lo spavento che dietro la generosità, che poteva tenerla, ricominciò con quei, devo confessarlo, disgustosi baci a labbra piene. Fosse stato un russo o un mafioso, povero me! Quella scartina fu l’emblema del suo genere artistico, che, nemmeno nei momenti di pathos di più alta ispirazione, di maggiore follia creativa aveva saputo realizzare. Prese a sbaciucchiare la macchina tipografica, la fece lustra, (anche se un tantino maleodorante), come il gatto fa col proprio corpo.

Malgrado le apparenze paranoicali, Giorgio era tanto buono, non solo, pure culturalmente preparato, e di una intelligenza singolare. Si dirà: non vuol dire, ma e mille volte preferibile un folle buono che un equilibrato malvagio. Giorgio era quello che si suol dire un vero amico. Egli sfatava l’assioma di Pierre Reverdy: L’amicizia è una complicità e, quando cessa, l’amicizia svanisce.

Giorgio fu amico sino alla fine. Nel letto di morte cincischiava all’altezza dei precordi nel tentativo vano di raccogliere un portafoglio che non aveva mai contenuto più di tre o quattro banconote, voleva ripagarmi quella gioia che, senza alcuna fatica, involontariamente gli avevo dato cinque anni prima in quella negletta fucina di maestosi esempi di vita che e la mia bottega di via Purgatorio. Pensai, in lagrime, quanto basta poco per rendere felice un uomo rimasto lontano dall’affettata, adulta sedicenza, un uomo che aveva provato l’ebbrezza di sentirsi grande in una dimensione bambina. Una parte del mio smisurato amore per le arti grafiche è dovuta a lui.

LA STAMPA DI FOTO A COLORI

L’argomento relativo alla stampa a colori è così vasto e complesso che costerà fatica sintetizzarlo in poche parole. L’immagine a colori viene scomposta otticamente nelle sue tre tinte fondamentali per venire ricomposta in sede di stampa con i tre cliché retinati da sovrapporre. Gli inchiostri fondamentali sono il giallo, il magenta e il turchese, i quali, fusi insieme, grazie alla percentuale differenza dei puntini durante la sovrapposizione, ricompongono tutti i colori dell’immagine originale, persino il nero, ricavato con la somma dei tre colori fondamentali. Quando il nero ottenuto dalla tricromia non è sufficiente si provvede a creare il quarto cliché del nero, ottenuto con 1’uso di tutti e tre i filtri di selezione. Per ottenere il cliché che sarà stampato col colore magenta si userà il filtro verde; per il cliché del giallo si adopererà il filtro viola; per quello del turchese il filtro arancio.

Per meglio comprendere il principio del filtro basta tracciare su di un cartoncino bianco due zone colorate: l’una nera, l’altra rossa, Se si osserva il cartoncino al buio sotto la fioca luce di una lampadina rossa del tipo per camera oscura, sarà visibile solo la zona nera disegnata. La lampadina rossa ha rappresentato il filtro che ha sottratto il colore come per incanto. L’occhio vigile dell’apparecchio fotografico si comporta allo stesso modo. Tutti i cliché tipografici di zinco dello spessore medio di 2 mm. vengono montati con doppio adesivo su blocchi sistematici di duralluminio della stessa altezza del materiale tipografico (cliché compreso), in sostituzione delle vecchie basi di legno, mai rettificate. Oramai non si realizzano più quadricromie con i cliché zincografici, ma il procedimento della selezione dei colori è lo stesso non solo per la stampa offset, ma per qualsiasi veicolo di stampa antico o moderno. Le lastre litografiche, intanto, hanno bisogno, per essere esposte, di un positivo anziché un negativo.

LA MODA OFFSET

Con i clichè di zinco l’argomento della stampa a caratteri mobili è, per il momento, concluso. Tutti gli altri sistemi di stampa prescindono da quella rilievografica ideata da Gutenberg. La stampa offset, detta planografica (elementi stampanti e bianchi sullo stesso piano) è basata sul principio di repulsione tra l’acqua corrente e gli inchiostri grassi tipografici. La lastra offset, in ogni fase di stampa viene inumidita da un velo d’acqua dai rulli bagnanti, e immediatamente dopo unta da quelli inchiostranti. Le zone della lastra che dovranno risultare bianche sulla carta, predisposte al principio di repulsione dei grassi, rifiuteranno l’inchiostro, se umide; le zone costituenti il disegno e le scritte, malgrado l’umidificazione vengono perfettamente inchiostrate, sempre che l’umido non sia eccessivo. Viceversa, una eccessiva inchiostrazione imbratterà, se pure irregolarmente, le zone di bianco. Realizzare una lastra o matrice offset è più semplice di quello che si pensa. Il montaggio positivo: supporto trasparente con zone stampabili nere, viene posto a perfetto contatto con la lastra pre-sensibilizzata per la fase di esposizione a luce attinica. Le lastre offset sono positive per un processo di inversione del materiale fotosensibile, onde agevolare il montaggio che in positivo è più facile. La fase successiva all’esposizione è molto semplice perché non è previsto nessun processo di acidazione come per i cliché di zinco.

Le matrici offset vengono sviluppate attraverso lo strofinio piuttosto vigoroso di un tampone manuale con alimentazione progressiva di un solo bagno. Immediatamente dopo le lastre, se non vengono subito adoperate per la stampa, vengono protette dall’ossidazione tramite un velo di gomma applicato con un tampone imbevuto, La gomma, essiccata, viene asportata con acqua solo quando la macchina offset è pronta per l’abbrivaggio. Mentre la realizzazione di un clichè di zinco costituisce solo una delle numerose fasi di preparazione dell’assemblaggio in piombo, la lastra offset rappresenta la matrice grafica completa, il supporto, cioè, come unico elemento matrice di tutto un preventivo lavoro fototecnico realizzato sui tecnigrafi, con la fotocomposizione, nella camera oscura, sui banchi luminosi di montaggio o addirittura totalmente impaginato a video.

Il materiale del grafico offset e costituito essenzialmente da immagini nere su supporti trasparenti. I neri sostituiscono i caratteri tipografici e i cliché di zinco; le trasparenze: la marginatura. Il lavoro di montaggio sugli astralon e idealmente simile a quello della composizione tipografica. Tipografia come mosaico, offset come collage. Il montaggio classico relativo alla realizzazione della lastra offset avviene posizionando l’astralon a contatto su di un foglio millimetrato trasparente che favorisce il calcolo delle distanze, gli allineamenti, ecc. Il sistema offset incomincia a rientrare nell’ordine di idee anche delle botteghe tipografiche dell’angolo che provvedono all’acquisto di una piccola macchina. Sono comunque sprovviste della fotocomposizione, ancora di costo elevato, fino a qualche anno fa si realizzavano le lastre fotografando le bozze tipografiche. Negli ultimi tempi si è diffusa una configurazione computeristica modesta, a basso costo, denominata Editoria d’ufficio che è antata via via sempre più perfezionandosi e arricchendosi. Il sistemia non equivale, pero, alla fotocomposizione, soprattutto a causa della bassa definizione (massimo 1200 punti a pollice col sistema laser), ma idonea per tutti i lavori di piccola entità senza grosse pretese qualitative.

A contribuire allo sviluppo dell’offset sono le evoluzioni tecniche. Le moderne macchine elettroniche dette a scansione, per esempio, hanno completamente automatizzato la selezione dei colori. I vecchi cromisti sono scomparsi insieme alla loro partecipazione emotiva a quel complesso lavoro. Forse le selezioni di colori saranno meno personalizzate con i prodigisell’informatica, ma non si può dire che siano scadenti o imperfette. Le macchine consentono maggiori controlli, correzioni preventive sulle maschere, su cui è possibile agire con ogni sorta di elaborazione. Il montaggio degli elementi selezionati viene fatto su di un’unica traccia detta viola, costituita da un supporto fotosensibile su cui viene impressionata la struttura generale del montaggio. Il colore viola, come falsariga dell’immagine da sovrapporre, è neutro per la luce attinica. La viola è indispensabile per garantire la perfezione micrometrica dei retinati selezionati da sovrapporre l’uno sull’altro, incerta ed imprecisa se eseguita montaggio su montaggio.

CENNI SUL ROTOCALCO

Noi meridionali spesso accusiamo qualunquisticamente sempre la dirigenza politica. I settentrionali, dal canto loro, attribuiscono le cause del lento sviluppo del sud all’inerzia del popolo stesso dovuto a fattori storici, ambientali, climatici, ecc. E quando si ricorda che i nostri emigrati a Milano o in Europa sono quelli che producono di più viene risposto che essi vengono fuori dal guscio, cambiano clima e mentalità e dimenticano storia, costumi e abitudini, ma soprattutto, vengono condizionati dall’ambiente produttivo, umano e meccanico sopra la molla dell’emulazione. Comunque vadano le cose la realtà è inequivocabile, nel settentrione d’Italia vi sono diecine e diecine di officine grafiche di grossa entità, molte delle quali adottano il sistema rotocalco. Nel sud questi impianti si contano sul naso. E pensare che il primo rotocalco illustrato fu napoletano.

Il rotocalco, come ho gia detto in precedenza, deriva dall’antica calcografia. Abbiamo pure visto che il sistema offset prevede matrici di stampa caratterizzate da elementi stampanti e bianchi disposti sullo stesso piano e che vengono differenziati dal principio di repulsione acqua e inchiostri grassi. Inoltre sappiamo bene che il sistema tipografico, esente da tali processi chimici, sfrutta l’antichissimo principio dell’incisione xilografica, rilievi: stampa, incavi: bianco. Le matrici rotocalcografiche, invece, curve perché montate o costituite da cilindri di rame, sfruttano il principio della vecchia incisione calcografica. (Rilievi: bianchi, incavi: stampa).

La preparazione di matrici rotocalco prevede sempre il solito montaggio fototecnico. L’incisione del cilindro avviene tramite acidazione come per i cliché di zinco. Dopo che è stato trattato con uno strato di gelatina fotosensibile, all’atto dello sviluppo rivelerà spessori diversi in relazione ai vari toni dell’immagine. Là dove la gelatina è meno spessa (zone scure) l’acido scaverà in maggiore profondità; dove è più spessa (zone chiare) l’acido avrà meno tempo di morsura per cui gli alveoli saranno meno incavati. La diversa profondità degli incavi determinerà i toni dell’immagine in tutta la gamma dei chiaroscuri. Tutto il cilindro è comunque alveolato in maniera uniforme poiché non è lo spessore degli alveoli che accumulano più o meno inchiostro, ma la loro profondità. Più profondi sono gli alveoli di un tratto, maggiore inchiostro assorbirà la carta. Gli alveoli poco profondi trasferiranno poco inchiostro e daranno zone grigie. L’assenza di alveoli darà il bianco.

Il cilindro rotocalcografico viene “innaffiato” con lo spruzzo di inchiostro liquido, alimentato da una pompa. Il colore, ad essiccazione rapidissima, inonda gli alveoli, mentre una racla deterge subito gli eccessi. Sulla carta viene trasferito solo il contenuto delle incisioni. Per ovviare alla durezza della stampa rotocalco, rispetto alla morbidezza delle immagini consentita dagli altri sistemi, si usa retinare tutto il cilindro rotocalcografico, anche nelle zone totalmente nere costituite da titoli e testo. Le immagini si ammorbidiscono, ma i caratteri piccoli perdono di nitidezza. Se osserverete i caratteri di testo su di una qualsiasi rivista rotocalco, noterete tanti mezzi puntini specie intorno alle lettere piccole. Con una lente d’ingrandimento distinguerete la retinatura. L’alveolatura, chiaramente, è invisibile. Devo aggiungere che negli ultimi tempi si è tentato con successo di variare i punti del retino relativo alle tonalità, ciò solo nei toni più chiari della scala dei grigi, esattamente fino al 50%. Oltre questa intensità di chiaroscuro agisce solo la profondità degli alveoli. La stampa rotocalco è il veicolo che maggiormente gonfia le edicole. Quando si parla della stampa relativa alle edicole le lettere dell’alfabeto, messe l’una dietro l’altra, formano distanze che bisognerebbe misurarle in anni luce. Per fortuna il linguaggio dei rotocalchi non viene dottrinalizzato ma è conforme ad uno strumento convenzionale di realtà esteriore. Forse il linguaggio più giusto, perché assimilato da tutti. Ma dice Humboldt: Il linguaggio ha origine ogni qual volta si parla. Le centinaia di riviste illustrate che settimanalmente affollano le edicole adoperano la lingua d’uso corrente per motivi commerciali, rasentando appena quella letteraria, espressiva, tecnica, aulica o settoriale delle librerie. Il successo di queste pubblicazioni è dovuto alla stessa edicola, sempre a portata di… piedi, il principale veicolo di distribuzione di letteratura di massa facile e popolare.

LA CULTURA NAPOLETANA MEDIOEVALE ALL’APICE DEI CODEX

E QUALCHE DIVAGAZIONE

E’ arrivato il momento di trattare la stampa serigrafica. Intanto faremo un’altra sosta nel passato napoletano con la macchina del tempo della nostra fantasia. Ritorniamo al medioevo nel periodo di maggiore produzione dei codex. Il primo utilizzo della stampa serigrafica, però, risale a tempi molto remoti, poi l’impiego si dileguò nel tempo perché inadeguato agli interessi prevalentemente culturali dei due millenni. Il consumismo del XX secolo l’ ha riportata alla luce. La storia ci ricorda corsi e ricorsi, mode che ritornano e riflussi. Nel medioevo la serigrafia non è mai stata applicata. Le esigenze di decorazione si limitavano a supporti come carta, pergamena e affini stampabili con la xilografia e la calcografia. I testi scritti venivano prodotti dalle officine scrittorie, che a Napoli furono sempre numerose, grazie ai monaci. La stampa serigrafica ha poco da spartire con la cultura, in passato come oggi, ad eccezione dell’arte pittorica, estesa alla grafica in serie, poiché la pubblicità a cui essa è asservita, vanta oggi, bisogna riconoscerlo, delle inconfutabili forme d’arte. Il medioevo napoletano ricorda una tappa importante per la cultura, la fondazione dell’Università di Napoli. I dubbi che fosse stato Ruggero il Normanno a volerla si sono da tempo dissipati dietro studi e ritrattazioni. Tutti sono concordi che il fondatore di questa fucina di geni della cultura partenopea fu Federico II di Hohenstaufen, meglio noto come Federico II di Svevia. Si dice fosse un uomo colto, chissà con quale parametro, però, lo si giudicasse; voglio sperare non quello della casata, poiché è trito il concetto che nobili non sono i ricchi, ma quelli che fanno nobili cose. Ma andiamo avanti. Napoli, grazie alla influenza della Scuola Siciliana di poesia, rinomata allora, dove anche Federico operava, fu al centro della cultura italiana dell’epoca. L’Università (è palese a tutte le matricole che si accalcano nell’austero edificio ad angolo tra Via Mezzocannone e il Rettifilo) sorse nel 1224, indi furono istituiti gli studi maggiori: filosofia e teologia, tanto per variare. Ebbe priorità S. Tommaso d’Aquino, il quale, accomunato a tutti i frati dei famosi ordini Domenicano e Francescano, diffuse la cultura in tutto il regno. Sorrido al ricordo delle imprecazioni degli studenti che mi supplicano, nella bottega di Via Purgatorio, di allestire la loro tesi in un paio d’ore, ciancicando ilari ingiurie all’indirizzo dei baroni bianchi.

Allora i frati non facevano che politica religiosa, il che nasce da presupposti di pace, a parte le guerre sante, ma qualche forma di baronato doveva pure esistere, come in tutte le gerarchie. Con buona pace di S. Tommaso, a cui bisogna riconoscere i meriti di un intellettuale geniale e di un religioso fervido e sincero. In più i frati, in quel periodo, dovettero ben faticarsi la pagnotta dietro le cattedre, poiché tra le fazioni dei guelfi e dei ghibellini, si presumeva, ovviamente, patteggiassero per il Pontefice. Grazie a Dio, in ultima analisi, la lotta tra Impero e Papato non ostacolò di molto la diffusione della cultura di priorità teosofica dei cattedratici santi e dei copisti monaci. Anche Fra’ Giovanni di Napoli aveva i suoi fans. Non come S. Tommaso, naturalmente, che divenne domenicano proprio a Napoli. Quando l’Università fu fondata era ancora in fasce, e sin d’allora non già stritolava i serpenti nella culla, ma li incitava alla preghiera. Infatti, a quarant’anni, invece di strappare i piloni dell’edificio universitario elevò in alto la voce della sua verità. Quando si dice: bisogna nascere, Ercole o santo!

Cultura e movimento letterario ben vennero anche da parte dei Frati Minori, gli umili francescani, che sostennero quella cultura teofilosofica del loro stupefacente S. Francesco. Al di là della religione ci si sforzava, intanto, di tentare una letteratura artistica. Non si poteva passare la giornata tra preghiere, contrizioni e memento mori. Dalle gesta trovadoriche si passò ad inneggiare la Vergine con la poesia siculo-partenopea (zuppa o panbagnato), che finalmente precedera il Dolce stil novo. Con tutto il rispetto per la Signora Celeste.

Devo premettere, che, a mio avviso, le religioni sono un grande sostegno per il genere umano, tranne nei casi di notevole fanatismo, che rasenta il paranoicale. Dante, a prescindere dalla fisima religiosa, di frequente si abbandonava ai desideri carnali, celando le legittime pulsioni dietro il paravento descrittivo degli angelici tratti somatici femminili. D’altra parte doveva pur sbarcare il lunario offrendo argomenti validi, e quali più de: la donna e l’inferno, cosi connessi alla luce della psicoanalisi?. Ma Dante sbagliò epoca per mettersi a fare il letterato, doveva attendere l’era gutenberghiana. La figlia Beatrice non sarebbe finita in convento perché priva di dote. Dante è l’emblema del: Carmina non dant panem. Un esempio per il sottoscritto da far tesoro? I libri che si fatica dalla penna alla legatoria, restano nella dimensione degli artisti della domenica o degli scrittori intercomunali, con l’unica soddisfazione del dono con la dedica?. E cosa cambia per uno che non ha ambizioni e non è nemmeno velleitario, ma sente solo la il desiderio di comunicare, diffondere quello che sa e quello che penza.
Intanto il Concilio di Lione del 1245, con la sentenza di scomunica del Sovrano, scatenò la persecuzione di buona parte del Clero dotto, sino a lasciar morire sul rogo diversi monaci. I sensi di colpa, comunque, non risparmiano nessuno. Federico II sentiva di tiranneggiare i napoletani, che si ridussero a poche migliaia, spostandosi in provincia. Forse proprio per questo fondo 1’Università a Napoli, (oltre che per la sua passione per lo studio) e qui si devono fare le dovute riserve. Fu per riscattare la sua impopolarità? Ma a parte lo scarso apprezzamento di certe iniziative, comunque di stampo aristocratico, con cui i napoletani medioevali avevano poca dimestichezza, il popolo non si vedeva ripagato con tale ripiego, a giudicare dai sostanziali e più emergenti privilegi di cui veniva privato; in secondo luogo la moltitudine non sapeva neppure apprezzare l’importanza dello «Studio Generale», destinato a primeggiare sulle altre Università del territorio peninsulare.

A giudicare dallo stato di degrado urbano e socioculturale della cintura vesuviana, sembra che l’evoluzione etico-culturale e civica non sia mai avvenuta e che il livello di questi valori sia stagnato nella misura in cui era verso la fine del primo millenarismo della storia. Non v’è più possibilità di smottamento e di sensibilizzazione. C’è, oltre la buona volontà di alcuni, un muro di gomma. Pubblicai, 1’anno passato un libro fotografico di Torre del Greco antica con relativa nutrita introduzione, allo scopo di rispolverare il meglio di un passato appena prossimo. A parte 1’interesse legato alla componente nostalgica non ho avuti altri riscontri. Nemo propheta in patria? O v’è il sospetto del secondo scopo su iniziative che non beneficiano di contributi comunali? Questo è un altro aspetto caratteriale drammatico che si è insinuato nel mio popolo, che in fondo amo insieme alle pietre della città, la certezza del secondo scopo, irreversibilmente.

Nella mia bottega di Via Purgatorio guai a consigliare un tipo di carta: è perché lo si ha in eccedenza; un tipo di carattere: è perché non se ne ha abbastanza. Tutte le buone opere, secondo la gente d’oggi, dovrebbero avere un fine recondito legato al lucro. Ma se il danaro, in fondo, non è che un mezzo per ottenere rispetto, stima, ammirazione, perché non potrebbe essere l’opera buona lo strumento diretto per ottenere ciò, senza mezzi venali?

Ciò accade quando il capitalismo impera col suo Vangelo: il consumismo, le sue chiese: le multinazionali e il grande esercito di operatori pastorali: gli agenti di commercio, tutti avvinghiati alla massa abbindolata dei consumatori, mai sazia, perché non si accorge di comprare solo illusioni. Ciò accade, purtroppo, quando le arti grafiche sono per il settanta per cento asservite alle spietate leggi di mercato; quando le democrazie si crogiolano nella demagogia e numerose incrinature di corruzione guastano come la malerba tutta la fioritura etico culturale positiva di un’era. L’arte della stampa per insufflare nel popolo pure buoni propositi non c’era alla fine del primo millenarismo della storia che, grazie a Dio, non vide la fine del mondo (e chi sa se la vede il secondo, lasciando guadagnare la palma ai Testimoni di Geova anziché all’evangelista biblico). (Oggi 2002, non l’ha vista. N.d.r.).

C’è crisi di contenuto. Le ciarle messianiche ed idealistiche potevano convincere allora, nella mia Torre del Greco e nella Campania tutta, sebbene si registrasse il novanta per cento di analfabetismo. La cultura era esclusivo patrimonio dei pochi iniziati, per lo più appartenenti alla casta clericale o a quella della gerarchia regnante. Nessun figlio ’e Peppe ’o fravecatore de La Torre de lu Grieco, o di Giuvanne ’o pisciavinnolo, di S. Lucia sognava una cattedra, non solo, ma di fare il bidello negli «Studi Generali» alias Università, tanto meno di avere la potenzialità di uscire dall’epidemico analfabetismo medioevale. Disordine e degrado erano di casa intorno al Vesuvio anche allora, ma a causa dei frequenti mutamenti politici dovuti alle dominazioni. Precarietà, inclinazione alla dissidenza e all’eslege che lasceranno l’impronta caratteriale fino al popolo vesuviano d’oggi, sempre disposto agli adattamenti ed ai ripieghi sregolati, alla tolleranza del malcostume urbano e dirigenziale, dietro rassegnate reazioni di malcontento, come si fa contro l’ineluttabilità del destino. Forse e un’ altra delle equilibrate forme di scaltrezza di fronte ad una realtà difficilmente mutabile, allora perché consci di disporre della fatua difesa dell’ignoranza, oggi ben consapevoli dell’irreversibile stasi politica dei paesi allineati, dovuta al deterrente atomico. E’ forse una filosofia ancestrale che aiuta a sopravvivere e ad evitare ulteriori annichilimenti come quello relativo all’ultima guerra mondiale.

Intorno all’anno mille faceva eccezione alla esigua minoranza di colti meridionali la comunità del Regno di Sicilia, almeno in forma poetica, grazie appunto alla Scuola Siciliana, laddove molte liriche destavano interesse persino nel popolo. Grazie a Federico II di Svevia, per un motivo o per l’altro, il terreno a Napoli fu spianato perché la diffusione della cultura, con 1’Università prima, con 1’invenzione della stampa poi, si insinuasse in diverse fasce della popolazione. Certo era ancora lontana l’epoca degli intellettuali laici. La poesia siciliana risentiva dell’adorazione deistica dei cattedratici, la quale pseudolaicalmente dorava la donna in lamentose querimonie. Donna sacra nella sua integrità morale perché vista sotto il lucore divino, a cui ci si dispone con devozione ed abbandono pur di ottenerne la benevolenza. Una passionalità a mezza strada tra il mistico ed il possessivo, che nei siciliani persiste tuttora. Una integrità monogamica che non consente la minima infedele trasgressione.

Ora spulciamo le note caratteriali dei miei torresi e dei cittadini di molti centri vesuviani economicamente affermati, nonché di quella Napoli commerciale che ha origine dai mercanteggiamenti lazzaronici e via via coi traffici anglo-americani fino alla moderna borghesia del business partenopeo vigente. Ho 1’impressione che noi vesuviani, sin d’allora, anche per un’atavica scarsa dimestichezza con la grammatica, abbiamo appreso trasversalmente quella ideologia frammista di venerazione deistica ed eterno femminino; forse il concetto rientra emendato nel nostro ordine di idee; soggiacciamo a mezza strada tra la passionalità distico-verginale e quella femmino-matriarcale. La donna, nel napoletano, e da temere, da venerare e da punire. I ruoli sono: vergineo da bimba (guai ai pedofili nelle carceri napoletane); oggettuale-sessuale da giovane, dietro la copertura sentimentale; possessivo-assolutistico da sposa; diabolico da suocera. Il ruolo di madre, invece, conserva la sacralità deistica. Ma l’essenza sta nel ruolo, e non nel soggetto, perché la stessa donna che sostiene i ruoli di madre e di suocera contemporaneamente viene osservata da due ottiche contrapposte come il dualismo bene-male. In pratica tutto il meridione è sottoposto a questi canoni istintuali, ma più a sud si va, più è intenso e connaturato il sentimento di essenza deistico-verginale della donna, che prevale sugli altri ruoli.

Gli scriptorum e le tipografie hanno in fondo diffuso queste concezioni istintuali ferrate pure da speculazioni di tono scolastico relative alle prime iniziative culturali del secondo medioevo. Insomma, amanuensi e prototipografi non hanno fatto altro che parlare prevalentemente di Dio e della donna, dopo gli epos eroici. E malgrado gli sforzi ostinati per distinguere un popolo dall’altro, grazie alla stampa, la diffusione delle culture, che in fondo si combinano tra loro, come oggi le religioni, suggeriscono: Tutto il mondo è paese.

L’uomo fa tanta fatica per creare dei sostegni ideologici contro il mistero della vita e della morte e poi ne diventa dissenziente, come nell’area geografica del Nord Europa, dove i puntelli psichici delle culture millenarie di stampo religioso sono crollati. E’ proprio là che si riscontra una delle più alte percentuali di suicidi di tutto il globo terracqueo. Si è sordi all’idea che per debellare ideologie culturali durate millenni non bastano un centinaio d’anni, ma periodi altrettanto lunghi. L’uomo vive mediamente l’arco di sessant’anni, ma sufficienti per incamerare (ed esserne condizionato) ideologie c credenze millenarie non rimuovibili a livello inconscio. Beninteso, tutto lo sviluppo culturale dell’epoca, a due secoli dall’invenzione della stampa, interessava la solita minoranza di napoletani. Resta indubbio, allo stato, che Gutenberg sia stato il maggiore artefice della diffusione di questa affezione che e la cultura nei secoli, con l’ausilio, via via della graduale quasi scomparsa dell’analfabetismo a livello planetaria extratribale. Non avrebbe mai immaginato, però, il geniale orefice, l’evoluzione ed i1 sopravvento odierni delle tecniche che allora erano lente e malagevoli rispetto al suo sistema. Ai termini litografia, calcografia, serigrafia avrebbe risposto con un sacco di risate.

LA SERIGRAFIA

Il sistema serigrafico si rivolge esclusivamente alla grafica commerciale e in modo speciale al settore pubblicitario, a prescindere dalla serigrafia artistica. Le matrici serigrafiche in origine erano costruite con seta (da qui seri-grafia). Poi furono utilizzati i tessuti di taffettà sino alle moderne fibre sintetiche, più resistenti ed economiche. Oggi si usa principalmente nylon, poliestere e tessuto metallico (acciaio inossidabile). Il nylon è quello adoperato nella maggior parte dei casi. La matrice serigrafica ha l’aspetto di una tela prima di essere montata in cornice. La seta viene fissata al telaietto di legno con punti metallici o colla speciale resistente ai solventi. Pochi operatori realizzano un telaio serigrafico col metodo cosiddetto indiretto, idoneo per lavori retinati o di alta definizione. Conosco il metodo dietro esperienza libresca. Il sistema indiretto utilizza anche film fotosensibili che, una volta trattati, vengono fissati sulla seta. Il metodo diretto, diffuso è semplicissimo, è quello che viene praticato persino nelle scuole o nelle abitazioni di artisti. La prima fase di preparazione delle matrici è quella fototecnica, come per tutti gli altri veicoli di stampa. Il montaggio e 1’assemblaggio è pressoché uguale a quello per realizzare cliché tipografici, lastre offset, ecc.

Il tessuto di questi quadri da stampa può essere a maglia stretta o larga allo scopo di consentire più o meno uso d’inchiostro sui supporti da decorare. I serigrafi sono una minoranza rispetto ai tipografi, non per questo, però, vi è scarsa possibilità di apprendistato, anche perché le attrezzature si limitano a pochi elementi facilmente collocabili in qualsiasi ambiente. Napoli, tanto per variare, è in critica posizione geografica circa i produttori ed i distributori di materiale serigrafico, per cui è difficile attingere informazioni sulle continue evoluzioni chimiche e tecniche di questa branca della tecnologia poligrafica. Intorno al Vesuvio i fornitori si contano sulle dita di una sola mano e si limitano alla competenza del servizio commerciale. Le aziende serigrafiche campane fanno capo direttamente ai produttori del nord, che nella maggior parte dei casi sono dei confezionatori perché importano dall’estero le materie prime e le norme d’uso.

Ora vediamo, a pochi centimetri dal naso, come avviene il fenomeno serigrafico. Sul telaio viene spalmato uno strato di gelatina a base di alcool polivinilico, con l’aggiunta, al momento, di una piccola percentuale di bicromato di ammonio, onde renderla fotosensibile. Il telaio viene fatto essiccare a luce attenuata in appositi armadi. (Io ho sempre usato con successo un paio di stufette ventilate). La gelatina è al massimo della sensibilità quando è completamente asciutta. Una sensibilità relativa per la luce normale, ma alta per la luce ultravioletta. Ciò allo scopo di consentire maggiore liberta di manipolazioni in ambienti normalmente illuminati. Le pellicole (positive) o il montaggio di esse, vengono poste a contatto con il tessuto serigrafico occluso dalla gelatina sensibilizzata ben asciugata, quindi si procede all’insolazione, non per la strada, naturalmente, ma in appositi torchi a pressione meccanica con luce della medesima frequenza di quella solare. Ad esposizione conclusa il telaio viene sviluppato con getto a doccia d’acqua corrente, preferibilmente tiepida. E’ accaduto che la luce ha indurito la gelatina in quelle zone trasparenti della pellicola fotografica, mentre le zone nere, in pratica lo scritto o i disegni, non essendo state colpite dalla luce, perché mascherate, si sono sciolte sotto la doccia. Solo in queste zone 1’inchiostro avrà la possibilità di essere erogato attraverso la pressione di uno spremitore o racla, che farà l’andirivieni copia dietro copia, all’interno del telaio.

Nel caso di più colori bisogna preparare tanti telai per quanti sono i colori da sovrapporre, come tutti i sistemi di stampa. La realizzazione di un’immagine a colori retinata è complessa e difficoltosa con il sistema serigrafico, in primo luogo perché i punti del retino si confondono con le maglie del tessuto, che in questo caso sarà abbastanza largo e di metallo onde evitare problemi di registro; in secondo luogo gli inchiostri serigrafici hanno come prerogativa l’intensità e la coprenza, per cui i colori fondamentali non si fondono bene per ottenere i toni intermedi.

TOTONNO PEZZE ’NCULO E VICIENZO PIERE PE’ TTERRA

L’arte serigrafica si è dequalificata sul nascere, a Napoli; il motivo lo troverete da soli nella storiella che segue. Un minimo impianto serigrafico si limita, si può dire, al solo materiale di consumo: telaio e inchiostro. Molti circumvesuviani hanno annoverato questo mestiere tra le migliaia improvvisati da secoli. Questo contribuisce al degrado (noi diciamo lo sputtanamento) di certo lavoro specialistico, perché le ditte regolari, soggette ad oneri vari, si vedono anch’esse costrette a mirare alla quantità, a discapito del pregio qualitativo.

Ed eccoci arrivati a Totonno pezze ’nculo e Vicienzo piere pe’ tterra. Tutti sanno che i soprannomi riflettono la personalità, il mestiere, la condizione di un individuo, quindi potete già farvi un’idea della morale della favola. I due tipografi in questione erano ubicati sulla stessa strada 1’uno di fronte all’altro. La spietata lotta commerciale durava da ben cinque lustri. Non si contavano le aggressioni fisiche, le rappresaglie, i boicottaggi. Sulle due fazioni nacque un vero mercato nero, giochi d’azzardo, ecc. Si scommetteva su chi rompeva prima la testa all’altro, sul numero dei clienti che entravano in ciascuna bottega nell’arco della giornata e via discorrendo. Scrivani e assistiti lavoravano a tutto spiano, tra cabala e smorfia. Insomma nacque un’attività economica che arrotondava i magri stipendi del vicinato. Intanto, i due, durante le tregue lavoravano come turchi, poiché a mano a mano che i costi si riducevano, la clientela diveniva sempre più nutrita. Quando le prestazioni raggiunsero il costo zero Totonne pezze ’nculo e Vicienzo piere pe’ tterra dilapidarono tutte le loro risorse e mandarono le fami- glie sul lastrico. Quella strada morì nel senso commerciale. I “bancarellari” tentarono nuovi siti. Gli scommettitori ripiegarono con il toto nero. In tutto il quartiere aleggiava un’aria di detrimento.

I due ambulavano nel quartiere, boccheggianti per l’inedia, dimessi e malnutriti, il viso grinzoso ed emaciato. Un giorno si incontrarono. Non si azzuffarono, non avevano altra forza che quella della disperazione. Non si sa bene se si abbracciarono nel tentativo di non buscarle, come fanno i pugili, o se si caddero addosso per il deperimento. Fatto sta che decisero all’unisono di fare appello al buon cuore dei passanti. Col viso smunto, non rasato, rattoppati e semiscalzi, puntualmente, ogni mattina occupavano le postazioni dei sagrati di due chiese, guarda caso, prospicienti l’una all’altra. Trascorsero alcuni mesi e, se pur non navigavano nell’oro, li si vedeva più nutriti, rasati, con banchetto con urna per ricevere l’obolo senza la mano tesa, il telone controvento, la ceneriera, il mazzo di carte, il minibar nel banchetto, ed i ringraziamenti formulati in locuzioni rivolte ai defunti, stampati in cartoncino formato visita per le 500 lire, in pergamena per le 1000, in papiro originale dell’antica Cina, made in Forcella, per le 10.000. Ma un giorno 1’uno notava maggiore affluenza sull’altro sagrato e decise di scemare le tariffe. Dichiarare la guerra ad una grande potenza era meno grave. Aggressioni. Parolacce. Boicottaggi. Teste rotte. E ancora: bancarelle. Assistiti. Scommesse. Insomma un altro quartiere di Napoli si risollevò dalla secolare indigenza. Totonne pezze’ncule e Vicienzo piere pe’ tterra questa volta finirono in mutande, alla lettera. Distrutti dalla fame, annichilati nel disonore perirono e furono inumati, destino infame, l’uno dirimpetto all’altro in un povero viale del camposanto, a pochi passi da un cenotafio e un famedio. Ma accadde… (Intelligenti pauca).

LA FLESSOGRAFIA

I clichè per la stampa flessografica vengono ottenuti tramite la copiatura meccanica di una normale composizione tipografica. La stampa flessografica è idonea per alcuni lavori di cartotecnica; per decorare la carta da imballo, per fabbricare timbri, ecc., lavori, comunque, per cui non si richiede una eccezionale qualità di stampa. Il procedimento per 1’esecuzione di una gomma flessografica è, appunto, pressoché simile a quello per la fabbricazione dei comuni timbri di gomma. La composizione tipografica di piombo viene fatta imprimere a caldo in un cartone speciale detto flan o flano. Si tratta di un composto relativo alla chimica organica, che ha sostituito il gesso o il piombo dolce di una volta. La composizione viene introdotta in una pressa che dispone di due piani di pressione riscaldati a 120-140 gradi. I caratteri poggiano sul piano inferiore, naturalmente. Sulla composizione viene adagiato il flano dal lato trattato per lo scopo, quindi si procede lentamente al pompaggio, nel caso di pressa idraulica, affinché i due piani si accostino e i materiali subiscano il solo contatto. Il flano, ammorbidito dal calore (120-140°), penetra lentamente sul rilievo dei caratteri conservando 1’impronta una volta raffreddato. Estratta la composizione si provvede ad introdurre il sandwich composto dal flano (negativo) e la gomma che dopo la penetrazione a caldo sarà positiva. Abbiamo ottenuto un cliché di gomma flessibile da applicare con doppio adesivo ai cilindri delle macchine flessografiche.

LE STEREOTIPIE

Attraverso un analogo sistema, già accennato in precedenza, ma più complesso e laborioso, si realizzavano le stereotipie dei quotidiani, procedimento scomparso. Le stereotipie per le rotative di giornale conservano la caratteristica del rilievo tipografico. Ciascuna composizione linotypica e a caratteri mobili: testo, titoli, pubblicità, cliché, ecc., insomma la pagina di giornale, viene introdotta in una pressa simile a quella descritta poc’anzi. Sulla pagina composta viene adagiato il flano fabbricato con sostanze chimiche diverse poiché esso, dopo la formazione dell’impronta, deve rimanere flessibile per assumere la forma semicilindrica delle matrici da rotativa. Il flano viene pressato lentamente sulla composizione perché, con l’ausilio del calore, avvenga la formazione completa dell’impronta incisa in tutti i suoi particolari, compresi i microscopici puntini delle immagini retinate. Il flano speciale viene inserito in una fonditrice semicilindrica essendo, ormai, una matrice negativa di fusione. Il piombo viene fatto erogare nella forma a fondere curva, quindi solidifica a contatto del flano raccogliendone 1’impronta positiva. Le stereotipie di piombo vengono fresate e pulite nelle parti eccedenti perché possano essere montate perfettamente sui cilindri della rotativa. I numerosi giornali che hanno raccolto le nuove tecnologie dette a freddo, per distinguerle da quelle a caldo (piombo fuso), utilizzano lastre offset per rotative predisposte a questo sistema. Il sistema rotocalco, invece si adatta a tutti i periodici illustrati ebdomadari.

PAOLO FRINGUELLI, GIORNALISTA SUI GENERIS

Ma in Campania vi è pure chi stampa il suo bravo foglietto quotidiano. Non si tratta del solito scrittore da dopolavoro comunale o poeta della domenica. Egli è uno strano filosofo che tira quotidianamente col ciclostile una modesta pubblicazione in folio. Il contenuto della stampa di Paolo Fringuelli, perché di estetica non si parla proprio, può essere riassunto in poche parole. La teoria di Paolo Fringuelli, bruno, tarchiato, con gli occhi piccolissimi dietro occhiali enormi, consiste in un movimento starei per dire paracristiano o ideal-politico-cristiano, come meglio viene, che postula la giustizia sociale attraverso le sole pacifiche (? ) armi: carta, penna e calamaio. Questa particolare forma di giustizia, però, pretende un riscatto dei brutti, dei poveri, degli oppressi, insomma di tutto il negativo storico. Si tratterebbe, in pratica, di ribaltare i valori materiali universalmente riconosciuti. Ghettizzare e sottomettere, ad esempio, i ricchi, i belli, i saccenti, i detentori del potere, i quali, tutto sommato, costituiscono delle minoranze. Stabilire, in parole diverse, un classismo alla rovescia. Creare un’ inversione di interessi, un modello sociale di valori pratici più vicino alla massa. Egli è convinto che ciò sia possibile poiché la massa è più numerosa, e, da che mondo e mondo, la maggioranza vince.

Si dirà, ad esempio, alla vista di una bella ragazza: Pussa via, bella e oca che non sei altro, che hai la marmellata al posto del cervello? Oppure: Disgraziatò di un possidente, non ti aovicinare, sa’, con la peste bubbonica della ricchezza, con la tua solitudine squallida! E ancora: Meschino di un potente, sparati la tua bomba atomica nel didietro perché, sappi, che essa manderà all’inferno te per primo, e via ciarlando.

Paolo Fringuelli ripete i moduli rancidi della protesta qualunquistica sostenendo che i poteri si camuffano di democrazia; che il sapere e la diffusione della stampa hanno scosso i giovani dal torpore dei vaneggiamenti filosofici, dall’illusione degli ideali politici, eccetera, eccetera. «La cultura è 1’informazione, caro il mio tipografo conformista – mi disse – fraternizza il figlio del ricco con quello del povero ed entrambi vanno nei fondelli ai genitori».

Paolo Fringuelli si desta puntualmente alle quattro del mattino, ciclostila in fretta tutto ciò che rimugina durante la notte. Alle dieci in punto esce la sua edizione quotidiana che distribuisce a mano personalmente, ogni giorno in un paesello della provincia. A Napoli non sarebbe mai più andato perché un paio di volte… «Miindofarono di mazzate, chilli chiaveche! Fai bene, va’!». Gli risposi che il prezzo che pagano i profeti è caro. Ci sedemmo su di una panchina nella Villa Comunale di Torre del Greco, e gli chiesi perché ce l’avesse in particolar modo con i fondelli dei suoi nemici. Ed egli per tutta risposta mi accusò di essere certamente un tipografo venduto al sistema, una pedina della società capitalistica.

Le sue spontanee reazioni non mi irritavano. Era sincero, in cuor suo, era solo un uomo mediocre affascinato dalla moda del giornalismo. Ma qualche idea originale non mancava, anche se astratta, fantasiosa ed utopistica. Non valeva la pena di compiere sforzi intellettivi per dire la mia, in fondo gli volevo bene, perché finisco col voler bene a tutti, prima o poi, con la mia passionale tendenza all’analisi, ma compromessa, spesso, da un sentimentalismo che più partenopeo non si può. Dopo me stesso, vedo tutti come bambini cresciuti; in questo modo si riesce ad intenerirsi a cospetto dei malvagi, dei pazzi, dei maniaci pure cruenti. Veder le loro carcasse d’adulti, non richieste, come scafandri sui loro corpi minuscoli, con quei ditini mirmicolanti; quasi sempre bimbi vessati, soffocati dalle angherie forse inconsapevoli dei genitori e degli educatori. Poveri assassini, poveri maniaci, poveri malvagi, (si fa per dire) quanto male hanno ricevuto le loro testoline in formazione, quanta indifferenza ed incuria, per essere condannati a divenir tali, a vegetare nella loro irreversibile maledizione. Forse noi sani che giustamente li condanniamo dovremmo espiare la nostra piccola parte di colpa, non altro la diffusissima politica dello struzzo, proprio quella che da noi talvolta fa pensare: Ad un palmo del mio sedere faccia chi vuole!

Ma noi genitori, meno degli educatori, non siamo psicologi, e soprattutto molti di noi siamo degli incoscienti bambini cresciuti, quindi agiamo in buona fede pur quando commettiamo errori gravissimi. Per fortuna i casi gravi sono ancora contenuti, pure nella mia terra. La maggioranza, male che vada, pecca solo di connivenza, forse allo scopo di non peggiorare situazioni scabrose. E vabbuono, nun fa niente; chiurimme n’uocchio; E’ cos’ ’e niente; Scurdammece ’o ppassato. Questa è la filosofia del popolo vesuviano buono, pacifico, ma lontano dal concetto di codardia, una maggioranza di popolo inquieta, che anela il convivere sereno e civile, ma che si disorienta sempre più. Il negativo nella nostra terra è rappresentato da una minoranza più esigua di quello che si pensa, ma lo sanno pure i neonati cosa provoca una pera marcia in un paniere di pere buone. Dissi a Paolo Fringuelli: «Non ricordo chi ha detto: l’illusione di ogni ideologo è quella di lusingarsi di cambiare il mondo, ma esso è fatto non gia di deliri mistici di tante idee separate, ma di tanti istinti separati, i quali, quando fraternizzano, finiscono sempre, in un modo o nell’altro, col farsi male a vicenda».

Ogni generazione intenta a distruggere i buoni risultati
di un’epoca precedente è convinta di migliorarli.

«L’uomo senza qualità» – Musil

CAP. VII

LA CARTA E GLI INCHIOSTRI

II libro deve desiderare penna, inchiostro e scrivania;

ma di solito sono penna, inchiostro e scrivania

a desiderare il libro.

“Umano, troppo umano” Nietzsche

LA CARTA

Onde poter scrivere c’e bisogno di carta, nella maggior parte dei casi. Forse l’industria commerciale ne assorbe più di quella editoriale, specie in Italia, non, chiaramente, per un’eccessiva domanda di… carta igienica, ma a causa dello sviluppo eccezionale della cartotecnica in funzione del fatto che noi italiani teniamo molto all’aspetto esteriore. Quindi tutto il commerciabile ha un involucro che dovrebbe proteggere o preservare igienicamente, ma che ubbidisce innanzitutto al fattore propagandistico, visto che nessun astuccio è anonimo. «Che ve lo devo dare in mano?», disse un pescivendolo torrese al suo avventore, il quale aveva notato, durante la pesa, una carta da avvolgere molto spessa che avrebbe aggiunto molto peso al merluzzo per la nennella deperita. Il Cliente irritato sbotto: «Non lo voglio in mano, ma nemmeno a quel posto, però!».

E’ chiaro che potevo fare a meno di cadere in queste che hanno l’apparenza di mediocrità espressive di tono scurrile. Questo lavoro, però, non va avanti sotto l’ottica dell’analisi scelta, del purismo letterario, è volutamente ibrido, aperto a tutti i linguaggi espressivi. In fondo è saggio quel proverbio che dice: Ogni volta che si ride si toglie un chiodo alla bara. Non è colpa mia se noi vesuviani ridiamo di cuore soprattutto col doppio senso erotico.

L’invenzione della carta, avvenuta migliaia di anni fa, era nata dall’esigenza di creare un supporto idoneo e pratico per la scrittura. La storia ci insegna che ben 3500 anni prima della nascita di Cristo gli egiziani scoprirono il papiro, fabbricato con le fibre della pianta omonima. Nel III secolo a. C., invece, si utilizzarono le pelli di animali opportunamente conciate per ottenere solidi e maneggevoli supporti per la scrittura. Si dice che la prima concia sembri essere stata eseguita in una città chiamata Pergamino (non Pergamo), da cui: pergamena. La scoperta della carta propriamente detta risale ad un centinaio di anni d. C. ed è da attribuirsi ai cinesi, che la preparavano con materie fibrose ricavate dal gelso e dalle canne di bambù. In futuro gli stessi cinesi sostituirono la materia vegetale con la macerazione di stracci. Gli occhi a mandorla custodirono il segreto della produzione della carta per molto tempo. In seguito, però, la carta fu utilizzata in tutto il mondo. Con 1’invenzione della stampa a caratteri mobili nel 1450, la carta fu completamente valorizzata e diffusa.

Grazie al Signore il mio popolo ha sempre avuto un profondo rispetto per la carta, specie se stampata. Con essa vi ride, vi piange, ma spesso finisce per utilizzarla in sostituzione della carta igienica. Mi verrebbe voglia di dire che noi abbiamo i popò più acculturati del mondo. Invece questa abitudine diffusa nel dopoguerra si e dileguata. Oggi una famiglia napoletana spende un terzo dello stipendio tra detersivi, ammorbidenti, lucidanti, e carta igienica. Ancora oggi a Napoli e in provincia si vedono i buzzurri o i fruttaroli ambulanti confezionare la loro mercanzia con i famosi cuoppi, ricavati dalle riviste rotocalco. Un bel giorno dei ragazzacci di Torre del Greco ne combinarono una coi cosiddetti fiocchi ad un anziano fruttaiuoli ambulante che sostava sempre innanzi ai sagrati delle chiese, in attesa che le massaie devote, dopo le prime contrizioni mattutine, provvedessero alla spesa quotidiana. Il malcapitato fruttaiuolo era storpiato e mezzo cieco e raccattava dai ragazzi di strada i giornali rotocalco per gli incarti. Una mattina gli appiopparono una intera annata di un mensile pornografico. I cuoppi fiammanti di policromie dei pornodivi finirono nelle borse delle bigotte a diecine prima che scoppiasse lo scandalo. Finché vi sarà legno sulla terra sarà possibile fabbricare carta. Pure con la paglia e con gli stracci si ottengono gli impasti per la produzione del principale supporto relativo alla stampa. Napoli offre un valido contributo alla fabbricazione della carta riciclata. Sono ormai numerosi i cartai campani, (un ennesimo mestiere improvvisato), che hanno un po’ rimpiazzato i vecchi “saponar”i di una volta, che offrivano quattro piatti e sei bicchieri, o una bacinella di stagno in cambio di stracci vecchi, i quali, a pensarci bene, erano in parte destinati alla produzione della carta. Pure quella dei giornali invenduti o di quelli usati, raccolti porta per porta, spesso da fantomatiche organizzazioni di beneficenza, viene riciclata.

La carta da imballo e quella dei giornali hanno una grande percentuale di pasta di legno. Le normali carte da stampa, invece, contengono pasta di legno e cellulosa. Migliore è la carta, maggiore è la percentuale di cellulosa. La cellulosa è una fibra legnosa che viene trattata chimicamente per dare candore e un bell’aspetto alla carta, che soprattutto non ingiallirà nel tempo. L’antichissimo sistema, invece, di fabbricare la carta con gli stracci prevede la macerazione di questi. Essi vengono strizzati e fatti fermentare in appositi contenitori, quindi macinati e ridotti in poltiglia Un tempo la carta veniva prodotta un foglio per volta con la lentezza che si può immaginare. Fu Louis Robert, nella meta del secolo scorso, a fabbricarla a ciclo continuo. La macchina che ideò produceva ben sei lunghi metri di carta al minuto per 50 centimetri di larghezza. Gli stracci sono ottimi per produrre la carta poiché il cotone ed il lino non sono altro che cellulosa. Oggi, con le fibre sintetiche, il discorso cambia. Alla pasta di legno e alla cellulosa vengono aggiunti additivi e collanti per attutirne l’assorbenza e permetterne la scrittura e la stampa.

Oggi costa più la carta neutra che quella stampata! Questo paradosso mi porta la mente verso l’adolescenza, quando la corsa in treno, della Circumvesuviana, Torre-Napoli costava meno di quella Torre-Ercolano, confinanti, rispetto ai 12 chilometri che dividono la mia cittadina dal Capoluogo. L’enigma verrà inumato con la mia carcassa, un giorno. La carta stampata dei rotocalchi, quindi, a conti fatti, costa meno di quella neutra perché la differenza è a carico dei numerosi inserzionisti pubblicitari, grazie ai quali si evita il lievitare dei costi delle pubblicazioni. Semmai gli inserzionisti anticipano questo contributo, perché, alla fine, sono sempre i lettori, indirettamente, a contribuire realmente attraverso l’acquisto dei prodotti pubblicizzati. Quel po’ che si risparmia sul giornale, caro ci costa, dietro il meccanismo del martellamento della grancassa. Devo qui spezzare una lancia a favore della bersagliata mamma Rai, alla quale quel canone, come diciamo a Napoli, glielo fanno uscire per le orecchie. Tutta la pubblicità assimilata in più dalle innocenti telelibere ci costa altro che centomila lire l’anno! (Considerazione degli anni 80. N.d.r.).

LA FABBRICAZIONE DELLA CARTA

Ma vediamo insieme come nasce la carta. Dopo aver tolto la corteccia ai tronchi, il legno viene sfibrato con apposite mole. La pasta di legno ottenuta viene fatta essiccare e imbiancare da vari composti chimici, atti ad eliminare la sua naturale colorazione. La cellulosa, invece, viene ottenuta facendo cuocere il legno macinato con altre sostanze chimiche, ottenendo fibre burattate da materie impure come resine, grassi, ecc. La cellulosa di paglia è ricavata da paglia di grano, riso e via dicendo. La collatura, invece, avviene con saponi di resina ed altri composti.

L’impasto fibroso viene trasformato in una enorme striscia continua che avanza su fitte reti metalliche onde favorire la colatura delle acque. Quindi la carta viene pressata e asciugata. La collatura e la lisciatura avvengono in fasi successive. Lo so, non è sufficientemente chiaro, rivediamo la scena a rallentatore. L’impasto parte dagli enormi serbatoi della vasca di afflusso, la quale ha una fessura regolabile. Un cilindro speciale detto ballerino mantiene 1’uniformità dello spessore della carta, ed è proprio questo cilindro, a proposito, che forma, quando necessita, la filigrana, perché appositamente trattato. Il nastro di carta largo una diecina di metri avanza, poi, nei cilindri pressatori, e ancora in quelli essiccatori. Un ultimo gruppo di cilindri provvede a collare e lisciare la carta allo scopo di predisporla all’uso che ne facciamo. Altri tipi di carta, invece, vengono calandrati, cioè ricevono il giusto grado di lisciatura perché risultino più idonei alla scrittura e alla stampa.

Inoltre la carta può essere ulteriormente trattata per usi speciali. Può essere martellata, goffrata, telata, colorata in superficie con pigmenti speciali, ecc. E’ facile scrivere sulla carta, ma non ugualmente stamparvici, specie con le macchine offset, là dove il foglio, al passaggio in pressione di stampa, può subire degli stiramenti, specie se non è immesso col senso della fibra favorevole alla stabilità dimensionale. Il problema è maggiormente sentito quando si devono stampate colori successivi sovrapposti. E’ possibile riconoscere la posizione della fibra inumidendo i due lati di un angolo del foglio. Quello contenente la fibra in senso verticale si ondulerà meno dell’altro. Ricordo il buon Friz, quando venne ad installare una fiammante bicolore offset alla tipografia del Ministero della Marina, sul Tevere. Aveva voglia di ripetere le bagnature alla carta, con le labbra! Non c’era commilitone che non facesse finta di non capire. Il povero Friz ritorno in patria disidradato. La stabilità dimensionale della carta viene pure compromessa dall’umidità e da altri agenti atmosferici. Per questo le macchine pluricolori hanno invaso il mercato, perché i vari colori vengono stampati successivamente in un tempo unico. Il primo gruppo stampa è neutro, la pressione del quale serve solo a stirare la carta.

I TIPI DI CARTA

La carta delle bobine viene tagliata nelle misure standard 70 x 100 e 64 x 88 cm. I formati più diffusi in Italia sono i sottomultipli del 70 x 100, ma l’invasione dei fotocopiatori stranieri ha diffuso pure da noi i sottomultipli del 64 x 88, molto usati all’estero, come il formato UNI, 1’A4: 21 x 29,7. La carta si può tagliare in tutte le misure. E’ un’operazione che richiede pratica ed esperienza. Innanzitutto bisogna saperla manipolare, specie quando e sottilissima (pelure). Noi tapini bottegai tipografi non siamo provvisti dei moderni prodigiosi tagliacarte elettronici, adoperiamo ancora i modelli Rivoluzione francese, che ne hanno mietuto dita e, talvolta, qualche mano, tuttavia trasformati a norma. I moderni sono provvisti di programmi elettronici e cellule di sicurezza sofisticate. Non sempre c’è da fidarsi, pero, dei cervelli senz’anima. Noi artigiani non solo facciamo a meno del programma, non che ci faccia schifo, intendiamoci, ma evitiamo pure i calcoli matematici perché determiniamo le forme geometriche relative alle suddivisioni ottenibili dal formato disteso con calcoli e regole mentali memorizzate durante le numerose esperienze precedenti.

Ed eccoci arrivati ad un’altra divagazione. Colgo l’occasione per chiedere venia se i risvolti narrativi sono sempre ambientati nelle tipografie artigiane inserite nel contesto urbano come i bar e le tabaccherie. Delle industrie grafiche riuscirei solo a rifletterne l’aspetto tecnico passim nel testo. Malgrado i tentativi sperimentali non riesco a creare una narrativa tecnica, ma bisogna rimboccarsi le maniche, cosa leggeranno, se no, i robot ? Non riesco a cogliere elementi antropomorfi negli ambienti industriali. Gli uomini sembrano il complemento meccanico delle macchine, le quali somigliano a tante strigi impietose inclini all’asservimento. Non più uomini, automi, che si muovono al ritmo dei cuscinetti a sfera e delle bielle e manovelle; soprattutto in quelle aziende convertite ai più lucrosi avanguardismi, dove la dimensione umana è appena avvertibile durante qualche, ancora consentita, pausa relativa ai bisogni corporali. Ma vedrete, si finirà col dotare le maestranze non gia di orinali, ma di pitali per l’incontinenza, o, ancora più pratici, di capaci assorbenti, forse, modificheranno il processo metabolico.

MARIO ESPOSITO, IL ROBESPIERRE DELLA CARTA

Lo stesso Mario Esposito, detto il Robespierre, mi ha dato conferma di quanto appena esposto, durante un colloquio avuto con lui dopo la sua morte (sic). Mario viene spesso nella mia bottega di Torre del Greco. Egli ama la mia città perché v’è vissuto un politico onesto: Enrico de Nicola (Dio mio, come cambiano i tempi!). In più il Robespierre usufruisce dei benefici terapeutici che Torre gli elargisce. Sosta un po’ nella mia bottega, rinnovando l’attributo di chiodo al mio tagliacarte, quindi prosegue per la Nazionale e giù sulla Litoranea, superba stazione termale, secondo lui.

«Quando mi immergo nelle acque inquinate, che dico, brodolose, fecciose, pantanose e lutulenti, – mi disse Mario – io mi sento rinascere. Che bisogno c’e di sottoporsi alla fangoterapia a Ischia. I miei anticorpi sono i più virili del mondo, prima si pazzéano i batteri, poi li fagocitano, perché i microbi, sappi, sono sempre femmine, poiché se non stai attento ti fregano!». Mario Cesoia è uno di quei personaggi di cui è difficile stabilire quando ironizzano e quando fanno sul serio. «Modestia a parte – aggiunse – io sono il più grande tagliatore cartaceo del globo. Ai tempi della Rivoluzione Francese avrei fatto affari d’oro. Oddio, non è che adesso teste non ce ne sarebbero da tagliare… Durante le elezioni, una volta, ho tagliato due miliardi e trecentomila tonnellate di carta; eppure, mi devi credere, 1’ultimo quintale mi fece il servizio… si, quando andai all’altro mondo, ti ricordi?».

Mario Esposito detto cesoia, malgrado i suoi inesorabili anticorpi si ritiene un autentico ospedale ambulante e, chiaramente attribuisce la colpa ai padroni, quelli vecchi, precisa, perché i nuovi, o sono buoni o lo devono essere per forza. Mario non si spiega come abbia fatto a prendere lo zucchero (diabete) mentre nella vita gli hanno dato sempre veleno; tanto meno sa capire come abbia preso l’acqua nella pancia (cirrosi epatica) se ha sempre tracannato ettolitri di vino. Prodigi del vernacolo!

La mattina di un gelido e grigio febbraio Mario Cesoia, alias il Robespierre, morò, per dirla con lui. Dopo 12 ore dall’accertato decesso fu scovato in cucina, dagli addetti delle pompe funebri, mentre strombettava una fanfara sul bevante di un fiasco di Barolo.

Dichiaro alla stampa: «La catalessi e un tranquillo sonno fetale. Se volete sapere se esiste l’altro mondo mi date sei o settecento milioni ed io vi accontento. So bene che non me li date perché non mi credete, ma se io lo so davvero? … Il risveglio – concluse con una smorfia di disgusto Mario, sotto la luce violenta del quarzo – è deprimente. Questo ve lo dico gratis. Perché ti ritrovi in questa schifezza di mondo e rivedi le stesse facce, la stessa gente che si agita, irrompe, si precipita per arrivare dove? E già, voi siete giornalisti, sono frasi fatte, eh? Ma io faccio il tipografo da cinquant’anni e qualche cosina 1’ho imparata. Ha detto una volta Giorgio Bassani: ”Per capire veramente come stanno le cosea questo mondo bisognerebbe morire almeno una volta». – Mi strizzo 1’occhio. – Che facciamo? Il certificato medico parla chiaro. Va be’ facciamo cinque milioni e 1’affare e fatto! Cinque milioni li spendete in un giorno, all’inferno, per un poco di ghiaccio fetente che vi può passare qualche diavolo corrotto».

Mario Robespierre non ottenne i cinque milioni, ma ha lasciato il lavoro per la nuova professione di assistito. Chi più di lui può dare i numeri?, si e chiesta la gente. Il più delle volte le prende, specie quando fa perdere poste alte, ma quando l’azzecca lo piazzano su di una sorta di stallo pontificale aleggiandolo con due flabelli. L’ultima volta che l’ho visto gli ho chiesto: «A me lo puoi dire, sarò una tomba, l’inferno esiste o no ?».

Mi fissa come per dire: povero grullo: «E ti pare che se io ero sicuro che 1’inferno non esiste sopportavo ancora quella strega di mia moglie e quell’arpia di mia suocera? E da mo’ che le avrei tagliate quelle teste, sai il taglio che sogno tutte le notti, altro che risme. Le avrei bollite e le avrei messe fuori il balcone appese con un limone in bocca. Le lingue le avrei bruciate, cremate, perché quelle sarebbero capaci di vituperare pure dopo morte».

CARATTERISTICHE CARTACEE

Ma riprendiamo il nostro argomento. La carta più leggera è la cosiddetta pelure, che va dai 30 ai 40 gr. al mq. Essa viene utilizzata per facilitare il ricalco tramite carta carbone o per usi relativi ad esigenze di spessore o di peso, come nel caso della corrispondenza via aerea. (Oggi 2002 è stata quasi soppressa con l’avvento della carta chimica e quello dei fax. N.d.r.). La normale carta satinata, dai 50 ai 150 gr. al mq. è utilizzata per numerosi lavori di stampa compresi quelli editoriali. La carta patinata lucida od opaca va da una grammatura di 80 a 400 grammi (cartoncino pesante) e si presta per le illustrazioni retinate, specie se stampate con clichè di zinco (in disuso) con retinatura fino ad 80 linee al cmq. e oltre o in offset con retini fino a 150 linee.

I cartoncini vengono prodotti con una varietà notevole. La grammatura varia da 150 a 500 gr. al mq. Essi, com’e noto, vengono adoperati per realizzare lavori commerciali come biglietti, cartoline, copertine, schede, cartelle per atti e via dicendo, nonché come copertine per uso editoriale. Abbiamo i cartoncini tipo Bristol od opalino, gli schedografici, i telati, i martellati, i vergati e i tracciati, i puntinati, gli ondulati, i rasati, i plastificati monotrattati e, dulcis in fundo, i pergamenati. La pergamena propriamente detta, invece, e 100-180 gr.

E’ presente sul mercato un vasto mercato di carta allestita e preconfezionata. La prima riguarda più le tipografie che le cartolerie, la seconda entrambi i settori. La carta allestita consiste nel rismettame e il bigliettame vario; il preconfezionato riguarda, come dire, lo scatolame cartaceo: Biglietti con buste, inviti con buste, partecipazioni, buste internografate, e i prelavorati in genere. A Napoli e a Salerno vi sono rivenditori grossisti che forniscono tutti i tipografi artigiani della regione. I complessi tipografici si riforniscono dalle cartiere. La carta distesa 70 x 100 e 64 x 88 cm. viene confezionata in risme per le grammature da 30 a 60 gr. al mq. Oltre questo peso la carta viene confezionata i pacchi da 250 fogli (da 80 a 130 gr. al mq.) e da 125 o 100 fogli, il cartoncino. La suddivisione così ripartita prevede sempre pressappoco lo stesso peso per consentirne lo spostamento manuale. L’unica cosa nelle arti grafiche che è rimasta a misura d’uomo.

Non bisogna dimenticare il settore delle buste, prodotte in una varietà infinita di formati e grammature, sia per 1’uso tipografico che per quello commerciale e alimentare, destinate, queste, ad un massiccio rilancio, perché sono biodegradabili, in contrapposizione a quelle di polietilene largamente inquinanti. In più le cartiere producono tonnellate di cartoncino destinato agli astucci contenenti ogni tipo di mercanzia, dai prodotti alimentari a quelli medicinali, Infine spendiamo qualche parola per 1’utilissimo cartone ondulato da imballo, indispensabile per l’uso di ogni sorta di spedizione merceologica a livello planetario. Ne riparleremo più avanti nel paragrafo relativo alla cartotecnica.

LA CULTURA NAPOLETANA PRIMA DI GUTENBERG

Conclusa la breve panoramica sulla carta è necessario trattare, sebbene a grossi tratti, l’argomento tecnico relativo agli inchiostri. Prima, però, con la scusa di rilassarci, facciamo un’altra sosta nella storia. Gli inchiostri da stampa vengono prodotti oggi in milioni di tonnellate l’anno per tener testa alla domanda della, sebbene concorrenziata, era della carta. Produzione di colori di gran lunga superiore a quella secolare, atta alla copiatura dei codex. Una esigua quantità d’inchiostro, ricavata da materie vegetali, veniva prodotta ancora ai tempi di Roberto d’Angiò, alias il Saggio, il quale, come Federico II, sembra favorisse la cultura napoletana durante il suo Regno. Fu in quel periodo che Giovanni Boccaccio scrisse alcune sue opere durante il soggiorno napoletano. In quel tempo numerosi letterati italiani insegnarono all’Università di Napoli, compreso chi ci denigrava, come Cino da Pistoia, ad esempio, che immortalò qua e là versi e pareri non del tutto edificanti per Napoli.

Roberto il Saggio mise assieme una vasta biblioteca di codici di ogni tempo, così gravosamente copiati dalle officine scrittorie. Il re, bontà sua, mise pure a disposizione un vasto ambiente di lavoro per copisti e miniaturisti laici. Per i sovrani è stato sempre facile affermarsi in ogni campo, da qui dev’essere derivata la nostra locuzione popolare: La flatulenza del capo non olezza, più colorita nella sua versione originale: ’A puzza d’ ’o masto nun fete. Non dimentichiamo che Napoli, a differenza di Londra, Parigi o S. Francisco, vanta una vasta letteratura popolare caratterizzata da lazzi scurrili, prosaicità facete o trivialità da portuali, che attingono da un bisogno atavico di rimuovere (con tali innocue trasgressioni) quella conflittualità osservanza – inadempienza», circa le solite normative divino-terrene di una cultura locale radicata sulla ossequianza sudditale, in alternativa alla reazione delittuosa d’esito irreversibile. In altre parole il popolo, attraverso atteggiamenti blasfemi o scurrili, reagisce alle angherie dirigenziali in alternativa alle conseguenze di pulsioni reattive di tono delittuoso.

Il popolo napoletano per secoli ha fatto finta di non sentire molte puzze e continua a far finta di non sentirle. Non è affatto codardo, ma saggio, e vorrebbe, in maggioranza, regolare i conti con sberle e cazzotti, alla Bud Spencer. E’ una razza, quella vesuviana, al di là di certa minoranza purulenta di immaturi settici, che tendono a diffondere la cancrena in tutto il tessuto sociale, ancora adulta, sebbene si avvertano le prime avvisaglie di confusione e disorientamento. Un popolo, come molti altri, che ha da tempo superato la fase cervantesiana e che riconosce bene l’utopia delle rivoluzioni. Così gli scritti di Roberto d’Angiò (come, ad esempio, il famoso epitaffio per la nipote Clemenza, figlia di Carlo Martello) passano alla storia.

Spesso, però, le mediocrità e le baggianate di uomini storicamente famosi sono valide sol perché fatte da uomini tali, o pure perché vissuti quando vi era penuria di opere artisticamente e culturalmente valide. Un po’ come accade oggi, talvolta, per alcuni riconoscimenti ufficiali. Uomini ed opere egregie restano in ombra perché scavalcate dai primi posti, mentre, per contro, opere ed uomini mediocri si affermano per l’assenza temporanea di elementi migliori. Senza parlare delle affermazioni di carattere competitivo dove un voto od un centesimo di secondo distruggono la carriera di uomini validi.

Intanto il Petrarca accettò di essere esaminato, per alcuni riconoscimenti, dal sovrano, «L’unico – disse – che accetto come giudice del mio ingegno». Ma qui, a mio parere, la cosa faceva perno più sull’appoggio politico che sulla perizia letteraria. Dante, per tutta risposta, denigrava il re sermone, altrettanto per ragioni politiche. Ma è bene ribadire che il fulcro di tutta la cultura napoletana di quel periodo storico fu l’opera di S. Tommaso d’Aquino, il quale, in assenza non già solo delle collane economiche divulgative moderne, ma pure di quelle prototipografiche di Aldo Manuzio, si disponeva sugli ampi sagrati ed intratteneva la folla napoletana, in volgare, con i concetti essenziali della sua dottrina cristiana. Fino al XV secolo, che vedrà la scoperta del Nuovo Mondo e quella della stampa a caratteri mobili, la cultura napoletana s’incentrava sugli studi teofilosofici, quindi furono ben scarse le opere prosastiche o in versi degne di rilievo. Vigeva la poesia provenzale importata dagli stessi angioini, la quale influì non poco, secondo i filologi, sull’insorgere della poesia popolare napoletana, che si affermerà definitivamente solo nel Cinquecento, in pieno periodo della scoperta della stampa.

Intanto gli scriptorum erano in pieno fulgore. Era 1’esplosione pirotecnica conclusiva di un’arte plurisecolare destinata di lì a poco ad estinguersi, o a sopravvivere come i fuochi fatui nelle scuole elementari sotto il nome di calligrafia o bella scrittura, per incenerirsi completamente nel secondo dopoguerra. Non di meno, di stabile affermazione era la miniatura, essenzialmente legata ai codici danteschi. Molto nota la Divina Commedia miniata a Napoli in quel periodo e conservata gelosamente presso la Biblioteca dei Gerolomini. Si tratta di un codex molto discusso, copiato, sembra, da un altro codice toscano realizzato appunto da scribi fiorentini. Quest’opera, detta pure filippina, nacque dalla stretta collaborazione di un provetto amanuense ed un esperto miniatore. Il genere di letteratura artistica miniata si propagò in molte province del Regno, i cui operatori erano attratti dalla cultura artistico-letteraria degli angioini.

INCHIOSTRI GRAFICI E LORO USO

Anticamente, pure all’epoca degli angioini, 1’inchiostro, come ho già detto, veniva fabbricato per lo più con materie vegetali. Il nerofumo come pigmento da sempre viene prodotto tramite combustione da fiamma. I cinesi, ancora una volta, sono stati maestri nella produzione degli inchiostri. Alcune pergamene, ad esempio, venivano scritte con inchiostro oro o argento, fabbricato con l’impasto delle polveri degli stessi metalli. Il più famoso strumento di scrittura fu lo stilo, da cui derivano stile, stilistica, stilografica, ecc. Un altro rudimentale strumento fu il calamo, da cui: calamaio. Infine si ebbe la penna di volatile, usata per centinaia d’anni. Il nero, per millenni, è stato 1’inchiostro da scrittura e tipografico più usato. Oggi le industrie per la produzione di inchiostri da stampa sono dei veri e propri laboratori chimici. Si dice che un tempo i tipografi preparavano da sé vernici e pigmenti, custodendone gelosamente le formule. La vernice costituisce il veicolo di trasporto del colore dal calamaio della macchina, giù per i rulli inchiostratori (alcuni mobili per stemperarlo), fino alla carta.

Il pigmento è il colore impresso sulla carta. Le caratteristiche principali del pigmento dell’inchiostro grafico sono 1’intensità della tinta e la resistenza, principalmente alla luce e all’acqua. Le vernici, invece, erano ricavate da oli vegetali che hanno la proprietà di essiccare per ossidazione, anche su carta che non ha nessuna capacita di assorbimento, come, ad esempio, la carta patinata. Oggi queste vernici sono per lo più sintetiche, ma conservano tutte le caratteristiche di quelle naturali. I pigmenti vengono ricavati da sostanze inorganiche, solo il nerofumo, come ho detto, viene ottenuto con la combustione di fiamma, gas, ecc. In passato venivano usati pigmenti ricavati dalle terre colorate, ma esse non favorivano la preparazione di inchiostri raffinati e si rivelano meno idonei delle sostanze vegetali o chimiche.

Altri tipi di inchiostri vengono detti ad essiccazione per penetrazione. (Si prega i libidinosi di non sbarrare gli occhi). Questi composti, a base minerale, sono adatti per le carte poco lisciate e comunque non patinate. Essi vengono adoperati per carte ruvide e possono restare sulle vecchie macchine tipografiche anni interi senza il timore che possano essiccare. Sono in commercio degli essiccanti separati che agiscono anch’essi come assorbitori di ossigeno, e il tipografo può amalgamarli all’inchiostro. Questi composti sono prodotti col manganese, zinco, ecc. e vanno dosati in piccole percentuali, una dose eccessiva provocherebbe 1’effetto opposto, perché romperebbe l’equilibrio delle molecole. L’essiccazione degli stampati è favorita dagli ambienti riscaldati. La carta umida in un ambiente freddo ritarda il processo di essiccazione tra le molecole e l’aria. Per ciascun sistema di stampa (tipografia, offset, rotocalco, flessografia, serigrafia, ecc.) viene prodotto 1’inchiostro idoneo. Gli inchiostri tipo offset, ad esempio, hanno la massima repulsione per l’acqua. Ma ciò non basta, gli inchiostri di uno stesso veicolo di stampa presentano sostanziali differenziazioni in relazione agli svariati tipi di supporti; in più si tiene conto addirittura del tipo di macchina, della velocità di stampa, e via dicendo.

La stampa tipografica, caratteri e cliché, consente maggiore tollerabilità per l’uso di inchiostri, anche non molto indicati, non così, invece, per gli altri sistemi. L’inchiostro offset, ad esempio, è di scarsa acidità per non compromettere la durata delle lastre che in effetti sono dei sottili supporti trattati con delicate sostanze chimiche fotosensibili. Il piombo tipografico, invece, resiste ad ogni tipo di acido o solvente. Il pigmento dell’inchiostro offset deve essere molto intenso poiché la lastra ne deposita sulla carta una quantità minima. In più un composto poco viscoso imbratterebbe i rulli bagnatori più del normale compromettendo la qualità della stampa.

Gli inchiostri per rotocalco, invece, sono di natura totalmente differente, essi essiccano per evaporazione, come i flessografici, perché i loro solventi sono molto volatili. Anche in questo caso le formule di questi composti variano a seconda dell’impianto adoperato, in relazione alla velocità, al tipo di carta, alla sovrapposizione dei colori, ecc. Anche se molto fluidi essiccano non appena a contatto della carta, perché in un solo ciclo veloce avviene la stampa di più colori, la piegatura, il taglio, la spillatura e la rifilatura delle riviste. Gli inchiostri flessografici sono liquidi, essi, un tempo, venivano preparati sciogliendo l’anilina in alcool con altri additivi. Oggi sono stati sostituiti con altri composti chimici meno nocivi (?), i cui solventi sono sempre molto volatili. Meriterebbero un capitolo intero gli inchiostri serigrafici, poiché ne occorre uno per ciascun supporto da decorare. Sono così tanti che spesso non si tratta neppure di inchiostri, basta pensare alla crema o al cioccolato liquido che vengono adoperati dalle industrie per decorare dolciumi in serie. Le bottiglie vengono serigrafate tramite composti vetrificabili. Altri tipi sono composti da vernici ricavate dalla materia stessa da decorare in maniera da favorirne la fusione, ecc. (Vedi paragrafo: Stampa serigrafica).

IO, GARZONE TIPQGRAFO

E a proposito di inchiostro, mi rivedo adolescente, avviluppato nel camice di apprendista tipografo compositore, nero da capo a piedi. L’unto fuligginoso, la naftalina e il madore della fatica lasciano esalare un tanfo tipico della categoria, che non supera, però, la soglia dello sgradevole. Per la strada, durante le commissioni venivo scambiato per il garzone del carbonaio. E’ la carretta dello stampatore, mi difendevo dall’aria di dileggio che avvertivo nei passanti. Appena mezzo secolo fa i furgoni erano un lusso. Il trasporto merceologico per brevi distanze avveniva con la famosa carrettella condotta a braccia. Gravunaro! gridava qualche moccioso con aria di scherno, ed io, con un groppo alla gola, accostavo la carrettella sul ciglio della strada e puerilmente irrompevo a piangere sotto l’umido androne di un vecchio palazzo. «E’ un onore apparire insudiciati per il lavoro», diceva mastro Enrico per consolarmi, al ritorno. Sembra una battuta tratta dal libro Cuore. Allora mi stava bene, mi faceva sentire una specie di martire eroico. Solo diversi anni dopo ho capito qual è il sudiciume di cui molti di noi dovremmo vergognarci. Oggi gli adolescenti sono tutti nutriti a sufficienza e ben vestiti; nessun dodicenne, oggi, governa più una carrettella per istrada come i paria indiani o i portantini cinesi, gli uomini mulo. Non è tanto la dignità che si è data al lavoratore adulto occidentale che commuove, ma la quasi eliminazione dello sfruttamento minorile, di questo bisogna dare atto ai sindacati, al di là degli errori corporativi. I giovinetti, oggi, scrivono e si esprimono molto bene, ma diversi di loro non comunicano, questo è un dramma ancora peggiore dell’ignoranza e della sporcizia. In Italia, oggi, si consumano migliaia di tonnellate di detersivo l’anno, grazie alla grancassa propagandistica, anche per alternare, probabilmente, i tentativi di lavarsi dentro. Il cerimoniale dell’ablùzione si è diffuso nelle società occidentali attraverso le plurime detergenze oggettuali, docce domestiche e talassoterapia di massa tra milioni di spiagge e piscine, ma questo e uno scongiuro tribale, effimero, ci vuol ben altro per riguadagnare la tolleranza all’insoluto esistenziale.

Credere al progresso non significa che un progresso ci sia stato.

«Diari» – Kafka

CAP. VIII

I VARI SISTEMI DI STAMPA VISTI DA VICINO

Bisogna proprio dire che gli uomini sono riusciti

a dare alle proprie macchine agilità, forse energia,

precisione di movimenti ed eleganza di linee,

lucentezza e rapidità; ma una bella voce allegra,

una voce cordiale che sia come l’espressione di un’anima, no.

«Se la luna mi porta fortuna» Achille Campanile

LA STAMPA TIPOGRAFICA

Abbiamo visto che la stampa tipografica a caratteri mobili è quella che ha dominato il mercato librario per cinque secoli. Ancora oggi il sistema non è stato completamente abbandonato neppure dalle industrie grafiche. Il principio della stampa tipografica è simile a quello elementare che compiamo quotidianamente nel nostro ufficio: la timbratura. Il timbro è la composizione tipografica; la scrivania il piano portaforme; la nostra mano il cilindro di pressione. Le macchine tipografiche, però, più massicce e resistenti di noi, compiono quel gesto con decisione, sistematicità, ripetitività regolare. Le macchine tipografiche per caratteri di piombo si distinguono in tre categorie fondamentali: platine, piano-cilindriche e rotative. Le macchine platine sono di piccolo formato (per formato s’intende la dimensione massima del foglio che si può immettere). Le vecchie platine: le pedali, con puntatura a mano e funzionamento appunto a pedale, successivamente motorizzate, ancora vengono utilizzate per lavori minuti o per la fustellatura (taglio sagomato con lamine d’acciaio di forma geometrica).

La platina fu completamente automatizzata da una casa tedesca che ne fece un gioiello meccanico, èla famigerata Haidelbegr detta stella. Prodotte in serie hanno dominato il mercato mondiale per molti decenni, grazie all’estrema praticità d’uso. Questi tipi di macchine sono adatte ad una infinità di piccoli lavori commerciali dove non si richiede abbondanza di pressione di stampa ed inchiostrazione. Sono, tra 1’altro, molto veloci, malgrado il solito arresto di fase, caratteristico delle macchine da piombo. Io ne posseggo due, l’una e più vecchia della buonanima di mio nonno; l’altra è di più recente costruzione.

La macchina presenta verticalmente il piano portaforme, dove viene posizionata la composizione stretta in un telaio metallico. Una pompa d’aria meccanica alimenta un braccio aspiratore che raccoglie il foglio dalla pila e lo immette nelle pinze mobili che roteano sul piano di pressione onde posizionare il foglio tra la composizione (ad ogni giro inchiostrata) ed il piano di pressione, che va a schiacciare la carta contro i caratteri. La stessa pinza porta la carta sulla pila d’uscita.

Le macchine piano-cilindriche, invece, furono fabbricate per i formati di carta più estesi, dove c’è maggiore necessità di pressione e di inchiostrazione. Nel metodo delle macchine platine la carta si trova in posizione piana durante l’impatto di stampa, Nel sistema piano-cilindrico la carta prende la posizione del cilindro di pressione che gira sul proprio asse rotolando sulla composizione, la quale avanza, a sua volta, sul piano portaforme mobile, che compie 1’andirivieni ad ogni fase di stampa. La struttura delle macchine pianocilindriche è molto robusta. Maggiore è il formato della composizione, superiore sarà la pressione richiesta. Immaginate sulla vostra scrivania due timbri, l’uno piccolino, l’altro grosso come il formato di un libro e che ne riproduce una pagina. Mentre il primo viene timbrato disinvoltamente con la leggera pressione di una mano, il secondo richiederà la presa con entrambe le mani e vi costringerà ad alzarvi dalla sedia onde contribuire all’impatto col peso del vostro stesso corpo. Solo in questo modo tutti i caratteri saranno leggibili dopo la timbratura. Nelle macchine piano-cilindriche il sistema di inchiostrazione è molto più efficiente di quello delle platine. I rulli inchiostratori sono più numerosi e diversi, alcuni oscillanti per la macinazione dell’inchiostro. Inoltre i rulli di forma, quelli, cioè, che sfiorano la superficie dei caratteri, restano sempre uniti al resto dei rulli del gruppo inchiostratore, a differenza delle platine, in maniera tale da favorire un’alimentazione costante, indispensabile in caso di forme fitte di caratteri grossi o fondi pieni.

Sono ancora in uso poche vecchie piano-cilindriche con puntatura a mano e uscita dei fogli a cordicelle e ventaglio. Esse, pero sono utili per le piccole tirature di avvisi murali cittadini. Ma la maggior parte delle piano-cilindriche della seconda generazione sono dotate di mettifoglio automatico ad aspirazione e dell’uscita a catena, vale a dire meno rudimentale. Durante questo secolo sono state costruite centinaia di migliaia di macchine tipografiche propriamente dette, oramai in piena obsolescenza. La loro evoluzione è durata l’arco di un secolo. Molti, in origine, furono i tentativi per accrescerne le prestazioni. Furono costruite, senza successo, le bianca e volta, che imprimevano entrambi i lati della carta contemporaneamente. Poi si tentò di combinarle tra loro. Nacque la bicolore tipografica, da questo principio derivano le pluricolori offset e rotocalco di diffusione totale planetaria. Ogni gruppo ha il proprio cilindro stampa, l’autonomo gruppo inchiostratore, ecc.

ARTIGIANATO OBSOLETO

Le macchine tipografiche vecchia maniera vanno purtroppo scomparendo. Chi mi sente dire purtroppo mi taccerà di misoneismo. Ebbene, chiariamo subito la mia posizione. Solo uno stupido non saprebbe valutare i vantaggi pratici del progresso e la sua legittimità in relazione alle esigenze di mercato. Ma il punto è un altro. Perché 1’uomo, a prescindere dalla incalzante domanda connessa al movimento demografico, viene coercizzato nel consumismo? La gente crede che tutto ciò che compra sia necessario o addirittura indispensabile. Infatti finisce con esserlo quando se ne crea la dipendenza. Il mondo è diventato, nell’arco di un secolo, una gigantesca fabbrica di medicamenti psichici oggettuali e alimentari. Le arti grafiche, asservite alla grancassa, ne sono state coinvolte in misura spaventosa. La stampa tipografica, in cinque secoli, e stata l’unico strumento che ha diffuso in maniera capillare i due millenni di cultura, lasciando cogliere a tutti, tra l’altro, pure dei benefici essenziali, come i sostegni psichici contro l’insoluto di finibilità terrena, rincrudito dal timore di assenza salvifica post-mortale. Sostegni più comunemente noti come valori etico-spirituali, che alimentavano costantemente nell’uomo, la speranza e la reversibilità.

Il deterrente atomico ha stagnato la stasi politica planetaria, quindi ogni speranza di rinnovamento, a prescindere dal timore inconscio di un’apocalisse esente da ogni sorta di palingenesi. In più, i moderni mass-media di natura elettronica diffondono massicciamente, prevalentemente l’edonismo consumistico, anche attraverso programmi artistici e d’evasione, esaltando un modello sociale di uomo schiavo della bellezza e del successo, infermo nelle più svariate dipendenze materiali. L’etica e il nutrimento spirituale sono retorica da anacoreta, ma senz’altro meno esiziali e più accessibili dei sostegni effimeri moderni, data la precarietà del loro accaparramento. Il paradigma moderno dei valori umani (sempre visto sotto è’ottica di sostegno psichico di stampo esistenziale) e quello del potere d’acquisto.

La sperequazione, connaturata nell’istintuale agonistico dell’uomo, si è allargata non solo tra le classi, ma nelle classi, generando forme morbose di malcontento ed intollerabilità condominiali ed urbane mai verificate nella storia. Finche 1’uomo non prenderà consapevolezza di stare affogando nel tentativo di spegnere il fuoco con la benzina, non ci sarà speranza per la razza umana, perché la folle corsa conduce ad una sola meta: quella di morire prima e peggio!

Lo sviluppo della stampa offset e della relativa fotocomposizione elettronica ha determinato una svolta decisiva all’evoluzione della stampa. Al sistema offset, comunque, sono preclusi molti piccoli lavori artigianali realizzabili, per il momento, solo con il sistema tradizionale. In un futuro non molto lontano pure i bottegai tipografi dovranno, giocoforza, convertirsi alle nuove tecnologie, altrimenti difficilmente sopravviveranno. La vita frenetica di oggi ha settentrionalizzato il rapporto cliente tipografo. Forse le commissioni, un giorno, passeranno solo attraverso le caselle postali, i telex, i telefax e, come è bello dire, chi più ne ha più ne metta. L’afflato comunicativo del mercanteggiamento si incrina a causa del ritmo sempre più serrato della vita moderna. Il tempo è sempre più tiranno, altro che maestro in ogni cosa, come diceva il filosofo. Vecchi assiomi di stampo speculativo vanno completamente rivisitati.

Un giorno ho appiccicato un cartello sulla vetrina della mia bottega di Via Purgatorio, dove si leggeva: 100 carte da visita in omaggio a chi lascia trascorrere almeno un secondo tra una bussata e 1’altra. L’utente appare sull’uscio trafelato, dipendente di una cinesi perpetua, stressato dal traffico urbano, intensissimo nella cintura vesuviana ed in ispecial modo a Torre del Greco, dove la carrabilità è ferma a quella barrocciabile, modificata solo dal catrame. Egli ha appena la forza di dire: Mi serve il tipografo, fate voi. Quante volte devo dar corpo alla vaga idea del cliente, traducendo il pensiero in modello di stampa, creando in esso il messaggio rivolto agli utilizzatori, a loro volta sprovveduti e distratti, come quasi tutti i recepitori di messaggi pubblicitari stampati, corrotti dai concorrenti mezzi di comunicazione moderni.

Tra i lavori artigiani presunti per fare quattrini, quello tipografico è il meno indicato, a meno che il danaro non lo si stampi direttamente, ammesso che si abbia le attrezzature costose e specifiche per farlo. Oggi, e non è un’affermazione di comodo, chi sceglie di fare l’artigiano tipografo, nella terra vesuviana, incappa, per dirla in frase fatta, in una brutta gatta da pelare. Il fisco ha educato gli artigiani, i sindacati hanno dirozzato gli imprenditori ed istruito i dipendenti, e sta bene, ma l’avventore, a riguardo, chi l’ha aggiornato?

LE ROTATIVE STEREOTIPICHE

Ritorniamo a noi. Le rotative sono le moderne macchine da stampa per antonomasia. Questa generalizzazione si è diffusa attraverso il cinema e la televisione che hanno sempre mostrato immagini eloquenti di rotografia su ogni argomento concernente le arti grafiche. Esistono delle rotative che producono tutt’altro che giornali. Prima di ogni cosa la carta introdotta non è a bobine, ma a fogli sciolti. In queste macchine, oramai in disuso, il piano portaforme fu sostituito da un cilindro su cui viene fissata una impronta stereotipica della composizione tipografica, allo scopo di eliminare l’arresto di fase dell’andirivieni tipico delle macchine tradizionali da piombo, tutto appannaggio della velocità di stampa. Le rotative con l’introduzione a bobina, invece, furono costruite per i quotidiani. Innanzitutto esse comprendono in una sola combinata tanti gruppi rotanti con pressione di stampa e rulli inchiostratori autonomi; in secondo luogo la bobina, sfruttando il principio della ruota, come i cilindri di impronta e di pressione, elimina il sia pur fulmineo arresto del mettifoglio, in modo da consentire al complesso meccanico velocità incredibili. Le rotative in genere hanno invaso il mercato mondiale, esse, oltre ad obbedire al principio della ruota, si conformano all’epidemica mania dell’uomo di voler superare la velocita della luce, allo scopo di fermare il tempo e procurarsi finalmente l’immortalità. Ma le corse moderne provocano solo infarti, ictus e, bene che vada, alimentano l’ansia sempre crescente, e l’ansia è non altro che il polo positivo dell’angoscia.

LA CULTURA NAPOLETANA AI TEMPI DI GUTENBERG

Precederò, guarda caso, l’argomento della trionfante stampa offset, cioè il sistema che ha completamente soppiantato la scoperta gutenberghiana, con un’altra sosta nella storia relativa al periodo in cui l’arte nera veniva ideata. Nel Rinascimento vi furono a Napoli miniaturisti di grande prestigio che tutt’oggi si possono apprezzare attraverso le opere del tempo aragonese. I codex miniati rinascimentali, benché considerati nella sfera dell’arte minore, sono diversi e di grande rilevanza storico-artistica. Ormai 1’Italia vanta da tempo una cultura artistico letteraria, come dire, aborigena, che attinge sempre meno, non gia le influenze, ma le importazioni di moduli culturali europei, come ai tempi delle dominazioni. Nel periodo aragonese giunsero a Napoli anche numerosi artisti catalani che lavoravano in stretta collaborazione con gli amanuensi, non solo, ma anche con i prototipografi, pure se i tomi prodotti con la scriptura artificialiter venivano illustrati, in larga parte, usando il bulino xilografico anziché il mestichino per minio e vernice, o lo stilo, il calamo e la penna d’oca.

Nella vasta biblioteca aragonese miniaturisti e calligrafi lavoravano, come si suol dire, a tutto spiano, dietro smorfie rinitiche dei calligrafi quando passavano loro, appunto sotto il naso, le imitazioni tipografiche. Gli aragonesi lasciarono evolvere la cultura letteraria a Napoli, sia latina che volgare, dove si distingueva il celebre Giovanni Pontano, il quale, forse per la prima volta nella storia, compi uno sforzo per allargare la cultura a tutte le fasce sociali dell’Italia meridionale. Un po’ come faceva a Firenze Lorenzo il Magnifico. L’Accademia, appunto, pontaniana, si avvalse, tra 1’altro, di uomini illustri, come il Panormita e il Sannazaro. Il Centro di Studi, fondato però dal Panormita, costituiva il Centro Umanistico Napoletano, dove venivano compiute opere di filologia ed esegesi, di storiografia e di traduzione di testi antichi. La stampa a caratteri mobili ha certamente contribuito a tramandarci la cultura dietro la moltiplicazione in serie degli scritti, poiché le copie singole dei codici, visto i saccheggi e le devastazioni belliche, potevano lasciar dissolvere nel nulla numerose notizie storiche e letterarie delle più particolareggiate.

Ma la pigrizia mentale dei circumvesuviani, favorita pure dall’evasione teleiconografica e dal sole generoso nelle giornate lavorative sempre più corte, rende inusitate le torme di tomi accatastati nelle librerie. Solo le targhe stradali ci ricordano la storia, 1’arte, la letteratura. Molti giovani frequentano la mia bottega artigiana, in prossimità degli esami, per fotocopiare stralci libreschi in massima riduzione ottica, da celare o mimetizzare nelle cintole o nelle cavità più recondite dell’abbigliamento, a causa dell’endemica incapacità di coordinare e memorizzare la materia studiata, o forse solo letta, tra un disco ed un video dei big più in voga. Una persona su cinque frequenta gli studi regolari per 1’interesse dello studio in se. Dileggiata dai colleghi, per giunta, quale secchiona, pedante, introversa. Le Università pullulano di matricole. Diversi studenti, però, studiano non già solo per l’amore del sapere, ma per il prestigio che il pezzo di carta dà. Alcuni ancora ritengono la cultura come strumento di intimidazione, come potere aulico che eleva a ranghi superiori.

Un sentimento antico di riscatto di un popolo proveniente da un analfabetismo secolare; se generalizzato, pero, perde della sua forza e della sua stessa essenza, e quello che si sta verificando. Ma diceva Galilei: La differenza che passa tra un filosofo ed un laureato in filosofia e quella che intercorre tra un artista che crea la sua opera d’arte e uno che la copia. Per contro, un fatto e ormai lapalissiano. La maggiore parte delle nevrosi si riscontrano nelle società dove il sapere, la cultura, la civiltà sono più avanzate. Il fatti non foste per vivere come bruti… dantesco è oggi discutibile alla luce della psicologia moderna. Lo conferma il nostro vecchio motto: Chi capisce patisce, e 1’espressione: Pathos creativo, ecc. Questo dimostra come il sapere, le speculazioni cogitali e la tendenza all’analisi complichino la vita. Il popolo napoletano per millenni è vissuto lontano dalla cultura dottrinaria, sostenendo, invece, la sua filosofia di sopravvivenza tollerabile; oggi nevrotizzato dalla civiltà occidentale va in conflittualità, come tutti. Le azioni reattivo-difensive sono le solite: estremismo politico o passività religiosa, coscrizione malavitosa,suggestioni poetiche e liberalizzazione (?) della sessualità, questa l’unico esorcismo valido, sessualità espletata confusamente e compromessa dall’AIDS, per rendere ancora più precaria l’era atomica. Sarà nel giusto Freud quando dice: La vita umana era cosi meno infelice prima di ogni culturà e di ogni tendenza civilizzatrice?

All’epoca della scoperta della stampa Lorenzo il Magnifico insisteva con gli studi filosofici, mentre a Napoli, finalmente, si ebbe una fioritura poetica. L’umbro Pontano, segretario di stato al servizio degli aragonesi fece valere anche le sue doti oratorie, ed insieme a Lorenzo Valla furono i pilastri della cultura napoletana dell’epoca. Non di meno si distinse il Sannazaro con le sue opere teatrali destinate ad una speciale recitazione, la quale si accostava alle tiritere dei vecchi giullari di corte. Si dedicò pure ad una poesia in volgare, ma si espresse in latino nelle sue maggiori opere. Nel XV secolo nasce una prosa popolare che incomincia a liberarsi dai dottrinarismi e va sempre più incontro alla massa. Masuccio Guardati, alias il Salernitano, amalgama la lingua col dialetto napoletano ed il latino. Le sue novelle furono date alle stampe, invece che agli amanuensi, favorendone, così, la diffusione popolare, per modo di dire, perché, è superfluo reiterarlo, coloro che sapevano leggere erano una minoranza.

La tipografia napoletana prendeva consistenza, ma il maggiore mezzo di diffusione delle opere popolari era il teatro con l’espressione verbale, comprensibile da tutti. L’analfabetismo, ancora massiccio, arrestava la produzione di libri di carattere divulgativo. Dovranno passare ancora dei secoli prima che la massa dei vesuviani possa far involare la fantasia attraverso la lettura di un libro. Quando, pero, questo è accaduto, il tomo, col suo fascino peculiare, prodotto da officine fuligginose a misura d’uomo, con la fatica fisica e mentale che caratterizza ogni arte applicata, realizzato con sudore ed emicranie, viene fagocitato dai nuovi espedienti dell’informatica che esclude 1’uomo dalla partecipazione diretta, emotiva, epidermica, olfattiva, al lavoro. Si estingue il vociare logorroico dei tipografi napoletani; scompare l’unto e la fuliggine delle attrezzature ed il fragore delle pianocilindriche. Le moderne officine sono ben linde ed opali, vi impera uno strano, glaciale silenzio. Ambienti chiari, silenti ed asettici come gli ospedali. La produzione tocca vette mai raggiunte. Danaro a valanga, successo commerciale. I diagrammi produttivi e finanziari sono in continua ascesa, in contrapposizione a quelli affettivi. Si nota una gelida solitudine, più nessun calore umano, nessuna forma d’amore.

LITOGRAFIA, MADRE DEL SISTEMA OFFSET

La vecchia litografia, da cui deriva la moderna stampa offset, prevede come matrici delle pietre speciali, le quali vengono trattate e disegnate con particolari vernici grasse, gomma arabica ed acido nitrico; risciacquo ed olio di trementina. La tintura di asfalto ridà il grasso al disegno, mentre le altre zone della pietra ricevono solo acqua. Una volta inumidita la pietra, solo il disegno accetta 1’inchiostro dal rullo. Questa tecnica viene ancora adoperata da quegli artisti che desiderano riprodurre in serie le loro opere. Per la stampa utilizzano un torchio simile a quello usato da SENEFELDER agli inizi del 1800. La moderna stampa offset, come ho gia detto nelle pagine precedenti, si basa su questo principio. Le pietre litografiche sono state sostituite con pratiche e leggerissime lastre di zinco e specialmente di alluminio, oggi presensibilizzate da ditte altamente specializzate, montate sui cilindri rotanti consentono alte tirature a velocità sostenuta. Le lastre, come gia descritto, vengono preparate dietro la realizzazione di un montaggio fototecnico separato. Il calcolatore sostituisce la gloriosa Linotype (che in questo momento mi piange sotto le mani). Il computer stabilisce in completo automatismo i valori e le caratteristiche della composizione. Il sistema fotocompositivo utilizza tutti i tipi di caratteri nelle diverse grandezze, stabilendone elettronicamente la disposizione, gli intervalli, ecc. Il cervello ha racchiuso in se, e miniaturizzati nei sofisticati circuiti, una intera officina tipografica. E come se non bastasse, il testo e gli schemi composti vengono integralmente memorizzati in maniera che 1’operatore può visionarli e modificarli come e quando vuole. Alla fine tutti i dati di un composto vengono impressionati su disco per essere eventualmente rimanipolati in futuro.

LE MACCHINE OFFSET

Offset significa in inglese riporto, poiché 1’impatto sulla carta non avviene direttamente dalla matrice, ma da un cilindro rivestito di telo gommato che raccoglie 1’impronta da essa. Mentre, però, le composizioni tipografiche da piombo sono formate a rovescio, cioè con le scritte da destra a sinistra, poiché quando baciano la carta risultano diritte, le lastre offset vengono impressionate diritte, si rovesciano sul caucciù per riaddrizzarsi sulla carta.

Le normali macchine offset monocolori sono strutturalmente di semplice concezione meccanica, ma più perfette nei sincronismi e nei contatti rispetto a quelle da piombo. Una tipografica da discreti risultati anche quando non e perfettamente a punto, mentre una offset, anche dietro una lieve sfasatura, o una cattiva regolazione dei cilindri dà risultati di stampa inaccettabili. Una macchina offset monta strutturalmente tre cilindri: quello portamatrici, quello di trasporto (rivestito di caucciù), e quello di stampa o pressione. I cilindri sono di uguale diametro e girano simultaneamente. Il gruppo dei rulli inchiostratori è simile a quello delle macchine tipografiche, ugualmente un rullo si accosta al cilindro di calamaio ad ogni giro per attingere la giusta quantità di inchiostro e trasferirla al gruppo dei rulli inchiostratori. Gli ultimi rulli vanno a contatto della lastra. Un altro gruppo di rulli provvede ad inumidire la matrice ogni volta prima dell’inchiostrazione.

L’OFFSET ASETTICA E BUROCRATICA

La stampa offset si è oramai diffusa a macchia d’olio nelle grandi e medie tipografie campane. E’ un peccato, per certi versi, che il lavoro creativo a misura d’omo debba finire schematizzato e codicizzato. Lo stampato eseguito, per così dire, a mano, viene davvero svolto, per dirla in chiave retorica, col braccio, con la mente e col cuore. L’industria, in un futuro prossimo, accetterà i lavori di piccola entità solo se passano sotto schemi di progettazione codicizzati e combinati con altri lavori per coprire i formati di macchina. Il piccolo tipografo impegnato fa del suo lavoro la completezza della sua personalità, come la donna lo fa con la maternità, perché plasma e modella col tocco delle dita gli elementi meccanici della composizione come fossero sculture di argilla, sino ad esclamare michelangiolescamente: Perché non parli! Poi si guarderà bene di sfasciare tutto con un martello…

A compiere il capolavoro e la maestria dei miei colleghi torresi e campani tutti, ed una certa spinta nevrotica per garantire le giuste dosi di: pathos creativo, abnegazione, sacrificio e, diciamolo pure, la disposizione alla perdita di tempo, là dove il modesto, sudato provento rimane un fatto marginale. L’artigiano appartiene al popolo, 1’industria alle multinazionali, è facile tirare le somme. Gli stampati personalizzati diverranno proibitivi. L’industria capitalistica (come in tutto il libro: non faccio politica), tende a soffocare tradizioni e folklore, perché vuole il popolo prima suo lavoratore dipendente, poi consumatore, tutto appannaggio del plusvalore. Non è servito a nulla il secolo di messianismo marxiano. Gli addetti ai lavori che mi seguono possono interpretare, in queste parole, un’apologia al piombo fuso e una denigrazione all’avanguardia tipografica.

Dirò subito che le intenzioni di questo libro sono sentitamente costruttive, affatto recriminatorie. Lo possono confermare i miei colleghi artigiani di Torre del Greco con i quali ho sempre un dialogo aperto, a parte qualche lieve screzio di carattere concorrenziale. Si prendano le mie parole come osservazioni acritiche anche se talvolta compare una parvenza polemica. Sia chiaro una volta per tutte che io amo e rispetto tutta la famiglia planetaria dei tipografi, sia il nipote bottegaio che il nonno industriale pedissequo al sistema. In più so valutare bene il salto produttivo e qualitativo delle nuove tecnologie offset, i problemi che postulo sono di natura diversa e credo di averli abbastanza designati. E’ probabile, devo riconoscerlo, che alcune considerazioni siano piuttosto soggettive. E’ la deformazione professionale di un bottegaio a mezza strada tra l’arte applicata e la filosopsicopoesia. Colui che mi vede operare nella mia bottega artigiana di Via Purgatorio, saltare qua e là, in quei settanta metri quadrati di terraneo polveroso, tra la pianocilindrica e la Linotype, fra la pressa dei timbri e la carretta dei manifesti, sa che ho precluso sul nascere ogni forma di ambizione incrementizia ed economica. Questa presupporrebbe compromessi ed intrallazzi che non rientrano nel mio ordine di idee.

Un cliente di Via Montedoro mi dice spesso: Mari, mi sembri Diogene nella botte. Un altro di Via Cesare Battisti è convinto che sia affetto da manie di piccolezza. In tutti gli eccessi vi sono disturbi della personalità. “La perfezione”, “la normalità” non sono universali. Ogni uomo, nel bene e nel male risponde coi risultati della sua età evolutiva, condizionato da fattori ambientali, da problematiche domestiche. L’altruismo – dice Roberto Gervaso – non è altro che il rimorso dell’egoismo. Spesso la bontà e la dolcezza affettate si celano sotto pulsioni aggressive.

Ma cosa vogliamo da questo povero uomo, da questa scimmia intelligente che sublima la libido distorta in centomila attività umane. Cosa vogliamo da questi uomini maschi, forse gelosi della maternità, come la donna del pene, che esaltano il loro modesto lavoro, che si completano in esso, che fanno delle loro botteghe, talvolta, tanti covi uterini. Non mettiamoli tutti nei capannoni insieme ai robot, numerati come carcerati, spersonalizzati e svirilizzati dalla potenza delle macchine. Salviamoli dalle conseguenze esiziali della cieca corsa dell’uomo verso il pozzo senza fondo del desiderio di danaro, il cosiddetto sterco del diavolo.

Oggi l’utente si rivolge ancora a noi bottegai tipografi per la realizzazione di carta da lettere e biglietti da visita. La prima cosa che esige è il contatto diretto col titolare della bottega. Il lavoro viene discusso, modificato e trasformato, tra un caffè centellinato ed una Marlboro, che spesso brucia da sola in un angolo. Talvolta si sfocia in argomenti che esulano dal lavoro, alla fine si mercanteggia e spesso non ci si mette d’accordo. Poi il cliente ritorna, ha perduto la traccia, si ricomincia daccapo. Quindi si procede finalmente alla realizzazione dello stampato con un’altra esperienza umana acquisita. Qualche perplessità costringe a ricontattare il cliente, altri scambi di idee mentre si raggiunge la comune soluzione. Alla consegna l’avventore sarà appagato e soddisfatto ad un costo moderato, riforme legislative e fiscali permettendo.

L’industria grafica, invece, offre come primo traguardo l’ufficio accettazione, dove il lavoro viene sottoposto all’attenzione di grafici e designer di fama interregionale. (Fatti il nome e piscia a letto, diranno che hai sudato). Ma andiamo avanti. I designer hanno tutti dei nomi esotici, come gli artisti dello spettacolo, sembrano gli psicoanalisti della stampa. Sempre sussiegosi e perentori. Sulla parete dietro la scrivania di pura pelle di ermellino vi è un poster rappresentante un marchio di una. multinazionale. L’austero designer aggiungerà che quell’idea è costata mezzo milione di dollari. L’avventore si deterge dalla fronte il primo madore, poi vorrebbe scappare, ma oramai è dentro, si rende conto che pagherà a caro prezzo la sua mania di snobbare. Alla fine l’utente, dopo veri e propri diverbi, dovrà accontentarsi dei caratteri trasferibili e di un marchio di tipo generico, che somiglia sempre a quello di una nota fabbrica di provoloni. La bozza passa all’ufficio amministrativo; poi ritorna all’ufficio grafico per la conferma d’ordine sotto le facce disgustate dei barbassori. Dopo un congruo acconto, l’originale passa in sala composizione elettronica, prima vagliato e valutato da un’equipe, quindi purificato da mediocrità linguistiche; indi in camera oscura, sui tavoli luminosi, nel reparto lastre e, dulcis in fundo, nell’officina di stampa, che sarebbe il terzo girone. Il lavoro, ordinato a Natale sarà pronto a Pasqua. Il cliente si guarderà bene, in futuro, di rimettere piede in quella bolgia, ridimensionerà le sue idee rilevaticce e appena gli capiterà un bottegaio tipografo sotto mano lo abbraccerà e lo bacerà a mo’ di emigrato.

I dirigenti delle industrie grafiche mi perdonino l’ardire ancora una volta. Mi scusino per l’ironia e la maniera iperbolica di dire delle loro signorie. Bando agli scherzi da prete e andiamo avanti. In realtà i grossi complessi nemmeno possono prendere in considerazione lavori di piccola entità a causa di difficoltà strutturali ed amministrative. Il mio era solo un ironico, pietoso grido di speranza associato ad una timida proposta: che i poveri utilizzatori di stampati di piccolo taglio, una volta estinte le botteghe, vengano trattati almeno nel modo anzi descritto. E’ comunque doveroso ricordare che le industrie grafiche napoletane, malgrado le palesi difficoltà gestionali degli ultimi anni, sostengono una buona fetta di livello occupazionale della categoria. Molti non chiudono i battenti solò per salvaguardare i posti di lavoro. Ciò e ammirevole. I risentimenti dei tipografi nei riguardi dei vecchi padroni despoti e sfruttatori vanno via via dissolvendosi. Forse oggi bisogna combattere il risentimento dei titolari nei riguardi delle nuove leve. Non è improbabile, per certi versi, che insieme all’estinzione delle botteghe, alcune industrie tipografiche possano anche retrocedere nel rango di tipografie artigiane. Auguriamoci che ciò non accada mai! E, credetemi, in questo ambiguo carosello di parole, non sto acciaccando e medicando tenendo fede al proverbio che dice: Per vivere comodamente bisogna accendere una candela a S. Antonio e una al diavolo. Le trovate goliardiche sono fatte così. E’ difficile discernere quando uno scherza o quando fa sul serio. Ciascuno la interpreti a modo suo. Intelligenti pauca.

Ma al di la dell’ambiguità e dei doppi sensi, grazie a Dio i nuovi dirigenti d’azienda hanno una condotta moderata. Vi è molto più rispetto della dignità individuale e maggiore adeguatezza remunerativa. E’ indubbio che i dipendenti abbiano acquistato più decoro. Vanno fortunatamente scomparendo anche i delatori che hanno fatto il gioco degli ultimi baroni della carta stampata. In quasi tutte le aziende tipografiche campane si respira un’aria diversa, più onesta più democratica.

IL PROCEDIMENTO OFFSET

La stampa offset, essendo planografica, (cioè bianchi e scritte sullo stesso piano), non richiede 1’avviamento tipico della stampa tipografica, poiché non vi è necessita di taccheggio (livellamento degli elementi tipografici usurati dagli impieghi precedenti, livellamento tra caratteri e cliché, ecc.). Comunque lievi taccheggi, in offset, nella misura di centesimi di millimetro vanno praticati sotto il caucciù nelle zone intense di nero o la dove il caucciù presentasse delle lievissime deficienze. La stampa offset va costantemente controllata. I cilindri vanno puliti periodicamente nel corso di lunghe tirature, poiché il pulviscolo della carta o altre interferenze possono provocare alterazioni all’immagine impressa sulla carta. Di estrema importanza è la giusta dose d’acqua. Una insufficiente umidità della lastra causa aloni e macchie indesiderate; una umidità eccessiva, invece, provoca la scomposizione della viscosità dell’inchiostro. Acqua e inchiostro diventano una dannosa miscela che causa mancanza di corpo nella tinta e conseguenti effetti di sbiadimento o chiazze irregolari. L’avviamento di un lavoro offset richiede meno tempo di quello che occorre per uno tipografico, ma consuma più carta per gli scarti. Una composizione tipografica, però, regolata per bene ed avviata consente lunghissime tirature, con solo sporadici controlli relativi all’alimentazione della carta, dell’inchiostro e all’eventualità che un margine possa raggiungere la superficie dei caratteri comparendo sulla carta nella sua bella forma geometrica. Mentre per la stampa tipografica ogni tipo di carta si rivela idoneo, per quella offset bisogna fare una scelta oculata anche in relazione al tipo di lavoro da eseguire. La carta subisce, come ho gia detto, delle trasformazioni dimensionali, sia per influenze atmosferiche che per stiramenti meccanici dovuti alla pressione offset e all’umidità che la caratterizza. Nelle grosse aziende vi sono degli appositi locali atti al condizionamento della carta. Bisogna scegliere tipi di carta idonei alle policromie sovrapposte, perché non si abbiano variazioni di stabilita dimensionale, specie nelle macchine monocolore. L’umidità mal regolata può causare il rigonfiamento delle fibre provocando 1’allungamento della carta fino a 1 millimetro. Essa deve accedere in pressione con la fibra a favore per evitare deformazioni.

LE ROTATIVE OFFSET

Le macchine offset comuni vanno da un formato minimo di 35 x 50 cm. a un massimo di 140 x 200 cm. E’ inutile ripetere che per formato macchina s’intende la misura massima del foglio introducibile. La velocità di stampa varia dalle 6000 alle 10.000 copie orarie in relazione al formato e alle caratteristiche costruttive. Le macchine offset pluricolori dei grandi complessi assicurano praticità e velocità, in più i controlli sono automatici. La carta non subisce soste che favoriscono 1’alterazione dimensionale. Eventuali errori cromatici o di registro vengono corretti elettronicamente. Le rotative offset con immissione di carta a bobine hanno in media cinque gruppi stampa. Il quinto, posizionato all’ingresso, e a secco e serve solo al preventivo stiramento della carta. Queste macchine a bobina non ottennero molto successo al loro apparire sul mercato editoriale, anche per la concorrente stampa rotocalcografica. L’avvento della fotocomposizione ha ribaltato le cose perché un gran numero di quotidiani le adotta sostituendole alle rotative stereotipiche tipografiche. E’ chiaro che le rotative offset da giornale hanno un numero di gruppi stampa relativo alla quantità di pagine del quotidiano.

IL SISTEMA ROTOCALCO E LO SNOB

Il sistema rotocalco procede di pari passo con la stampa offset, grazie alla altrettanto elevata velocità che consente. Mors tua vita mea anche per i sistemi di stampa. La miniatura, ad esempio, tendeva a scomparire nel XV secolo per favorire la xilografia, compatibile con i caratteri di piombo. In quel tempo il procedimento calcografico, padre della moderna rotocalcografia, veniva adoperato separatamente e solo per stampe d’arte o similari, là dove non vi fosse presenza di testo.

Ma al centro dei fatti culturali del Cinquecento napoletano inoltrato fu 1’affermazione del libro stampato dietro le spinte precedenti di Francesco Del Tuppo, malgrado il vicereame non contribuisse sufficientemente alla diffusione della cultura. Forse si avvertiva il sentore che la letteratura, per altro diffusa dalla stampa, potesse aprire gli occhi persino al popolo analfabeta tentato dall’erudizione. Una cosa è certa: Napoli stagnò culturalmente in una stasi di un paio di secoli. Per conseguenza la tipografia napoletana fu soffocata sul nascere. Malgrado tutto, all’arte tipografica partenopea di quel tempo contribuirono molti nomi illustri dell’Università di Napoli, come Giovan Tommaso Zanca, Giovan Bernardino Longo, ecc. Vi fu, in seguito, qualche tipografo famoso come Mattia Canger, ma la maggioranza delle opere letterarie venivano stampate a Venezia dal famoso Aldo Manuzio. Nacque anche una editoria napoletana coi relativi librai, ma lo sviluppo era lentissimo per volontà dei vicerè. Certo si era ben lontani dai prodigi della stampa rotocalco e dal famoso Mattino illustrato. Se l’invenzione della stampa a caratteri mobili avesse incontrato a Napoli regimi più favorevoli alla cultura, la tipografia napoletana non avrebbe avuto nulla da invidiare a quella veneziana. Ma, è risaputo, i “se” non fanno storia, ed i poveri circumvesuviani, una volta per una ragione, una volta per un’altra devono sempre ingollare bocconi amari.

Oggi tutte le riviste illustrate di grossa tiratura, a cadenza ebdomadario, vengono stampate in rotocalcografia. Come ho già accennato nelle pagine precedenti, la stampa rotocalcografica avviene attraverso cilindri-matrici acidati similmente ai cliché tipografici. L’inchiostro viene “spruzzato” sulla superficie dei cilindri per depositarsi negli alveoli incisi. La carta, aderendo al cilindro, assorbe il colore dagli alveoli e rimane bianca nelle zone alte dell’incisione poiché tale superficie viene pulita da un’apposita racla prima che la carta aderisca al cilindro matrice. Queste operazioni avvengono in frazioni di secondo. La stampa rotocalcografica e cilindrico-diretta, vale a dire che, a differenza della matrice offset = riporto (sul caucciù), il cilindro rotocalco impronta direttamente la carta, per cui 1’incisione delle scritte e disposta a rovescio come per il sistema tipografico. I cilindri-matrice possono essere incisi su se stessi o essere di volta in volta rivestiti da lastre di rame incise. L’inchiostro e molto fluido, come quello flessografico. Nelle macchine veloci viene spruzzato a getto-fontana. L’inchiostrazione avviene in reparti chiusi, a prova d’aria, onde evitare l’evaporazione dei solventi, molto volatili, i quali hanno la proprietà di asciugarsi non appena avviene l’impatto di stampa, in maniera da consentire le successive, immediate sovrapposizioni di colori.

Nessuna tipografia artigiana, per ovvi motivi, adopera il sistema rotocalco, esso è prettamente industriale. I canoni creativi relativi alla grafica sono inferiori rispetto a quelli tipografici ed offset perché seguono schemi di impaginazione standardizzati e ripetitivi, a parte le elaborazioni più o meno artistiche della grafica inserzionistica, che viene comunque realizzata in studi grafici scissi sia dalla redazione che dalle officine rotocalco. La televisione spesso ci porta in questi ambienti ormai tutti convertiti ai computers, dove le strutture interne rivelano 1’aspetto tecnologico avanguardistico. Queste immagini suggestionano gli spettatori condizionandoli a generalizzare sulla realtà strutturale delle officine tipografiche in genere, dalla bottega all’industria. Come si ignora la funzione romantica della carrozzella nel traffico cittadino, cosi le botteghe artigiane, all’occhio corrotto dell’uomo moderno, diventano le carrozzelle delle arti grafiche, anacronistiche ed antiprogressiste.

Poi c’e lo snob. Egli è sempre impeccabile nell’aspetto esteriore. Difficilmente non ha segatura nel cervello, come le donne belle che non si coltivano mai dentro, e poiché Daniel Mussy dice: La bruttezza ha un vantaggio sulla bellezza, dura, quando superano la soglia della senilità si disperano. Lo snob muove il passo indugiando. Infine ferisce 1’ingresso della mia tapina bottega di Via Purgatorio. Innanzitutto pretende che io abbia i pattini ai plantari perché non attende più d’un secondo e già manifesta 1’impazienza tamburellando coi polpastrelli sul banchetto di accettazione. Poi storce tutto, naso, bocca, occhi, collo. Bisogna riconoscergliene 1’abilità. Mi chiede, schivo ed austero dov’e 1’ufficio, ed io gli rispondo che non c’è. Allora mi chiede dov’e la segretaria, il fattorino, il proto, ed io gli rispondo che non esistono. A questo punto lo snob dà piglio alla tiritera: …che nel meridione siamo arretrati di cento anni, (Meno male, si contenta di poco), …che siamo retrivi ed antiprogressisti, …che la sera andiamo a letto con le galline perché ci piace proliferare, senza apprendere i progressi dalla televisione. Allora gli faccio notare che per emergere bisogna scendere a compromessi, condividere illegalità, in alcuni casi divenire malvagi ed egotisti e, in ultima analisi persino cruenti. Lo snob poggiando il palmo della mano sinistra a manca del torace e mostrando tutti i trentadue denti finti sfiata un sonoro, irritante, odioso «Embe?».
Lenito il rovello intuisco che la cornice somatica dell’interrogazione cela l’intenzione spocchiosa di ostentare l’anello di brillanti e alcuni disgustosi denti d’oro incastonati nella protesi totale. Aggiunge «Purché ci si adegui, si salvi la faccia, si appaia secondo le convenzioni. Egotisti o succubi, non v’e alternativa. Non c’e – conclude lo snob – neppure una poltrona, una sedia, che so, uno sgabello, per non dire un trono, in modo da sedersi e polemizzare un paio d’ore, e alla fine, se 1’avrò vinta, vi ordinerò i cento biglietti da visita?». «Ah sì – rispondo tronfio – un posto dove sedervi ce 1’ho, ed è pure comodo, rilassante, potrete adagiare i vostri bei glutei profumati e, su preterizione, mica vi dico che è il cesso e che si trova dietro quella porticina in fondo a sinistra”.

LE MACCHINE ROTOCALCO

Come si può ben immaginare quel cliente 1’ho perduto per sempre. Da quel giorno frequenta solo le grosse industrie, quelle delle pluricolori offset e rotocalco. Nelle aziende rotocalcografiche le piccole macchine monocolore ad immissione a foglio singolo sono pressoché simili a quelle offset. Chiaramente si differenziano nel tipo di matrice, nel sistema di stampa diretto o indiretto e nel metodo d’inchiostrazione. La macchina rotocalco a foglio permette di sfruttare appieno la qualità consentita dal sistema poiché la loro velocità relativamente ridotta, rispetto alle macchine rotative, favorisce la costanza delle registrazioni fatte in fase di avviamento e, innanzitutto, non si verifica la precoce usura dei cilindri-matrice. Le macchine rotocalco più diffuse sono quelle rotative dei grandi complessi editoriali. Esse sono dei veri e propri mostri di produzione. In quelle più moderne la parte elettronica esegue in completo automatismo la regolazione di tutti i dispositivi di controllo. Queste macchine gigantesche sono combinate, all’uscita dei vari gruppi stampa, con tagliatrici piegatrici ed infine cucitrici. L’alimentazione della bobina di carta, il percorso, il registro dei colori, sono simili a quelli delle rotative stereotipiche od offset. L’essiccazione dell’inchiostro avviene con getto d’aria per favorire 1’evaporazione repentina dei solventi. Oltre alle riviste illustrate le rotative rotocalco stampano libri, carta da imballo, giornali illustrati, valori bollati, fotoromanzi, e via dicendo. Queste macchine diaboliche stampano migliaia di riviste al giorno in una sola fase di lavoro, a prescindere dalla preparazione preventiva delle matrici. I cilindri rotocalco girano vorticosamente su se stessi annaffiati dalla sorgente d’inchiostro liquido, la cui eccedenza viene eliminata da una racla a perfetto contatto dei cilindri stessi, mentre il chilometrico nastro di carta scorre velocissimo tra i cilindri- matrice e cilindri-pressione rivestiti di gomma, con una precisione micrometrica. Alla fine le pagine impresse più volte successivamente, subito asciutte, tagliate piegate e spillate sono pronte per la distribuzione nelle edicole. Cose da far strarivoltare Gutenberg nell’avello.

ROTOCALCO OTTIMO BUSINESS

La stampa rotocalco, come ho gia detto, non ha nessun punto in comune con quella dei caratteri mobili, da sempre. Mentre la tipografia gutenberghiana ha favorito la fioritura di centinaia di milioni di tipografie in tutto il mondo, la calcografia, da sistema secondario, si e trasformata, in questo secolo, in sistema primario industrialmente parlando. Non ho mai saputo dedurre, dalle note biografiche del Maestro di Magonza, se egli ponesse la sua scoperta sotto un profilo idealistico culturale-artistico, o la vedesse come punto di partenza di una progressiva ascesa industriale. Non ho compreso, cioè, se rientrasse nel suo ordine di idee una futura evoluzione e trasformazione della scoperta, in maniera tale da capire di gettare le basi per un vero e proprio gigantesco business planetario. Ciò che sconcerta, sfogliando i manuali relativi alle arti applicate in genere, è la scissione oculata della materia tecnica da quella umana. Basta osservare i manuali di fotografia, di disegno, ecc. Si tratta di mezzi strettamente connessi alla sfera sensitiva dell’uomo, ma si dà prioritaria importanza al mezzo e non al fine. Nei manuali primeggia sempre 1’indirizzo didattico formativo e 1’utilizzo pratico commerciale, ma la poesia, da cui si dipana l’arte applicata, rimane in penombra. Questo libro, pur articolato su di un’ossatura tecnica, si spazia senza frugalità sull’altra faccia dell’arte applicata, senza nulla togliere all’autorevolezza della letteratura settoriale tipografica.

L’artigiano tipografo della mia terra è lontano dai traffici del business multinazionale a cui, spesso, è asservita la stampa rotocalcografica. Egli, tapino bottegaio sognatore e romantico, che fa scorrere i suoi anni tra le carrette pianocilindriche e gli avventori sprovveduti e frettolosi, per cui sarà docente, praticone, imbonitore e poi tipografo. Si dice che a Napoli i dirigenti (traduzione neologistica del vecchio lemma padrone), abbiano fatto tutti la gavetta, partiti, cioè, dal rango di artigiani tipografi. Non possono obliare, loro, che non v’è arte applicata senza la componente emotiva in tutta la sua sfera. Afflato comune all’operatore ed al richiedente sino agli utilizzatori. Al di là di questa dimensione rimane la meccanizzazione e la prioritaria commercializzazione del prodotto artistico che seguirà leggi di mercato come gli schemi precostruiti e ripetitivi.

Il prodotto artigianale tipografico, anche nel contenuto, è condizionato via via dal popolo; esso viene modellato e modificato in relazione ai sentimenti comuni, al costume, al folklore, agli avvenimenti. Molti stampati tipografici sono peculiari alla singola regione. La gioia e il dolore di un popolo, soprattutto, si riflettono nelle opere degli artigiani. La materia tecnica con quella umana, specie alle pendici del Vesuvio, si fonde. Molti tipografi artigiani della mia terra, cari milanesi del business rotocalcografico, non scambierebbero la loro travagliata posizione per traguardi più ambiti, (da voi naturalmente). Cosi come gli ultimi nostalgici napoletani non baratterebbero il loro basso per un attico a Via Orazio. Neofobia, autolesionismo, orgoglio immaturo, nostalgia patologica, potete pensarle tutte, ma non potete

negare che la felicità è soggettiva. Non si creerà mai un modello di felicita universale, altrimenti al mondo ci sarebbe una sola ideologia. Malgrado le apparenze, il degrado voluto da una minoranza sopraffattrice e dal progresso asettico, nonostante la confusione generale, la babele urbana e domestica, il popolo vesuviano rimane sentimentale. Abbiamo impiegato secoli per divenirlo, sono pochi cinquant’anni per convincerci a portare cuori artificiali. Nell’endemica corsa al potere economico che ha colpito pure la cintura vesuviana, vi e chi scarta 1’ipotesi dell’arricchimento. Forse perché ricusa la politica dello struzzo e si da mentalmente una ripassatina al pentalogo della ricchezza:
1) nascere ricchi, ed ereditare pure le nefandezze connaturate; 2) asservire i cavalli trainanti del potere;

3) votarsi all’eslege dalla truffa al delitto; 4) speculare sul plusvalore operaio; 5) soggiogare la gente con messianismi fasulli, ciarlatanerie e stregonerie varie.

Dateci un mondo pulito, e noi stamperemo in rotocalco; dateci un mondo dignitoso e noi stamperemo in rotocalco; dateci un mondo dove almeno nelle mura domestiche si parli la stessa lingua e noi stamperemo in rotocalco; dateci un mondo vivibile, dove 1’amore, che e nient’altro che la paura sconfitta, possa trionfare, e noi stamperemo in rotocalco bobine di carta lunghe quindici miliardi di anni luce, per informare ancheò’ultima galassia, che la terra ce 1’ha fatta, è salva.

Ettore Imparato conclude così la sua «Piccola storia di Napoli»: «I Romani vennero per liberare Napoli dai Sanniti, i Goti dai Romani, i Bizantini dai Goti, gli Svevi dai Bizantini, gli Angioini dagli Svevi, gli Aragonesi dagli Angioini, Carlo VIII dagli Aragonesi, gli Spagnoli dai Francesi, gli Austriaci dagli Spagnoli, i Borboni dagli Austriaci, i Francesi dai Borboni, i Borboni nuovamente dai Francesi, Garibaldi dai Borboni, gli Alleati dai Fascisti. (…) Meno male che il napoletano, quando e come può, sa liberarsi da solo! In mancanza sa vivere libero anche sotto 1’oppressione. (…) Egli ha preso pregi e difetti di tante razze, dalla cui fusione ha tratto una vivida intelligenza, invidiata da altri popoli». Magnifica osservazione! Ma le leggi di natura sono inesorabili. Ora che il popolo napoletano poteva far tesoro delle esperienze acquisite, finite le oppressioni, è incappato nella problematica esistenziale planetaria, verso cui intelligenza, scaltrezza ed arte dell’arrangiarsi a poco servono, perché e stata compromessa non gia più la liberta sociale, ma quella individuale interiore.

Mille cose avanzano, novecentonovantanove

regrediscono, questo e il progresso.

«Frammenti di un diario intimo» – Henri Frederic Amiel

CAP. IX

I VEICOLI DI STAMPA MINORI

La tecnica c’e sempre stata, solo i più

non hanno studiato abbastanza per saperlo.

«Problemi della lirica» Gohfried Benn

LA STAMPA FLESSOGRAFICA

La parola flessografia deriva dalla flessione del clichè rilievografico adoperato per questo particolare sistema di stampa. Abbiamo già visto, nelle pagine precedenti, come viene ottenuta una copia della composizione tipografica. Il clichè flessografico, dunque, viene montato su di un cilindro matrice curvo. La qualità della stampa flessografica non è delle migliori, anzi è decisamente scadente. Ciò dipende dalla mancanza di durezza, quindi di stabilita della gomma stessa. Un leggero miglioramento si è avuto con 1’utilizzo delle matrici flessibili fotopolimeriche, ma i risultati non sono mai paragonabili alla stampa tipografica od offset. In flessografia vengono stampati: le carte da imballo, i sacchetti di materia plastica, le carte per rivestimenti e via discorrendo. Lavori, insomma, che non richiedono particolare finezza di stampa. Il clichè di gomma, comunque, viene rettificato al massimo perché venga eliminato il benché minimo dislivello causato dalla cottura, che apparirebbe sul prodotto stampato come una zona schiacciata, cioè con gli elementi grafici deformati e dai contorni sdoppiati, rispetto alle altre più nitide e regolari. Gli inchiostri flessografici sono liquidi, come quelli rotocalco; sono anch’essi molto volatili e consentono una essiccazione rapidissima per l’evaporazione immediata dei solventi.

LE MACCHINE FLESSOGRAFICHE

Queste macchine sono anch’esse a pressione cilindrica diretta, come il rotocalco, ma il principio e simile alle rotative stereotipiche. Le macchine flessografiche sono di semplice struttura. Elementare e anche il trascinamento della bobina, come pure 1’inchiostrazione, poiché le tinte vengono pescate da un rullo che attinge in una semplice vaschetta. Il gruppo stampa di una macchina monocolore è costituito dal cilindro portamatrice e quello di pressione abbinati ai soli due rulli inchiostratori, l’uno che pesca l’inchiostro dalla vaschetta, l’altro, a contatto, che elimina le eccedenze. Sistema che adopero per stampare scotch. Il montaggio del clichè sul cilindro-matrice è facile, più complesso diventa quello sulle macchine pluricolore con più rulli-matrice. I clichè di gomma riproducenti i vari colori selezionati vengono applicati ai cilindri con speciali sistemi ottici o meccanici che avvengono, comunque, fuori macchina. L’inchiostro nelle macchine flessografiche deve essere rimescolato e ridiluito perché l’evaporazione dei solventi ne varia la giusta diluizione causando cambiamenti di tono e difficoltà meccaniche al trascinamento della lunga bobina. L’essiccazione dell’inchiostro flessografico sulla carta non richiede particolari accorgimenti. Per la stampa di materia plastica, invece, per nulla assorbente, l’essicazione richiede dispositivi ausiliari che favoriscono l’evaporazione dei solventi. Sono molto diffuse le macchine flessografiche che stampano carta per avvolgere da banco, e quelle che decorano sacchetti di polietilene o altre materie plastiche di largo consumo quotidiano. Questi sacchetti, come è noto, vengono decorati con scritte e disegni relativi alla ragione sociale del negozio che li distribuisce. Le macchine flessografiche, che stampano tubolari di plastica relativi ai sacchetti, sono delle combinate che provvedono, con dispositivi aggiunti, al taglio e alla sagomatura dei sacchetti, come la fustellatura del manico, le angolature, ecc.

Le flessografiche adatte alla stampa di carta in bobina sono invece dotate di taglierine alla fine del ciclo di stampa. La flessografia, in Campania, e diffusa a livello artigianale. Il flessografo vesuviano e artigianalmente accomunato al tipografo bottegaio, poiché la sua clientela è composta da piccoli negozianti, salumieri, pasticcieri, rosticcieri, e via dicendo. Come il tipografo, il flessografo campano si adatta in locali di fortuna chissà perché sempre angusti. C’e tanto spazio sulla terra e oltre di essa, eppure a molti di noi ne tocca pochissimo.

IL TIPOGRAFO ARTIGIANO E L’AVVENTORE

Il banchetto di accettazione si affaccia subito sull’ingresso, ed in molti casi si tratta di un banco contenente casse di caratteri. Quando càpitano più clienti, ad esempio le numerose famiglie convenute per la scelta delle partecipazioni, allora effettivamente si riscontra il disagio lamentato dallo snob della breve narrazione precedente. Io rimedio, in parte, facendo sedere un infante in cima ad una pianocilindrica in modo che stia buono per un’oretta; invito gli sposi a sgranchirsi le gambe, assisi su di una pila di carta; le due suocere, è chiaro, le piazzo sedute sul piano del tagliacarte, nella speranza di una provvidenziale… amputazione delle lingue oltre il frenulo. Si crea un’atmosfera grottesca e ironica.

E’ proprio in quel momento che il testereccio ottuso guadagna 1’ingresso e si fa largo, quel poco che può, ed esclama «Mari!» con gesto spagnolesco. Con la coda dell’occhio osserva i presenti disposti alla sua teatralità. «Siete la schifezza dei tipografi! – aggiunge. Poi sbottona il copione ripassato più volte durante il tragitto. – Mi avete rovinato, mi avete. Mi sono visto addosso la finanza, i carabinieri, la digosse, 1’effebbiae, tutti». Fa una pausa di suspense per alimentare la curiosità dei presenti. «Ecco, ecco qua – ansima affettatamente cavando dal taschino un timbro di gomma – …mi avete sbagliato la partita IVA, ho contraffatto cento, mille, milioni di docu… – Un Oooooh generale lo ridimensiona nella foga; un po’ rantolando riprende –…e va be’, zeri in più zeri in meno… Ma lui – dice ai presenti puntandomi 1’indice tremante – lui mi vuole vedere in mutande, mi vuole; con la barba in faccia e i figli per la mano davanti alle chiese a chiedere 1’elemosina».

I presenti, abituati da secoli al caratteriale locale, sono sorpresi, non già per la rabidezza del tale, ma per la flemma con cui rovisto tra gli originali dei lavori eseguiti, la cui ricerca, così immediata, e imprevedibile dal furibondo. Alla presenza pubblica del foglietto da lui scritto che dimostra la mia incolpevolezza lo pseudo energumeno si sgonfia e tra mille sbirciatine rapidissime ai presenti, abbozza un sorriso decisamente ebete. Poi accenna ad una specie di goffo inchino e muove lentamente all’indietro tergendosi la schiuma agli angoli della bocca biascicando «Cacchio, stavo proprio dormendo quando 1’ho scritto». Poi si dilegua per 1’uscio senza nemmeno accennare un saluto.

I presenti avrebbero voluto vedermi pavoneggiare nei vapori inebrianti della vittoria, non già per solidarietà, s’intende, ma per ottenere il terzo numero da giocare secco solo per Napoli, quando l’immaturo ricompare sull’uscio sbottando: “…e Caro il mio tipografo, voi la testa di cardulella sempre ce l’avete, lo stesso avete sbagliato, perché, se proprio volete saperlo, quando ritirai il capucchiello, qua – accenna il timbro – mi deste mille lire in piu sulla resta».

E’ un cliente affezionato, adesso, a cinque anni da quella volta. Ma oramai posso rivelare il bluf. Per ricondurlo in sé mi assoggettai ad una sorta di scaltrezza: non gli mostrai altro, quel giorno, molto rapidamente, e ritirandolo in tempo, che il conticino del mio salumiere di Via Cesare Battisti.

Desidero, comunque, non apparire onniscente e perfezionista lungo questi flash aneddotici relativi alla mia bottega di Via Purgatorio, dove compaio il più delle volte trionfante o comunque marciante sul filo della bravura. Cado spessissimo in errori, come molti altri. E’ bene chiarire che non mi reputo né peggiore né migliore degli altri miei circumvesuviani. Chiunque, però, s’imbatte nello strumento della scrittura finisce con l’essere un tantino analitico e pedante e finisce di tanto in tanto, di mettersi in bella mostra.

Lasciamo la flessografia per imbroccare, tra poco, la serigrafia, due veicoli di stampa molto legati al popolo vesuviano moderno, perché connessi ai consumi giornalieri in genere, E l’andamento commerciale è, a Napoli, come diciamo noi, tutto un programma. I settentrionali dicono che da noi non si commercia, ma si svende. Al di là, talvolta, della merce di provenienza furtiva, è facile trovare a Napoli un prodotto fabbricato a Milano inferiore al prezzo di costo. Gli agenti di commercio spesso si fanno la croce ’a smerza. Ciò e da imputare soprattutto all’offerta massiccia e all’atavico individualismo commerciale. Da noi le parole: cooperativa d’acquisto o solidarietà commerciale suonano lontane. Il prezzo fisso è utopistico e non regge. Nel mercanteggiamento sono favoriti i più abili. Generalmente, pero, 1’artigiano divide la clientela in due categorie, quella composta da persone che non superano la soglia dell’intolleranza, e quella costituita da individui apparentemente scaltri, ma che, per dirla ancora in gergo, vogliono essere fatti fessi e contenti, (attraverso la maggiorazione preventiva del costo delle materie prime ed altri espedienti).

Ciascun cliente sente il bisogno di sapersi privilegiato rispetto agli altri. Al di là dell’espediente «Mi manda Picone», l’avventore non si presenta con un «Buongiorno», ma con un «Sono amico del tale consigliere o della certa fiamma gialla», ecc. Quando proprio non lo manda nessuno, dirà: “Avrò un trenta, quaranta milioni di lavoro da far eseguire, ma per il momento mi occorrono cento biglietti da visita, che sconto mi fate?” Io generalmente rispondo che su trenta, quaranta milioni di lavoro, praticamente 1’incasso di un anno di lavoro artigianale, sarei disposto a regalare non cento, ma diecimila carte da visita, ma quei cento li dovrà pagare a prezzo pieno perché a fine settimana chiudo bottega per cessata attività… Insomma necessitano gli antidoti agli espedienti, ed il più scaltro la spunta, con molta eleganza. Ma non sempre mi capita di spuntarla perché spesso si hanno delle le fregature dall’avventore.

LA SERIGRAFIA NEL SUO LARGO USO

Non temo smentite, per dirla con la Serao, affermando che noi tipografi artigiani campani lavoriamo il doppio per guadagnare la meta rispetto ai tipografi artigiani del privilegiato nord. Eppure gli oneri sociali vengono ottemperati nella stessa misura, anzi, talvolta si è costretti a subire tributi fuori legge ed ingerenze varie, nella solitudine della modesta autarchia gestionale.

L’altro male annoso è la concorrenza, per nulla leale, rincruditasi con la massiccia pluralità delle botteghe. Io mi sono rifugiato su di un isolotto di salvezza, sebbene lungo e largo venti spanne, dove accarezzo varie tecniche poligrafiche. La mia tapina bottega di Via Purgatorio sostiene un insieme di ritrovati atti alla sopravvivenza, risolti con arnesi combinati, vecchi ordigni da macero modificati, resi idonei alla risoluzione di problemi tecnici altrimenti eseguibili solo con le moderne, sofisticate attrezzature, fuori dalla portata economica di una bottega. Il sistema serigrafico, ad esempio, consente di spaziare la fantasia attraverso una serie infinita di marchingegni. Se ci si lascia prendere da questa sorta di personalismo si sfocia facilmente nella sublimazione o, se volete, esaltazione professionale, la quale determina un appagamento ideale, tutt’altro che redditizio, ma d’una autocompiacenza quasi espiatoria, specie quando ci si stagna, a lungo andare, nel circolo vizioso della limitazione dei mezzi finanziari. Questa è l’alternativa alla realtà professionale campana vigente, condizionata da regolamentazioni clientelari pregne di compromessi; realizzare, cioè, al di la del lucro, i propri sogni nei campi elisi, meno razionali, della fantasia.

Il fatto stesso che tutti i sistemi di stampa, dai primordi ai nostri giorni, abbiano sempre previsto la carta, o i suoi prototipi, come supporto su cui trasferire l’inchiostro, fa sì che il tipografo che si cimenta nelle sconfinate possibilità realizzative serigrafiche, si senta quanto meno privilegiato. Forse per questo ho la tendenza a reiterare attraverso il materiale pubblicitario personale: Tipografia Mari, stampa su tutto, anche se ciò stimola un po’ troppo la fantasia della mia clientela torrese suggerendole le richieste più strane. Una volta, quando si volevano decorare oggetti solidi e tridimensionali, si ricorreva all’incisione, anche su lapidi, stele, insegne, ecc. L’incisione, ancora attuata per casi particolari, avviene attraverso la fresa a pantografo, e sebbene computerizzata, rimane un sistema lento di riproduzione poiché la fresa deve comunque seguire tutto il solco del disegno. Il sistema di incisione, che comunque non è stampa, rimane idoneo ed insostituibile per la scrittura di pezzi singoli, come, ad esempio, la produzione di targhe, di cui tratterò alla fine del lavoro.

L’esigenza di riprodurre oggetti decorati, in una società così spietatamente consumistica ha suggerito all’industria planetaria di rivisitare l’antico sistema di fregiare gli oggetti attraverso apposite maschere di seta, metodo attinto in alcuni testi della vecchia Cina. La stampa serigrafica, secoli or sono, rasentata qua e la in Europa da qualche artista predisposto alle ricerche sperimentali, si è affermata pienamente in questo secolo e non solo in Europa. In passato si era così impegnati a sviluppare e diffondere la stampa tipografica a caratteri mobili che si tralasciavano le tecniche parallele, che comunque risultavano meno pratiche e veloci, soprattutto con l’assenza della fotografia atta a realizzare velocemente le matrici.

In primo luogo, in passato, i prodotti commerciali erano minori, non solo proporzionalmente al movimento demografico; in secondo luogo le materie di vendita non erano sottoposte al processo di confezionamento dove fa gioco la grancassa. La plastica non esisteva. Quei pochi arditi che desideravano dare delle indicazioni ai rudimentali contenitori di legno, vetro, o in lega, ricorrevano all’incisione o alla classica etichetta, oggi perfezionata e per nulla soppiantata, poiché la stampa offset consente sfumature e dettagli imparagonabili. Infatti la lattografia si avvale del sistema offset.

Oltre ad essere una tecnica che non consente qualità garantite da altri sistemi, la serigrafia è un procedimento lento di stampa, a causa della struttura del veicolo di trasferimento dell’inchiostro. La racla che preme il colore attraverso le maglie della seta non può superare una certa velocità, nella sua corsa, poiché si andrebbe ulteriormente oltre la soglia della tolleranza qualitativa. Negli ultimi tempi si sono costruite macchine relativamente veloci e sofisticate, molte delle quali completamente automatiche, che accelerano al massimo tutte le fasi, tranne quella del raclaggio. Moltissimi serigrafi artigiani, però, come il sottoscritto, lavorano con le macchine a raclaggio manuale o al massimo con quelle a raclaggio assistito o con le semiautomatiche, che prevedono l’immissione manuale del foglio o dell’oggetto da decorare.

Numerosi sono gli artisti che riproducono le loro opere in serigrafia anche attraverso attrezzature rudimentali. La vera arte, secondo loro, è povera. D’altra parte lamentava Abel Bonnard: Quando un artista o uno scrittore si vantano di guadagnare molto ci avvertono, senza saperlo, che hanno cambiato mestiere. Alcuni studenti universitari, fuori zona, si sostengono economicamente praticando in proprio la serigrafia poiché, come ho gia detto, 1’attrezzatura essenziale consiste in un portatelaio ribaltabile fissato con cerniere al un piano qualsiasi, i cui bracci consentono un movimento a libro, ed una racla di gomma. Come si può notare dedico maggiore spazio alla tecnica serigrafica allo scopo di diffondere l’uso didattico od hobbistico, sperando di non causare ulteriori danni al settore commerciale. Prima, però, allo scopo di alleggerire, o appesantire (dipende dai punti di vista) l’asetticità della materia tecnica, daremo un’altra capatina nella storia napoletana relativa alla cultura e alla stampa.

LA STAMPA NEL SECOLO DEI LUMI NAPOLETANO

Il passato storico napoletano non ricorda, come ho gia detto, l’uso di tecniche serigrafiche, nemmeno allo stato rudimentale, tranne che per qualche sporadico uso artistico. La stampa tipografica a caratteri mobili aveva raggiunto il suo legittimo sviluppo. La cultura napoletana attraversò anch’essa il cosiddetto secolo dei lumi. Si era dissolta, finalmente, la stasi culturale del vicereame che, senza dubbio, ebbe un’influenza negativa sullo sviluppo della stampa tipografica a Napoli. Grazie a Dio le iniziative culturali riprendevano corpo malgrado la moda decadente dei cicisbei e delle parrucche incipriate del momento. Nella seconda metà del Settecento si affermò Gianbattista Vico, il quale dominò la cultura napoletana di tutto il secolo successivo. Come molti sanno fu poeta e scrittore, ma soprattutto filosofo. Figlio di un piccolo borghese, libraio, tanto per stare in tema di stampa, Gianbattista, da buon napoletano, fu prolifico in fatto di marmocchi; titolare della cattedra di Rettorica della nostra Università, questo studioso rappresenta un pilastro della cultura napoletana, tanto che quando si vuole esaltare Napoli nel senso culturale si dice: la città che diede i natali a Vico. Egli immortalò la sua filosofia attraverso la Scienza nuova, che influenzò gli studiosi di tutta Europa. Anticipo, tra l’altro, l’idealismo napoletano moderno rifacendosi agli studi rinascimentali. Fu, probabilmente, 1’incidentale botta in testa che, secondo i biografi, subì da bambino, a scatenare la sua genialità.

Vittima, invece, della controversia tra Papato e Reame fu Pietro Giannone, che postulava lo stato laico nel suo Libera Chiesa, libero Stato. Nemmeno con l’avvento dei Borboni poté rientrare a Napoli e morì nelle carceri di Torino a metà secolo. Il Secolo dell’erudizione ci ricorda molti nomi della nostra cultura. Filologi e studiosi di vario indirizzo fondarono 1’Accademia di Ercolano, nell’antica città sepolta, che Carlo di Borbone cominciava a portare alla luce. La tipografia napoletana avanzava a braccetto col nostro Settecento culturale. Tutti gli operatori letterari dell’epoca contribuirono all’affermazione napoletana dell’arte nera. Tra questi ancora Antonio Genovesi con le sue Meditazioni sulla religione, abbastanza scabrosette per un sacerdote; Gaetano Filangieri, da cui il nome dell’odierno Istituto di pena giovanile; Pietro Colletta, con la sua Storia del Reame di Napoli, e via discorrendo.

Cert’è che per le tipografie campane non mancavano autori nel periodo in cui incominciava a svilupparsi il giornalismo, o perlomeno la stampa d’informazione in nuce. Ferdinando Galiani compose, all’epoca, diversi scritti sul dialetto napoletano, oltre al suo Socrate immaginario. Allora le poesie in vernacolo non venivano ancora allineate nelle fila delle composizioni artistiche. Si aveva, infatti, la poesia d’arte, dialettale, popolaresca, ecc.

A metà secolo XVIII sorse 1’Accademia delle Belle Arti. Carlo di Borbone prima e Ferdinando IV poi, bontà loro, elargirono molti ducati all’Università di Napoli, quindi furono istituite molte nuove cattedre. Il secolo XVIII prospettava un buon avvenire per le tipografie napoletane, perché andava concretizzandosi, come ho detto, la stampa d’informazione a larga diffusione. Più del secolo precedente il popolo veniva informato attraverso le famose gazzette: dei fogli, singoli graficamente poveri, censurati volitivamente e distribuiti, naturalmente, a pagamento al popolo più erudito.

Intorno al 1630 fu pubblicata una prima gazzetta di rilievo. Solo verso fine secolo, però, si ebbe un autentico giornalino, a Napoli, e veniva pubblicato, secondo alcune fonti, in un fabbricato dell’odierna Via Monteoliveto. La stampa tipografica d’informazione napoletana aveva preso piede. Erano, certo, ancora lontane le agenzie giornalistiche, ma non mancavano delatori con notizie di prima, seconda, terza mano ed oltre; tutto, però, sotto la stretta sorveglianza del governo.

Ma a prescindere dall’informazione, sotto Carlo di Borbone, il giornalismo aveva preso indirizzo letterario. Così Napoli, la Capitale del Regno delle due Sicilie, vantava alla fine del secolo XVIII diverse pubblicazioni periodiche, sebbene di veste grafica rudimentale, ma di grande importanza giornalistico-culturale. Il Vico, il Genovesi e il Giannone erano alcuni eminenti collaboratori.

Prima di passare alle macchine serigrafiche diamo una spulciatina ai maggiori giornali di quell’epoca: La Gazzetta Napolitana, che comprendeva una specifica rubrica letteraria; Il Giornale Letterario di Giuseppe Maria Boezio; Il Giornale Enciclopedico di Napoli di Giuseppe Vairo Rosa; La Scelta Miscellanea, di De Silva; Il Giornale Enciclopedico d’Italia dell’abate Scarpelli, fino ai più famosi: Il Giornale e Il Monitore di Eleonora Pimentel Fonseca, la cui avvincente, avventurosa biografia si può attingere in uno dei romanzi storici moderni più famosi e di grande levatura artistico-culturale: “Il resto di niente” di Enzo Striano che è stato paragonato ai “Promessi Sposi”; infatti si studia nelle scuole.

MACCHINE PER LA STAMPA SERIGRAFICA IN PIANO

Bisogna subito distinguere due tipi di macchine serigrafiche, quelle per la stampa di supporti piani e quelle per la decorazione di oggetti di qualsiasi forma geometrica. Le prime sono adatte alla stampa di fogli di carta, plastica, alluminio, ecc. Per la stampa di fogli leggeri la macchina prevede il piano aspi- rante che provvede a trattenere il foglio durante il contatto della matrice, ciò per evitare che il supporto si attacchi alla seta stampante, compromettendo le copie successive. Per lo stesso motivo il telaio non va a contatto del foglio da decorare, ma distante qualche millimetro. Lo spessore idoneo di questo fuori contatto è stabilito in relazione al formato di stampa e alla flessibilità della seta. E’ la pressione della racla a determinare la stampa, come una riga mobile, cioè lo spigolo della racla inclinata che avanza. Il registro è assicurato dalle guide del foglio per garantire sempre la medesima posizione, indispensabile nei lavori a più colori sovrapposti o semplicemente accostati. L’operatore posiziona il foglio sul piano accostandolo alle squadrette di registro costituite da semplici strisce adesive, quindi abbassa il telaio che si fermerà sugli spessori di fuori contatto posizionati sotto i bordi della cornice. Intanto la pompa aspirante trattiene il foglio sul piano mentre l’operatore afferra la racla e la inclina a 45 gradi, quindi attinge l’inchiostro dal lato opposto del telaio e, premendolo sulla seta, lo fa scivolare verso di se. A fine corsa, ancora prima di rialzare il telaio, la seta è gia fuori contatto. Quindi, alzata la cornice si provvede a posizionare il foglio sullo stenditoio onde procedere alla fase successiva.

Nel caso di maggiore esigenza di inchiostrazione, come per la stampa di materiale assorbente, ad esempio la stoffa, lo spigolo della racla sarà più arrotondato e si lavorerà con una inclinazione maggiore, ma soprattutto si adopererà una seta con maglie più larghe, le quali consentono una maggiore erogazione d’inchiostro, non solo, ma si eliminerà il fuori contatto perché non si corre il rischio di sbavature o doppie immagini. Le macchine manuali o semiautomatiche di piccolo formato non consentono la decorazione di fogli superiori a 50 x 70 cm. Le macchine simili di formato maggiore adatte ai manifesti e alla cartellonistica, arrivano ad un formato di 100 x 140 cm. e oltre. Queste macchine sono dotate del meccanismo detto a racla assistita, o servoracla, se più vi piace, data l’impossibilita manuale di operare su formati così ampi. Le copie stampate con le semiautomatiche risultano qualitativamente ottimali e regolari, anche perché l’operatore potrà effettuare maggiori controlli poiché non impegnato nel faticoso raclaggio manuale.

Oggi sono in commercio macchine completamente automatiche per la stampa di supporti in piano. L’immissione avviene tramite mettifogli ad aspirazione simile a quelli delle macchine grafiche. Il foglio va a posizionarsi contro le squadrette di registro, questa volta di metallo e con regolazione micrometrica, quindi viene stampato ed espulso automaticamente per essere sottoposto ad essiccazione forzata con getti d’aria calda o con raggi infrarossi, ecc. I supporti prelevati dalle macchine manuali o semiautomatiche vanno adagiati in appositi stenditoi, poiché qualsiasi oggetto decorato in serigrafia non asciuga mai subito, non solo si guasta al graffio, ma ha bisogno almeno di qualche minuto per andare fuori polvere. Se così non fosse le maglie della matrice si occluderebbero al primo passaggio e sarebbero impossibili le stampe successive.

L’OGGETTISTICA SERIGRAFICA NEL CARATTERIALE VESUVIANO

La mia Torre del Greco ed altri centri della provincia non offrono molte possibilità di lavoro serigrafico. Commercianti ed artigiani che usufruiscono dell’oggettistica promozionale relativa alla strenna natalizia aderiscono pure alle proposte per corrispondenza di serigrafi del nord. Nella capitale del sud, invece, la stampa serigrafica è più operante, anche perché soddisfa la domanda dello estremo sud quasi sprovvisto di officine serigrafiche, sia pure di livello artigianale. La stampa serigrafica consente la decorazione di una infinità di prodotti legati allo sport, alle religioni, al commercio. I serigrafi campani decorano la maglietta con l’effige di Maradona, la bandiera col ciuccio e, indifferentemente, 1’immagine del Volto Santo e il portachiavi con la Vergine di Pompei. Questa oggettualità anche suggerita, se non imposta, dalla moda consumistica si riallaccia alla simbologia della speranza, del riscatto sportivo, storico, religioso-salvifico, al di là da venire.

Sono feticci atti a rimuovere crediti sociali incamerati sin dall’età puerile. Anche l’impetuosità, 1’esuberanza, l’aggressività dei napoletani fa perno su questo desiderio atavico di rivalsa covato sin dal fallimento masaniellesco, interpretato come utopia di rinnovamento. Gli amuleti aiutano a scongiurare le eterne insidie della mente adulta e ci fanno apparire scapigliati, ribelli e incoscienti come gli scugnizzi, le cui note caratteriali ogni adulto vesuviano porta dentro. Questa oggettistica esasperata nel contenuto e nella quantità rappresenta una sorta di animismo tribale apotropaico. Si dice che essere coraggiosi non significa non avere paura, ma vincere la paura. Questo è possibile solo dietro una sorta di incoscienza, nella capacità atarassica di scivolare su tutti i problemi, anche i più emergenti. Queste risorse interiori del popolo vesuviano si traducono in un reattivo al dolore, un inimitabile adattamento al sacrificio, alle rinunce; risorse, queste, non ancora completamente compromesse dal sistema doppiofaccista del progresso. Il mio popolo sarà l’ultimo a cedere alla babele finale, anche se i segni di disorientamento sono gia evidenti dato lo stacco netto delle generazioni pre-post sessantottine.

Non ci si deve meravigliare, quindi, di certe stravaganze e bizzarrìe che derivano da questa irrazionale e fantasiosa personalità di massa, la quale trasforma in concretezza anche sogni e fortuna. Non è raro quel cliente che mi appare sull’uscio della bottega di Torre del Greco anfanando «Per venire da lei ho sorpassato almeno dieci tipografie, risarcitemi almeno i soldi del carburante». Un signore che non avevo mai veduto prima irruppe nella bottega sbratando una richiesta di cento pagelline di lutto con la pretesa di non remunerarmi perché, per venire da me aveva subìto un incidente d’automobile. Esasperato gli rimbrottai che se non spariva subito, i ricordini di lutto li avrei fatti alla sua persona, al che mi rispose candidamente che tentare non nuoce.

Dulcis in fundo, un mio cliente affezionato disse che non l’avrei più rivisto perché conto 17 righi punteggiati sulle fatture che gli consegnavo, in più era il giorno 17 novembre, e stavo per dargli 17 mila lire di resto. Riteniamola una coincidenza, questi neppure arriva a casa, cade per le scale e si rompe una gamba. Non solo non e venuto più nella mia bottega, ma si e trasferito a Pompei, e piuttosto che passare per Torre del Greco preferisce fare il giro per 1’Asia…

LE MACCHINE PER LA STAMPA DI OGGETTI

Queste macchine si distinguono in più categorie. Vi sono quelle per la stampa di oggetti conici, cilindrici o circolari; altre per la decorazione di oggetti tridimensionali flessibili, ancora per oggetti tridimensionali poliedrici, ecc. Oggigiorno tutti i prodotti commerciali sono contenuti all’interno di involucri policromi decorati in massima parte in serigrafia. Shampoo, dentifricio, mascara, candeggina e, consentitemi ancora qualche gradevole frase fatta: chi più ne ha più ne metta.

Per la stampa di oggetti cilindri, conici, sferici, comunque là dove esiste la geometria delle curve, il meccanismo centrale serigrafico subisce una variazione che somiglia all’aneddoto di Maometto e la montagna. La racla resta ferma, mentre il telaio di seta scorre sotto di essa scivolando sull’oggetto, il quale compie una rivoluzione su se stesso. In caso contrario il telaio avrebbe dovuto assumere la forma curva dell’oggetto ma ciò causerebbe una serie di problemi, tra cui, ad esempio, il tracimare dell’inchiostro dalla cornice sagomata, ecc.

Gli oggetti tridimensionali flessibili, invece, come tutti i flaconi, vanno gonfiati all’atto della stampa, per dare al supporto stesso la rigidezza necessaria atta a sostenere la pressione della racla. La stampa di oggetti sagomati, però, prevede telaietti di forma appropriata che vadano a combaciare con il lato dell’oggetto predisposto alla decorazione, superando ostacoli come bordi, spigoli, ecc. Molte volte, per oggetti di produzione continua vengono costruite delle macchine che sono studiate, progettate e realizzate in funzione dell’oggetto stesso, favorendo al massimo la praticità di lavoro, la velocità di stampa e la qualità della decorazione.

Molti tessuti vengono stampati in serigrafia ed alcuni con macchine combinate. Con le piccole macchine serigrafiche è possibile stampare solo tessuti tagliati o confezionati come foulard, asciugamani, magliette, ecc. Per decorare tessuti confezionati a più colori necessita una macchina circolare a più telai. Su di un asse centrale sono incernierati otto bracci per fissare quattro telai che avranno un movimento rotatorio. I piani sono due o più, per dare la possibilità di lavorare a più persone. Si procede al raclaggio col primo telaio e via via coi successivi. La stampa progressiva immediata, senza timore di sbavature, è possibile grazie alla proprietà di assorbimento dei tessuti. E’ agevole, comunque, stampare oggetti sfaccettati anche con le comuni semplici attrezzature per la stampa in piano, sempre che l’incernieramento sia elevabile, altrimenti bisogna operare a telaio semiabbassato con conseguente pericolo di tracimazione dell’inchiostro. Oltre agli essiccatoi a griglie metalliche del formato medio di 70 x 100 cm. (standard della carta italiana), sono in commercio diversi ritrovati per lasciar asciugare oggetti tridimensionali, fino al metodo suggerito da madre natura, cioè quello di disporli a castello, se di forma tale da consentirlo.

LA STAMPA SERIGRAFICA

Vista la relativa semplicità delle macchine serigrafiche, la bontà della stampa dipende molto dalla matrice e dall’idoneità dell’inchiostro in relazione al supporto da decorare, per cui ogni tipo è sostanzialmente diverso da un altro. Spesso la vernice che veicolizza il pigmento è composta dalle polveri della materia del supporto stesso, là dove il solvente causa la saldatura. Una cosa è stampare la carta, l’altra, ad esempio, è decorare il ferro. Vi sono inchiostri serigrafici che dopo la stampa devono subire, insieme al loro supporto, ulteriori processi di lavorazione o trasformazione termica come, ad esempio, nella produzione di posters a rilievo o maschere carnevalesche di plastica. Il processo di stampa diventa qui una saldatura inchiostro-supporto. Come gli inchiostri grafici, quelli serigrafici essiccano per evaporazione dei solventi o per ossidazione, in massima parte, la particolarità sta silo nel veicolo di stampa. Per aggredire supporti come il vetro o il metallo, occorrono inchiostri a smalto. La loro essiccazione richiede almeno 8 ore, dopo di che presentano una buona resistenza al graffio.

Molti supporti richiedono la necessità di essere stampati con vernici che garantiscono un totale ancoraggio. L’essiccazione avviene qui per polimerizzazione, cioè attraverso quel processo chimico molecolare che accelera al massimo i normali, lenti processi di essiccazione naturale. D’altra parte molte vernici o collanti speciali, anche per uso domestico, sfruttano oggi questo principio. Il prodotto viene fornito in due componenti separate, la vernice vera e propria ed il suo catalizzatore, da miscelare in percentuale al momento dell’uso.

La stampa di tessuti prevede inchiostri o lacche speciali a base d’acqua e vengono diluiti leggermente, quando se ne presenta la necessità, con acqua di rubinetto. L’inchiostro adatto per il cotone generalmente non è coprente ed è adatto per la stampa di colori sovrapposti, da fondersi. Le lacche per fibre sintetiche, invece, come l’acrilico, ecc., sono coprenti e adatte per la stampa di colori chiari su tinte scure. Questi inchiostri vengono anch’essi polimerizzati ed essiccati in forno a raggi infrarossi o con presse a caldo.

Infine, per decorare quei supporti destinati a subire forti sollecitazioni come lavaggio, strofinio, attrito, strizzamento, agenti atmosferici, ecc., vengono adoperati inchiostri speciali. Abbiamo i vetrificabili per bottiglie; i termofusibili per metallo, e via dicendo. Alcuni vengono stampati con tessuto serigrafico metallico (acciaio inossidabile). Questi telai fungono da resistenza elettrica e consentono la fusione termica dell’inchiostro speciale sul supporto da decorare.

I1 sottoscritto si crogiola spesso nelle infinite possibilità realizzative del lavoro serigrafico, che, ripeto, in molti casi non richiede altra attrezzatura che una cornice di nylon ed una racla, oltre, naturalmente, ai materiali di consumo. Un angolo della mia bottega di Via Purgatorio, spesso si trasforma in una fucina di elaborazioni alchemiche. Il celato che si rivela stimola, come il sesso. Per concludere è doveroso aggiungere che molti contenitori di prodotti commerciali vengono stampati in lattografia, che adotta il sistema offset, grazie alla precipua prerogativa della stampa indiretta, in pratica la latta rigida raccoglie l’impronta dal cilindro gommato e non da una matrice altrettanto rigida, il che comprometterebbe un contatto omogeneo e provocherebbe l’usura quasi immediata della matrice stessa. Questo sistema consente di ottenere immagini policrome di eccezionale finezza, proprie della stampa offset. La stampa serigrafica, comunque, al di là della poliedricità di applicazione, detiene una prerogativa essenziale, la maggiore resistenza alla luce ed al graffio, delle decorazioni grazie alla totale libertà dei chimici fabbricanti gli inchiostri; offre la possibilità delle più svariate tecniche di ancoraggio delle vernici, che spesso vernici non sono. In più la serigrafia consente di abbondare con l’inchiostro specie sui materiali assorbenti, cosa impossibile con il sistema offset, che per consentire l’equilibrio acqua-inchiostro prevede sempre un sottile velo di colore.

LA CARTARIA GENOVA

E’ arrivato il momento di concludere il nono capitolo di un libro che appare un’apologia delle arti grafiche tradizionali. E qui formuliamo una sorta di commiato ad esse, poiché da ora in poi tratterò argomenti sull’industria grafica editoriale. Mille personaggi connessi alla tipografia vecchia maniera irrompono dai miei precordi. Ciascuno di essi si è stanziato in quel vasto territorio, ferace e generoso, che e il cuore di molti noi napoletani. Mario Genova era un giovane generoso, volitivo, esuberante. Quale tipografo non ricorda il lucore gioviale e rasserenante dei suoi occhi; il suo caratteriale a mezza strada tra il nobiluomo e il portuale. I Genova, bisogna riconoscerlo, malgrado l’agiatezza, si rimboccano le maniche e dimostrano che la fatica fisica non è solo destinata ai diseredati, ai bisognosi, ma pure espressione patriziale di solidarietà sociale.

Da qualche anno il dottore Genova e la signora Giovanna sono vicini a Dio. Non possono stare altrove persone che prendono tanto posto nel cuore dei conoscenti. Vicino a Dio è Mario, che ha riabbracciato i genitori nella maniera autentica, quella legata al rapporto genitori-figlioletti, compromessa nella vita adulta degli occidentali, dietro oscure elaborazioni culturali. La Cartaria Genova è rappresentata da Massimo e Maurizio, con rispettive consorti e prole. Malgrado i colpi mancini del destino è una delle ditte del settore più attive e rigogliose di tutto il territorio campano, grazie pure alla solerzia di Massimo Genova, il burbero benefico, che solo a cospetto delle mie piccole Serena e Veronica lascia trapelare la sua vera natura, quella potenzialità di disposizione alla tenerezza e alla benevolenza che, spesso, il ruolo sociale lascia occluse dentro, cristallizzando forme comportamentali di apparente austerità e riservatezza.

Maurizio detiene la pacatezza quasi superficiale del commerciante sentimentale che ha meno dimestichezza con le cifre e maggiore disposizione alle operazioni di stoccaggio di magazzino e al trasporto merceologico. Non dimentico, certo Rafele, Felice e ’Ngiulillo, dal somatico villereccio, sempre tronfi, in paese, quando ostentano la loro appartenenza nientemeno che al prestigioso mondo delle arti grafiche, pur se contano solo fogli di carta da mane a sera. Personaggi con i cui i tipografi hanno contatto, quasi giornaliero, nell’arco della vita intera.

E le voci… accordi melici ovattati di passato. Il compositore tarchiato e paffuto: Rafe’ ’na resema ’e mezzofino, m’ ’a porto ’ncuollo; Il titolare impressore, legatore e fattorino: Massimo, otto scatole ’e Diplomatica, m’aggio abbuscata ’a jurnata… Però t’ ’o ddico ’a mo’ nun tengo sorde. Segna. E il sedicente industrialotto-bottegaio di provincia: Mauri’, spicceme tu, i’ m’ aggio scurdato che bboglio, se no fràteto allucca.

Signora Maaari – diceva Mario napoletanizzando al massimo quell’espressione che sottintende un dileggioso assioma partenopeo, martellatoci per anni dai Genova, sintetizzato dal popolo nella simpatica dicotomia Provvidenza-effetti bancari, che si traduce nella pluralità delle figlie-femmine, le cui quattro nostre viste nascere, da loro, e seguite nell’età evolutiva. Fino a che giustizia fu fatta, nel senso che Massimo e Mario beneficiarono in prima persona dell’ebbrezza della prole di conformazione muliebre, che attribuirono al maliardo influsso scaturito da una sorta di incantesimo da noi perpetrato sul loro destino proliferatorio, sulla base dell’aver compagno a duolo, scema la pena.

Signora Maaari. Non potremo mai dimenticare questa voce, come non si scorda mai la voce delle mamme napoletane che raccolgono a se i figlioletti dall’alto dei davanzali dei balconcini e delle portelle della Napoli spagnola. Ed il tono megafonico della voce della nonnina Genova? E le vanterie hobby-fotografico od hobby-giardinaggio del dottore Alberto? E l’amorevole, materna cadenza settentrionale della signora Giovanna? Sembrano risvolti onirici, ma non ha importanza; la vita scorre come un fiume impetuoso che raccoglie e trasporta con se tutto ciò che trova sulla sua strada, tranne che i buoni sentimenti, l’amore, che e potenziale in tutti gli uomini, nessuno escluso. Signora Maaari! …

Non si fa la felicità di molti facendoli correre

prima ancora che abbiano imparato a camminare.

«La donna del tenente francese» – John Fowiers

CAP. X

L’INDUSTRIA GRAFICA EDITORIALE

Se la stampa non esistesse bisognerebbe inventarla;

ma oramai c’è, e noi ne viviamo.

“Le illusioni perdute” . De Balzao

OSSERVAZIONI PRELIMINARI

Alle soglie del XXI secolo suona anacronistico parlare di stampa tipografica a caratteri mobili e trattarne la materia tecnica come se fosse in pieno fulgore. Anche gli epitaffi, però, parlano del defunto con molto ardore, per ciò che di buono e nobile ha rappresentato il soggetto in vita. Nessun individuo conosciuto e nessun arte praticata muore nel cuore dell’uomo, anche se tramontata, tanto meno un’arte applicata rimasta affascinante ed immutata per cinque secoli. La tipografia napoletana ha avuto il suo massimo splendore nel diciannovesimo secolo, grazie pure al radicale rinnovamento politico e culturale, ed è già il caso di parlare di media industria editoriale. La rivoluzione culturale romantica ci ricorda nomi nostrani come Basilio Puoti e Francesco De Sanctis, e non si tratta di brustolini, per dirla alla Arbore. Ma pur se l’arte tipografica aveva ormai grande risonanza sociale nella vita dei campani, era ancora al di là da venire l’idea di libertà di stampa. (Vedi il più grande romanzo storico napoletano attuale “Il resto di niente” di Enzo Striano già citato).

Nell’Ottocento napoletano nacquero numerose pubblicazioni periodiche. Agli albori del secolo uscirono il Monitore delle due Sicilie e Il Corriere di Napoli. La Voce del Secolo vide la luce nel primo quarto di secolo, indi La Voce del Popolo, La Minerva Napoletana, ecc. A metà secolo compaiono i periodici L’Omnibus Letterario e Il Tempo.

Il vero rinnovamento letterario, come è ben noto, nasce con la critica di Francesco De Sanctis e Bertrando Spaventa. Perseguitato politicamente come il De Sanctis fu Luigi Settembrini, altro ingegno lucido. Gia nel Settecento la letteratura dialettale aveva avuto le prime affermazioni, ma nel Risorgimento se ne riscontro la massima fioritura con Salvatore Di Giacomo e Ferdinando Russo. Si affermo definitivamente pure la Canzone Napoletana, nata con i canti popolareschi del XV secolo, dopo che Alfonso d’Aragona decretò il dialetto come lingua ufficiale del Regno.

Le tipografie vesuviane sorgevano sempre più numerose, dislocate in provincia ed agglomerate nel Centro storico intorno all’Università. Qualche opificio già tentava pubblicazioni su scala nazionale, ma si era ancora lontani dalla massiccia produzione editoriale moderna. In qualità di tipografo artigiano devo faticare per trattare argomenti socio-industriali. Essendo al di qua del campo tecnocratico devo trarre delle conclusioni solo dall’esperienza libresca, benché sia abbastanza infarinato, pure in maniera empirica nel complesso delle tecnologie industriali, non addentro, comunque alle problematiche della tecnocrazia. In fondo, è inutile reiterarlo, questo modesto lavoro non segue una linea tecno-politica, ma socio-lirica di un’arte applicata. Non vedo quale poesia si possa cogliere dalla robotica industriale e, nella fattispecie, dalle turbostampanti ed il loro legame socio-finanziario. Quindi ritorniamo nella dimensione che ci compete e guardiamo insieme lo sviluppo editoriale con l’occhio innocente del popolo.
Ho già detto che alcuni complessi tipografici campani sono la risultanza dell’evoluzione di antiche tipografie artigiane, le quali, approfittando del boom economico degli anni 60 e di un certo lassismo fiscale, nonché dei benefici della buonanima Cassa per il Mezzogiorno, realizzavano il sogno di emulare i cugini industriali del nord, e ben fecero, crearono molti posti di lavoro, anche se, talvolta, non soddisfacentemente remunerati. Infatti oggi si può dire che tale sviluppo, equizzato nelle spettanze relative al costo del lavoro, abbia giovato pure ai lavoratori dipendenti. Alcuni colleghi tipografi di Torre del Greco e dei paesi viciniori mi hanno fatto una chiara relazione sull’evoluzione e le trasformazioni tecnologiche di queste aziende in relazione ai mutamenti politici, sindacali ed alle continue riforme legislative in fatto fiscale. Ma la tipografia napoletana è eternamente succube di una domanda labile dovuta all’eccessiva pluralità dell’offerta, per cui è frequente il fenomeno di dilaniamento concorrenziale ritenuta erroneamente l’unica arma di difesa ed offesa. Ciò è storicamente atavico, dovuto alla precarietà epocale delle dominazioni, ecc.

In più si presentano spesso casi di mancata corresponsione remunerativa a causa di fallimenti o bancarotta, anche fraudolenta, da parte dei fruitori di grosse partite di stampati, per cui, talvolta, il bilancio di queste aziende si incrina quasi a spaccarsi. Senza contare le ingerenze malavitose. I nostri grossi datori di lavoro odierni, tra fisco, sindacati, malavita e bancarottieri hanno, come si dice da noi, appeso i panni ad un cattivo chiodo.

Le idee e le opinioni degli uomini, sociali, religiose o politiche, vengono forgiate tra i focolari domestici, sulle ginocchia materne, c’è poco da discutere. Ecco perché la matrice delle considerazioni sociali è l’ottica psicologica; tutto si dipana da questo mirino. La formazione nell’età evolutiva individuale determina ogni tipo di scelta sociale, le influenze esterne suggeriscono solo le etichette da appiccicare sul petto. Così le peculiarità psicosessuali-affettive determinano le varie sublimazioni, politiche, religiose e professionali. Arturo mi rispose che questa è psicologia spicciola, da primo anno d’Università e che comunque, come tutte le dottrine, sono nient’altro che ciance, teorie, supposizioni e basta. E’ vero?

ARTURO, TIPOGRAFO ERUDITO

Arturo è un collega tipografo di Portici. Quando ci incontriamo, ogni anno, in occasione della Festa dei Quattro Altari, mi parla spesso dei nuovi datori di lavoro. «Non capisco perché – disse una volta – la gente si ostina ancora a parlar male dei padroni. Non starei nei loro panni nemmeno come pulce. Credono di conquistare la felicità col danaro, mentre, in pochi anni, si ritrovano addosso tutti i disturbi psicosomatici contemplati nei manuali di Franz Alexander. D’altra parte – sostiene Arturo – padrone significa grosso padre, ora, caro Mari, parleresti così male di tuo padre, anche se grosso e tesaurizzatore, anche se, spesso, snaturato? Un padre, pure se ingiuria i propri figli, li sfrutta, li aggredisce o li opprime, lo fa sempre a fin di bene… ama, come si suol dire, a modo suo, ma sempre amore paterno e…».

Io ed Arturo avanziamo tra la ressa, abbacinati dalle luminarie cinematiche, sostando entusiasmati innanzi agli Altari: dipinti su gigantesche tele, ed intanto gli dico che l’imprenditore del sud non è né migliore né peggiore degli altri, ma sostanzialmente diverso. E’ dissimile la sua sfera emotiva, la sua base culturale, la sua natura storica d’essere padrone. E’ vero che abbiamo avuto casi di padronismo acuto cronico, come, ad esempio il famoso imprenditore tipografo X. Y. che spianava le banconote col ferro da stiro, ogni sera, puntualmente, prima di obbedire al suo rituale apotropaico antinflazionistico e rifugiarsi in una nutrita sequela di scongiuri cabalo-mistici, per abbandonarsi, infine, tra le cosiddette braccia di Morfeo. La sua anima, di notte, diveniva un batuffolo di bambagia soffice che rimbalzava tra Belzebu, il fattucchiere e Nostro Signore.
Avevamo raggiunto il Porto di Torre per incrapularci, poi, in un convivio luciano a base di mitili, taralli impepati e birra esotica, indi assistere agli spari pirotecnici che concludono quella massiccia rivelazione di folklore pregna di suggestione religiosa. «Gli imprenditori del nord – chiacchiucchiava Arturo, con la lingua ostacolata da lubrici mitili – perseguono il capitale principalmente per sentirsi superiori a quelli del sud. Poveri ricchi, emarginati nel loro potere, essi pretendono d’ottenere stima e ammirazione, ma in fondo, alla base di questi desideri v’è solo un bisogno d’amore, voglio dire l’antidoto alla paura esistenziale. Purtroppo la ricchezza li divide dalla gente semplice, l’unica a poter elargire il sentimento più utile alla vita. Ho detto gente semplice, ma non distorta dall’idea culturale della povertà che presume invidia e risentimenti. Da quelle parti – aggiunge Arturo, dopo aver tracannato un intero tre quarti hanno poca invidia tra di loro, vedono realizzato il loro scopo. Che gusto c’è ad essere ricchi quando non ci sono abbastanza poveri ad ossequiarti, a girarti sempre intorno, a rodersi l’anima in segreto? I loro fratelli d’Italia poveri sono quelli del sud, essi sono utili allo scopo. Per questo si accaniscono a propinarci tutto quello che producono, ma lavorati da quelli del sud; devo forse delucidarti sulla natura della rivalità fraterna?».

Gli spari fantasmagorici coprono le teorie di Arturo. Ora aspira ampie boccate di fumo. Dopo la botta finale, nel mentre ambuliamo stirandoci le membra in piena fase peptica, conclude: «Il bisogno di potere-danaro dei fratelli d’Italia imprenditori del sud, invece, scaturisce da un’atavica brama di volersi svincolare dalle grinfie feudali, dal vassallaggio (oggi clientelismo). Il sentimento infermo di alcuni imprenditori meridionali, compreso commercianti ed artigiani ambiziosi, è conflittuale, perché il soggetto si dibatte tra un antico desiderio di riscatto, la coercizione consumistica e l’economia malata del sud, subordinata a quella più razionale del nord. Da noi il desiderio di emergere in maniera consistente, e prevalere, si ripercuote non già su quelli più a sud poiché, poveri africani, non hanno neppure la mazza per andare mendicando, ma sui malcapitati che si hanno sotto mano, insomma i paria delle gerarchie, industriali, commerciali, marziali, domestiche, sempre molto numerosi. Ai lavoratori dipendenti, a prescindere dalle seconde attività e dai doppi stipendi coniugali che talvolta sottraggono lavoro ai disoccupati, è preclusa ogni possibilità di ascesa in questo senso.
Tale bisogno infermo, questa sorta di prevaricazione a catena, è rappresentata e sostenuta dalle mogli, che non hanno niente a che fare con le donne, degne di tutta la stima ed il rispetto; le mogli, senza generalizzare, pretendono solo dalla forza economica domestica il riscatto delle dominazioni del passato, dell’antica condizione contadina
».

Arturo prende fiato in cima al pendio di Via Cesare Battisti. Io lo seguo con attenzione perché le nostre idee hanno diversi punti in comune. Quindi prende posto al volante ed io lo ascolto dal finestrino. Arturo sostiene che la mania di fare soldi dei settentrionali è legata alla problematica esistenziale planetaria, quella nostra, in più, prende radici dalla storia locale. Quando questo bisogno si intensifica si finisce con lo scendere a compromessi anche di natura eslege e delittuosa. Il primo traguardo è il posto. E qui cominciano i problemi, perché il posto ti mette nell’orbita, sebbene periferica, dell’eliocentrismo del potere economico, indi il matrimonio, poi spinta psicologica della moglie ed empirica dei bisogni (e non delle necessità) legati al consumismo coercizzato. La corsa e irrefrenabile. Non si rinunzia a nessun tentativo, altrimenti ci si sente emarginati.
”Nessun circumvesuviano, caro Mari, non ha mai tentato di fare l’imprenditore, almeno una volta nella vita, anche il bancarellaro, pur di sentire l’ebbrezza dell’ascesa. Statte bbuono, Marittie’ ».

E voltato la gavezza …dei cavalli motore, naturalmente, punta verso Portici, dileguandosi per il Miglio d’Oro dannunziano. La finanza, col capitalismo prioritario, si depluralizza concentrandosi nel potere oligarchico. Non già solo l’artigiano, ma l’industriale medio rischia di uscire dal rango dei privilegiati. Gli sforzi dell’industria tipografica campana sono sostenuti. E’ difficile tener testa ai continui progressi tecnologici. Molte aziende fanno capriole per reggere il gioco del mercato e delle evoluzioni tecniche. Ma spesso si sottopongono a ristrutturazioni e ridimensionamenti che favoriscono l’aumento dei cassintegrati.

LE NUOVE TECNICHE

L’industria grafica moderna ha quasi eliminato del tutto l’uso dei caratteri tipografici di piombo. Già negli anni 60 si era diffuso il sistema per realizzare titoli e slogans con i trasferibili, noti oramai a tutti pur se soppressi anch’essi, i quali, tra l’altro, abolivano l’handicap estetico della spalla dei caratteri, consentendo soluzioni tecniche di massimo accostamento delle lettere o dei righi, sovrapposizioni, incastri, ecc. In più i trasferibili venivano prodotti nella totalità della gamma di stili, rispetto al parziale corredo di caratteri di piombo che dispone la tipografia più attrezzata. La vera rivoluzione grafica compositiva attuale, è 1’informatica con la fotocomposizione computerizzata (vedi capitola relativo). A prescindere dal disegno e dalla fotografia puri, fine a se stessi, il grafico moderno basa il proprio lavoro sulla fusione di tutti gli elementi fototecnici che ha a disposizione, sia quelli creativi, inventati per 1’occasione, sia quelli sistematici, costituiti da materiale fotocomposto, trasferibili, fondi, retinature speciali, disegni standard e persino bozze di elementi tipografici. E’ prioritaria la massiccia disponibilità di elementi grafici d’archivio denominati clippart.

Al di fuori dei miei trasognamenti di parte e della reale utilizzazione degli standard fotocomponibili, 1’elaborazione fotografica di testo e immagine oggi consente un’altrettanto libertà creativa, se pur facilitata, meno emotiva, olfattiva, epidermica, diretta, del fuligginoso, meccanico materiale tipografico. L’evoluzione massiccia della fototecnica è strettamente connessa alla stampa offset, che all’inizio si distingueva essenzialmente solo per 1’assenza di pressione, visibile, invece, sugli stampati tipografici; e per l’inversione in negativo di scritte; nonché per la velocità di stampa. Oggi tali effetti e prerogative sono scontate, 1’evoluzione grafica si rivolge verso follie creative simili a quelle dell’arte avanguardistica.

L’industria grafica relativa all’editoria e alla pubblicità commerciale sperimenta sempre nuovi moduli creativi. Oggi sono diffusi numerosi studi grafici molti di loro di una certa levatura, quasi tutti autonomi, scissi, cioè, dalle officine offset, i quali, quotidianamente, spremono tutto il loro ingegno e le proprie risorse allo scopo di ottenere i migliori risultati di creatività e gradevolezza visiva, coadiuvati dalle infinite possibilità della fototecnica moderna legata alla stampa offset, di cui sono pienamente abilitati. Gli stampati relativi all’informazione non vengono molto elaborati, quelli, invece, che riguardano le pubblicazioni di carattere tecnico o specialistico o, in particolar modo, quelli legati alla grafica pubblicitaria, subiscono ogni sorta di trasformazione. Una foto può essere solarizzata (eliminazione dei mezzi toni); può essere accentuata o indebolita nelle ombre, scurita nel fondo o schiarita, ecc. In alcuni casi effetti non previsti danno vita a tecniche nuove.

Al di la delle artificiosità tecniche e delle standardizzazioni ripetitive, la grafica moderna si riallaccia, come quella antica, ai moduli artistici vigenti ed all’architettura. Oggi 1’industria chimica fotografica ha messo in commercio emulsioni speciali per la fototecnica, che consentono di ottenere maggiori effetti in tempi minori, anche se, sostanzialmente di utilità produttiva. Anche le macchine da ripresa sono migliorate notevolmente a questo proposito. In più, gia da qualche decennio, sono state realizzate ottiche che permettono decentramenti e deformazioni anamorfiche di scritte ed immagini, ma subito sostituite da appositi software più immediati e pratici. Bisogna riconoscere che una scritta, in diversi casi, risulta più gradevole e vistosa se invertita in negativo, o se ondulata e incassata nell’immagine. Si sono affermate diverse tecniche nuove, magari nate per caso in camera oscura o digitando per errore una tastiera da computer, come 1’effetto grana, la posterizzazione, 1’immagine scomposta in sole linee parallele, in linee concentriche, irregolari, a semicerchio, ecc.

Alcune di queste elaborazioni fanno apparire, ad esempio, la foto quasi un disegno eseguito con abili tecniche. Io sono abbonato ad una pubblicazione inglese che distribuisce in tutto il mondo queste utili elaborazioni generiche, oggi in edizione elettronica. Il grafico moderno, più del tipografo compositore, deve essere un abile collagista, ma le sue realizzazioni sono molto facilitate per cui si ottengono risultati più complessi con meno lavoro. Ma qual è la molla che ha spinto queste evoluzioni, quella dell’arte o del business? Mah, diciamo tutt’e due, cosi nessuno va in collera.

PROGETTAZIONE GRAFIGA MODERNA

Nel capitolo relativo alle vecchie tipografie artigiane da piombo abbiamo osservato la progettazione in funzione del materiale tipografico sistematico: caratteri, filetti, fregi, cliché, ecc., che, comunque, a prescindere dalle botteghe, prevede anche calcoli preventivi tramite bozzetti tracciati a mano o collages di bozze di caratteri per controllarne l’effetto (menabò). La progettazione grafica moderna relativa all’industria editoriale e a quella della grafica pubblicitaria, prevede oltre che una preparazione teorico-pratica della materia tecnica, l’osservanza di regole e norme basate sulla evoluzione storico-culturale della pittura e dell’architettura, vista la totale liberta geometrica del sistema. Il grafico, intanto, deve lavorare dentro certi canoni sperimentati e garantiti; in molti casi di grosse produzioni, non può sconfinare nell’azzardo perché le poste in gioco sono enormi, specie quando si opera su scala nazionale. Anche se in misura minore e meno dottrinaria, i vecchi compositori tipografi hanno sempre tenuto conto di tali cognizioni. Le realizzazioni grafiche del passato, pur se progettate dagli autori di testo e immagini, sono sempre passate sotto la trafila del tipografo compositore che ha sempre svolto la funzione di esecutore materiale di un’arte applicata.

Oggi la figura del tipografo compositore mezzo artista e metà carbonaio sopravvive solo nelle botteghe artigiane che, giocoforza, per un motivo o per 1’altro, non si convertono all’offset. Nell’industria editoriale l’autore è in istretta collaborazione con il grafico o designer. In alcuni casi il primo esprime un’idea, mentre il secondo la realizza in modo empirico. Il tipografo fototecnico, in questo caso, è solo un fotografo montatore di pellicole. Questo non toglie che lasci la sua impronta creativa nell’assemblaggio definitivo, come accadeva al tipografo compositore che disponeva, in base alla sua maestria, gli elementi di piombo nel mosaico progettato col menabò. L’espressione internazionale graphic designer si traduce in Italia: progettista grafico. Una professione moderna remuneratissima. Il designer inserito nel campo grafico conosce, anche se le vede solo praticare, tutte le tecniche e le caratteristiche della stampa offset.

L’artista sa quale ruolo importante assume il marchio nella grafica commerciale e pubblicitaria, per questo quando ne azzecca uno ricava proventi favolosi. Il marchio trae origine dalla simbologia grafica d’origine e si perde nella cosiddetta notte dei tempi. Il classico ideogramma si ricollega un po’ agli stemmi araldici, specie quelli relativi alla simbologia animale: aquile, draghi, leoni, ecc. I moderni marchi, invece, sono più orientati verso i segni fonetici relativi alle iniziali della ragione sociale della ditta che li rappresenta. Per la realizzazione grafica di un marchio i designer producono centinaia di bozzetti, eseguiti attraverso calcoli geometrici complicatissimi. Alla fine salta fuori un minuscolo monogramma dove un paio di lettere dell’alfabeto si intrecciano o si combinano tra loro, magari invertite in negativo o sapientemente incastonate in una gradevole quanto mai ambigua figura geometrica.

Solo cento milioni di lire, e il gioco è fatto!

L’ideogramma moderno, anche se contiene segni fonetici, è il simbolo di un messaggio strettamente connesso all’attività svolta dalla ditta che lo rappresenta. I marchi moderni, come la grafica in genere, abbandonano i vecchi canoni di disegno ornato per indirizzarsi sempre più verso 1’elaborazione geometrica, talvolta esasperata. La progettazione grafica moderna, oltre a considerare indispensabile nella composizione, la presenza di disegni e immagini fotografiche sempre più elaborate, tiene anche gran conto dell’aspetto significativo della struttura degli stili alfabetici, anche se spesso tende a camuffarli con alcune trovate di ambiguità grafica, spesso fondendo insieme 1’espressione alfabetica con quella figurativa. Alcune di queste forme di grafica esasperata vengono standardizzate e catalogate. Basta osservare la struttura di alcune serie di moderni caratteri tipo fantasia, dove ciascun segno dell’alfabeto contiene in sé una figura grafica che si ripete negli altri segni. (Vedi i cataloghi degli oramai tramontati trasferibili o degli attuali corredi da computer).

Già gli amanuensi tendevano ad ornare i simboli fonetici di frische frasche, meglio comprensibili come elementi aggiuntivi ornati fatti di angoli, spigoli e svolazzi di impronta floreale, fino a creare, con le capolettere, minuscole opere d’arte. L’invasione della stampa a caratteri mobili snellì la decorazione nei caratteri appannaggio della chiarezza della lettura. Fu il periodo Liberty a ridare grazie, codine e svolazzi ai caratteri, che attingevano nei motivi floreali; impronte a tutt’oggi esistenti in alcuni stili fantasia. Ma la grafica moderna fonda le sue basi nella priorità geometrica delle forme. La linea sconfigge la curva, e pensare che il vecchio materiale tipografico era svantaggiato dalle curve; oggi che la fotocomposizione ha superato questo scoglio, le curve sono in disuso. E’ proprio vero: Quando si hanno denti non si ha pane e quando si ha pane non si hanno denti. Oppure 1’altro proverbio che dice sapientemente: Al povero manca il pane e al ricco l’appetito.

La linea vince e, state tranquilli, non mi metto ad analizzare i motivi inconsci per cui gli architetti moderni tendono a squadrare tutto, le strutture architettoniche, l’arredamento, l’automobile, persino i suoi fari non sono più circolari. (si dice che nell’aldilà non esiste il cerchio, pure le pizze e i pneumatici sono quadrati). Ora stiamo ad attendere che nell’aldiquà facciano le lampadine quadrate… Ché la donna gia l’hanno squadrata, poi dicono che i ragazzi di oggi sono meno virili, forse sono solo meno stimolati, per l’eccesso di nudo, perché non si capisce che è il celato a stimolare e non lo scoperto. Diceva Andre Gide, intanto: Una gioventù troppo casta porta ad una vecchiaia dissoluta. E’ più facile rinunciare al «conosciuto» che al sempre «immaginato».

Il bisogno stesso di elaborare le fotografie facendole apparire sempre più dei disegni dimostra che ci si vuole a tutti i costi allontanare dai canoni artistici classici, là dove la fotografia è molto vicina alla pittura figurativa. Fin da quando lo stile Liberty suggerì l’elaborazione grafica del manifesto realizzato con la fusione di testo nell’immagine, si sono consolidati i legami tra grafica, pittura e architettura. Il manifesto, da un secolo, e il parametro dell’evoluzione artistica.

IL MANIFESTO

Il manifesto, dunque, ha sempre rappresentato il mezzo grafico più prossimo alla rappresentazione pittorica, imitandone forme artistiche e tecniche e persino il contenuto relativo ai messaggi delle varie branche della cultura. Al manifesto si ricollegano gli sviluppi compositivi tipografici dal secolo scorso sino ai giorni nostri. Infatti il più grosso degli stampati ha poco più di un secolo, e le ragioni di questa sua “giovinezza” sono da ricercare nella difficoltà, antecedente al secolo XIX, di realizzare grandi immagini tipografiche coi sistemi ripetitivi. Nell’accezione storico culturale del manifesto sono stati scritti diversi trattati che esaltano l’affinità pittorica, il valore grafico compositivo, la rilevanza storica e l’importanza relativa al messaggio commerciale. La ricerca artistico-grafica del manifesto, sempre d’impronta psicologica, fonda le basi sul binomio parola-immagine. Mentre, però, in genere, gli stampati pubblicitari, per così dire, da mano, sono spesso una riduzione spinta del manifesto, difficilmente, viceversa, si ottiene quest’ultimo da un ingrandimento, ad esempio, di una cartolina pubblicitaria. Ripeto, a proposito, che mai un avviso murale composto di soli elementi grafici fonetici, sebbene elaborati ed edulcorati da cornici e disegni messi li, a caso, può definirsi un manifesto, poiché il termine implica sempre, sin dalle origini, la metafora di un’idea, un messaggio, espresso essenzialmente da elementi figurativi. Quindi le mura di Torre del Greco, di Portici, di Torre Annunziata e di tutti i centri evoluti del circondario vesuviano, sono tappezzati di avvisi murali e qualche manifesto, che si vedono più di rado e sono quelli commerciali o politici che, attraverso una combinazione allegorica di testo-immagine, esprimono un’idea, un messaggio e non una semplice comunicazione più o meno abbellita da elementi tipografici prefabbricati. Al di là delle profonde analisi dei trattati settoriali sopraccennati, attinenti a dottrine artistiche, politiche e sociali varie, mi piace sottolineare, in questa sede, che lo sforzo di ogni operatore, sia esso lontano tipografo romantico o moderno designer, è quello di stimolare, in primo luogo, la fantasia e la sfera affettiva non solo individuale, ma relativa a quella sorta di personalità di massa degli osservatori. In più vengono adottate tecniche di contenuto e di forma atte a modificare l’assimilazione, come, ad esempio, nelle rappresentazioni teatrali o audiovisive vengono previste tecniche psicologiche analoghe, cioè pause o posposizioni onde consentire i commenti, le risate, le interiezioni della collettività implicata.

Così nella progettazione grafica si tiene conto di tutte le passibili reazioni psicologiche dell’osservatore. Spesso fanno gioco oltre la trasfigurazione allegorica e l’ambiguità del reale, 1’ironia, il paradosso, il grottesco, il desueto o, meglio ancora, l’originale e l’inedito. Dalla vecchia vignetta (da vigna, motivo floreale) caricaturale di stampo pittorico propria della litografia ottocentesca, si passa all’analisi psicologica, attraverso elementi grafici formati essenzialmente da un amalgama di artificiosità fototecniche: riprese fotografiche elaborate, scritte di tono invertito, spesso dirottate sull’inventiva desueta, puntando pure sullo stimolo che si ricava con l’irrazionale e la componente stupore. Pur se spesso si nota, come in tutta la grafica offset, una frequenza di moduli standardizzati. Trovano, intanto, soluzioni molteplici l’alternanza dei colori e le tecniche prospettico-tridimensionali.

I manifesti commerciali, anche grazie alla rivisitazione di certi canoni etico-religiosi, cadono spesso nel banale, nel mediocre della sensualità ridicola. Senza contare le trasgressioni lessicali o grammaticali volute. Gli esotismi, comunque, i solecismi, i dialettalismi, per altro diffusi dai mass-media, dalla stampa d’informazione e da una certa letteratura sperimentale, non hanno, tutto sommato, nulla di nocivo per un pubblico moderno ed erudito, che li sa riconoscere e valutare nella giusta ottica, ma che dirottano, nel contenuto, il discorso arte-cultura, prerogative da sempre sostenute dalle arti applicate. Cosa dire, poi, dei manifesti politici dove, molto spesso, d’arte non se ne sente neppure lodore? Nei lavori di correnti politiche cosiddette democratiche la nota artistica fa capolino di tanto in tanto, ma Dio ci scampi dai manifesti stranieri di regime totalitario, che insistono solo sugli slogans di partito e sulle tradizioni di folklore.

E’ interessante, comunque osservare i manifesti politici italiani del nostro dopoguerra fino ad oggi. Tutti hanno in comune lo scopo di solleticare la personalità di massa attraverso messaggi semplici, ma incisivi, che fanno vibrare le corde più vulnerabili della sfera emotiva dell’uomo. Per garantire una buona sintesi percettiva il designer sa bene che gli osservatori dei suoi manifesti non sono né bibliomani, né pinacotecomani, sia pure col suffisso fili, ma uomini cosiddetti della strada, intontiti dai clacson, soffocati dai gas di scarico, afflosciati dall’afa, mirmicolanti nella ressa. Almeno questa è la realtà urbana della cintura vesuviana, senza aggiungere il panico relativo al disordine pubblico, caratterizzato da scippi, rapine, estorsioni, problemi, comunque che, purtroppo, prendono dimensioni planetarie. In queste condizioni la percezione visiva non si assoggetterà mai ad una euritmia grafica complessa e da interpretare dietro canoni dottrinali settoriali, o ad una lenta riflessione, ma sarà di agevole assimilazione, soprattutto di contenuto ricco di significato.

Alle pendici del Vesuvio, come in ogni angolo del Globo gli individui sono tutti formati dietro gli avvenimenti dell’età evolutiva; al di là della cultura e delle tradizioni locali, ciascuno ha una caratteristica di ricezione percettiva diversa da un altro, realtà, a mio avviso, riscontrabile finanche intorno allo sterminator Vesevo, dove, ai giorni nostri, ciascuno sembra seguire una individuale filosofia, dissociata gradualmente dalla secolare napoletanità. Vi sono individui, ad esempio, che vengono colpiti da manifesti banali e di cattivo gusto e che rimangono insensibili di fronte al capolavoro di un provetto designer, e viceversa. V’è da dedurre che, a giudicare dalle influenze psico-evolutive infantili individuali e da quelle socio ambientali, certi moduli artistici, al contrario della matematica, restano sempre opinabili e discutibili, malgrado l’energia coercizzante di quei mostri spersonalizzanti che sono i mass-media, coadiuvati dall’edulcorata malia della grancassa propagandistica martellante. Altro che lavaggi del cervello. Difendiamoci timidamente con le fragili locuzioni: Non è bello ciò che e bello ma quel che piace; Dove c’è gusto non c’è perdenza; Ogni scarrafone e bello a’ mamma soja, eccetera, eccetera.

LA CULTURA NAPOLETANA IN PIENA ERA DELLA CARTA

Sono ormai lontani i tempi della priorità teofilosofica culturale che caratterizzava il periodo della nascita delle Università in tutta Europa. La cultura napoletana in seno all’Università di Napoli vede, alla fine del secolo scorso, sotto il Ministro della Pubblica Istruzione Francesco De Sanctis, personaggi come Settembrini, De Blasiis, Spaventa, ecc. Ma, a far ruotare a tutto spiano le pianocilindriche tipografiche furono personaggi come lo scrittore popolare Francesco Mastriani, con i suoi 115 romanzi, poco valutati dalla critica, ma di larga diffusione e Vittorio Imbriani, che si distinsero nel periodo letterario della fine del secolo scorso. Più in luce la giornalista scrittrice Matilde Serao, coi suoi famosi Ventre di Napoli e Paese di Cuccagna. Redattrice a Roma del Capitan Fracassa, seguì, poi le orme del marito Edoardo Scarfoglio col suo Corriere di Napoli e Corriere di Roma. Autrice dei noti Mosconi sul Mattino di Napoli, fondò infine Il Giorno.

Il tarantino Scarfoglio fondò Il Mattino e scrisse saggi e varie prose. Tartarin influì positivamente il suo allievo Roberto Bracco, valido critico e giornalista, sprovvisto persino di licenza elementare. Esempio emblematico di autodidatta, fu deputato e persino candidato al Premio Nobel. Alla fine dell’Ottocento Benedetto Croce partorisce la Critica Estetica, provocando una vera rivoluzione di pensiero filosofico-letterario. Fondatore della rivista La Critica, compose centinaia di opere tra cui spiccano La Letteratura

della Nuova Italia, Poesia e non Poesia, Storia d’Italia…, ecc. Pasquale Villari, alla fine del secolo scorso compose diverse opere di critica e di storia, altrettanto Ruggiero Bonghi che fondò, tra 1’altro, La Stampa di Torino. Studi di Storia Letteraria Napoletana e Manuale della Letteratura Napoletana, furono, invece, valide opere di Francesco Torraca.

Una specie di lazzarone letterato fu invece Ferdinando Russo, poeta dialettale di vivace realismo, come pure, anche se in maniera più pacata, Raffaele Viviani col suo teatro. Quindi Rocco Galdieri, che espresse nelle sue opere quel suo triste umorismo nel Monsignor Perrelli, pubblicato a cavallo fra i due secoli. Ernesto Murolo, invece, scrisse molte poesie in vernacolo, diverse delle quali furono musicate. Ancora Libero Bovio ed il crepuscolare Eduardo Nicolardi, nonchè il famoso poeta Giovanni Gaeta, altrimenti detto E. A. Mario, che scrisse La Leggenda del Piave e la canzone Balocchi e Profumi.

Dopo la Serao ritornarono a Napoli i tentativi ben riusciti di narrativa. Negli anni trenta Carlo Bernari pubblica I tre operai. Di Bernari sono Guerra e pace, Vesuvio e pane, fino al Foro nel parabrezza degli anni 70. Nel periodo tra le due guerre si distingue Anna Maria Ortese con Città involontaria, i racconti Angelici dolori, fino a Il mare non bagna Napoli, degli anni 50. Intorno al secondo conflitto mondiale il narratore napoletano di spicco è Giuseppe Marotta col suo famoso L’oro di Napoli, quindi Gli alunni del sole, San Gennaro non dice mai no, ecc.

Dopo la guerra esordisce Domenico Rea di Nocera Inferiore, con Spaccanapoli, Una vampata di rossore, ecc. Quindi Michele Prisco, di Torre Annunziata, coi famosi racconti dell’esordio La provincia addormentata, poi Figli difficili, ecc. Altro romanziere del secondo dopoguerra sarà Luigi Compagnone che esordì con La Festa, poi La vita nuova di Pinocchio, L’onorata morte, ecc.

Infine Mario Pomilio con Il testimone e Il cimitero cinese, L’uccello nella cupola, ecc. Vi sono molti altri intellettuali napoletani di rilievo nel campo della filosofia, della critica, del giornalismo, della filologia che, secondo me, vanno citati in trattazioni specifiche più ampie, di natura critica, antologica, storiografica, per cui discrepanze od omissioni spero saranno qui tollerate. Un ultimo autore contemporaneo, però, degno di menzione, è il poliedrico Luciano De Crescenzo, filosofo, umorista e scrittore di cristallina fattura, che insieme a tutti gli altri intellettuali napoletani, citati o meno, ha contribuito allo sviluppo dell’editoria non solo napoletana.

IL PREZZO DEL PROGRESSO

Anche l’industria italiana e, per conseguenza, quella napoletana, tende ad escludere la dimensione umana dalla produttività. Per fortuna nel Napoletano è ancora possibile intravedere l’aspetto umano del lavoro, nei centri storici, dominati dagli agglomerati di bassi, dove gli ultimi artigiani svolgono il loro lavoro a misura d’uomo, perché ancora operano in un contesto proletario e piccolo borghese, che condiziona il modo di lavorare e di vendere secondo le vecchie tradizioni, dove si ricusa l’impatto appena decennale di certi repentini stravolgimenti tecnicistici e consumistici sotto casa propria. Certi moduli edonistici tendono al convertimento, lentamente, come il tarlo fa col legno, o la goccia con la pietra, facendo leva sul martellamento pubblicitario legato al modello sociale planetario di benessere illusorio, attraverso espedienti come il risparmio ottenuto coi prodotti di serie, o l’adescamento dei supermercati, che eliminano perdite di tempo prezioso, utilizzato, poi, per i giorni di lotta, atta a procurarsi altro danaro, e… ancora risparmiare al solo scopo di rispendere. Un circolo vizioso come la tossicodipendenza, ma legale ed istituzionalizzato da cui nessuno, non solo non può, ma non deve sottrarsi.

Qualcuno dei tipografi che è riuscito a costruire il capannone, magari dietro un compromesso stipulato coi “fiori all’occhiello”, è finito forse ghettizzato in un lussuoso appartamento dei quartieri bene, europeizzato ed irrimediabilmente escluso dal calore della Napoli oleografica dove i sostegni psichici essenziali di solidarietà, di contatto umano, ancora si osservano nei mercatini rionali o quelli domenicali di Piazza Ferrovia, o di Poggioreale, nelle botteghe, nelle case-giardino delle vecchie costruzioni spagnole. Le stesse officine industriali dei quotidiani della capitale del sud hanno definitivamente visto dissolto il calore umano che esalava, all’unisono, dai precordi dei giornalisti e tipografi e dai crogiuoli delle linotype. Era l’ardere del piombo fuso ad accomunare autori e tipografi in una sola famiglia.

Le notizie sprigionavano anch’esse la soavità di una metropoli ancora lontana dalla giungla urbana, animata dalle Piedigrotte, dalle serene periodiche domenicali e dallo strabenedetto pane e ppummarole, e dal derivato sacrale ragù, o dalla defilippiana ritualità di pasta e fagioli o caffè che scendeva. Oggi pure i napoletani il caffè lo fanno salire per dimostrare che il mondo, nell’arco di pochi decenni, è cambiato da così a così, grazie all’indomita ascesa industriale. Nelle redazioni dei giornali, anch’esse linde ed asettiche come gli ospedali, il giornalista infreddolisce per 1’assenza dei crogiuoli, per la nefandezza delle notizie, per il suo esclusivo rapporto di lavoro con …il terminale.

Chi ha le tempie canute ricorda che il tipografo delle botteghe, nel dopo guerra doveva accontentarsi delle bruschette o delle marenne a base di melanzane a funghetti e friarielli, mentre quello che faticava al giornale poteva permettersi la fetta di prosciutto. Spesso i compositori o gli impaginatori dei giornali davano il loro diretto contributo ai pezzi di cronaca, perchè facevano da tramite tra ambiente popolare e redazione, suggerendo, tra l’altro, espressioni gergali, peculiarità caratteriali e comportamentali del popolo, sconosciute alla classe alto borghese dei giornalisti agiati di allora. Chissà chi furono gli informatori della Serao, forse la masnada di camici neri rattoppati e bisunti che la circondava. Quale tipografo artigiano negli anta può dimenticare le rasserenanti giornate di lavoro in queste officine grafiche. Lazzi, facezie, scherzi da prete e soprattutto spiccava quella sorta di paradossale religiosità nel turpiloquio, poetico, colorito, ilare, puerile ed innocente. Questi erano i soli delitti che si confessavano la domenica in chiesa. Dovevano pur farsi perdonare qualcosa, altrimenti i reverendi avrebbero rischiato la cassa integrazione.

IL SOGNO DEL GIORNALISMO

Le tipografie artigiane vesuviane che ancora realizzano nella maniera tradizionale le pubblicazioncelle locali pressate dalle ambizioni letterarie degli oscuri docenti di lettere, o dei cultori di sogni nel cassetto, o dei poeti del sabato sera di fama intercomunale, arrotondano il fatturato in un contesto lavorativo molto compromesso dall’offerta satura. Ebbene, io appartengo alla categoria di questi sciagurati sognatori, conscio, però, del carmina non dant panem, non solo, ma pure del nemo propheta in patria, poiché queste sporadiche mie esperienze scrittorie desuetamente autofabbricate in tomi, sono destinate, volutamente a non valicare il circondario urbano?. (Grazie a Internet questo dubbio dell’autore si è finalmente dissipato. Questo libro è continuamente scaricato dagli italiani di tutto il mondo. N.d.r.). Sono comunque solidale con tutti gli sventurati come me, e quasi mi rammarico del privilegio di poter prevalere, almeno quantitativamente, sugli altri, che la sorte non li ha voluti nemmeno bottegai tipografi. Comprendo, anche se non giustifico, coloro che non sanno valutare i propri limiti, e continuano imperterriti in questo cammino spinoso, attribuendo il loro insuccesso solo a fattori egemonici da circolo chiuso.

Oggi, più che mai, in tutti i settori umani, l’estetica prevale sul contenuto, questo tende a soffocare l’espressione popolare nell’arte scrittoria, ed è una discriminazione. Chiunque ha il diritto di esternare i propri sentimenti, anche al di fuori di virtuosismi dottrinari. L’importante è riconoscere la propria posizione e non ostinarsi ad apparire quello che si vorrebbe essere e non si è. Non è la semplicità d’espressione che è nociva, quando c’è contenuto, ma l’elaborazione culturale della povertà estetica ad alimentare il desiderio di abbarbicarsi verso i fastigi di castelli di cui non si è provveduto, negli anni, a mettere su con tenacia e abnegazione, dietro un allenamento estenuante, mattone su mattone.

Il primo giornale della storia fu quello prodotto dai Cinesi nel 400 d. C. Per la realizzazione della sua composizione venivano adoperati caratteri di terracotta, piombo e argento, e veniva stampato nientemeno che su seta. Fu il primo e il più longevo della storia. Nacque col nome di King-Pao, che tradotto significa pressappoco Notizie di corte. Nei secoli che seguirono la testata cambiò spesso, vale la pena citare solo una traduzione: Giornale del Celeste Impero. Gli storici dicono che nel XIV secolo divenne settimanale e nel XIX quotidiano, grazie, molto probabilmente, all’avvento della Linotype. Alla fine dell’Impero, nel 1912 fu soppresso.

Il giornale quotidiano si affermò nel XIX secolo grazie all’automatizzazione della composizione tipografica e delle macchine da stampa. In Francia il più diffuso dell’epoca fu la Liberte, che raggiunse le centomila copie al giorno durante la Rivoluzione. In Inghilterra ricordo il famoso Times; in Italia La Nazione di Firenze, Il Corriere della Sera di Milano, Il Resto del Carlino di Bologna, ecc. Giornale, è lampante, significa: raccolta di notizie del giorno, quindi: quotidiano. Ma in tutte le epoche si era gia trovato il modo di diffondere notizie scritte. In tutta Europa, già prima dell’invenzione della stampa, esistevano i cosiddetti novellieri, che trasmettevano notizie attraverso, appunto, le novelle. Esse venivano copiate a mano, naturalmente, e vendute come dei normali periodici. L’invenzione di Gutenberg trasformò queste novelle in veri notiziari. Si trattava di fogli stampati da un solo lato, contenenti un solo articolo per volta. In seguito vennero stampati pure sul fronte retro ed illustrati con le xilografie anche inserite nel testo. Fino a pochi anni fa l’architettura di una pagina di giornale era pressoché simile per quasi tutte le testate del mondo, perché il sistema era quello tradizionale dei caratteri di piombo meccanizzati da Mergenthaler. Infatti mentre compongo le parole che state leggendo, sbircio sulla sinistra della mia Linotype una targhetta con su inciso: Linotype Italiana S.p.A. – Milano, licenziataria della Mergenthaler Linotype C. – New York – USA. Le pagine di giornale, dunque, venivano fino a qualche decennio fa assemblate con piombo linotypico e cliché, sistema detto, oggi, a caldo, per distinguerlo da quello a freddo (in tutti i sensi) della composizione computerizzata e la fototecnica offset. L’elettronica ha messo la parola fine all’evoluzione più avanzata della scoperta gutenberghiana, dando il sapore di vetustà a processi di automatizzazione scoperti appena qualche decennio prima. Ma entriamo un po’ nella vecchia tipografia gutemberghiana ed in quella moderna.

Nell’officina giornalistica tutto deve procedere con la rigorosità simile a quella degli orari ferroviari. Non sono ammessi ritardi o interruzioni per nessuna ragione, ad eccezione degli scioperi… Nel sistema tradizionale, oramai scomparso, il proto smista gli originali da comporre e li invia ai vari linotipisti per la composizione del testo in colonne e le immagini alla zincografia interna per la realizzazione dei cliché di zinco. Le pagine vuote sono rappresentate da telai di metallo dove sono già disposte le composizioni fisse, ad esempio la testata del giornale, le pubblicità, ed altro. Una volta eseguite le correzioni delle colonne di piombo, gli impaginatori sistemano le stesse negli spazi preventivamente stabiliti dalla redazione per mezzo del menabò. I piccoli spazi vuoti si riempiono con brevi notizie, slogan, o piccole inserzioni pubblicitarie o di altra natura. Se il piombo in eccesso è poco allora si provvederà a ridurre lo spazio dalle colonne fra i titoli, fino all’estrema soluzione del taglio.

I titoli vengono composti a mano o anche con speciali macchine fonditrici dette monotype. La misura delle illustrazioni viene stabilita in colonne, come i titoli. Una volta assemblato tutto nel telaio, le pagine sono pronte per la realizzazione delle stereotipie di cui ne ho gia trattato il processo. Le stereotipie curve vengono montate sui cilindri della rotativa, composta da tanti gruppi stampa. Le più grandi consentono di stampare giornali di formato standard fino a 100 pagine, con una produzione oraria di 20-30.000 giornali l’ora, e scusate i costruttori se è poco. Il giornale, all’uscita dalla macchina, termina a mo’ d’imbuto per immettersi nella piegatrice abbinata, la quale provvede anche al taglio. Tutto avviene in perfetto sincronismo e ad altissima velocità.

Il secondo sistema a freddo quello adottato oggigiorno non è altro che quello offset da rotativa. La composizione è fototecnica. Il computer, dopo la battitura, elabora il testo secondo le necessità. Se lo scritto è lungo la macchina provvederà in un lampo ad accorciarlo riducendo gli spazi tra le parole o le interlinee o, meglio ancora, riduce il carattere provvedendo automaticamente alla divisione in sillabe, correggendo persino gli errori grammaticali e ortografici. Una volta realizzate le colonne ed i titoli fotocomposti si procede al montaggio sul tavolo luminoso. Sono già in uso macchine dedicate con cui èpossibile comporre le pagine intere su video che andranno direttamente in ouptput, che nel caso industriale si tratta di fotounità enormi ad altissima risoluzione.

I giornali illustrati, altrimenti detti settimanali, vengono stampati col sistema rotocalco che, circa le immagini a colori, si è rivelato idoneo alle altissime velocità. La progettazione di una rivista illustrata avviene in modo simile a quella dei quotidiani, ma richiede maggiore impegno a causa delle numerose immagini policrome. In più le stesse pagine passano almeno sotto quattro gruppi di diverso colore. Alcune riviste, comunque, non prevedono il rotocalco che non consente altissime definizioni, e vengono stampate col sistema offset, come pure gli oramai policromi testi scolastici, la migliore produzione libraria, le pubblicazioni a dispense settimanali, l’insieme di quelle opere, cioè, destinate a rimanere nel tempo. La stampa offset consente maggiori finezze di dettaglio, anche per la sua precipua caratteristica di stampa indiretta e, in complesso, la qualità generale è nettamente superiore ad altri sistemi basati per lo più solo sulle alte velocità produttive. Intanto le pubblicazioni editoriali non richiedono tempi di produzione brevissimi come accade per la stampa periodica.

Le riproduzioni a colori realizzate con le moderne attrezzature fototecniche e stampate in offset, raggiungono livelli cromatici e tridimensionali superiori a quelli delle immagini fotografiche originali da cui sono state riprodotte.

IL CONCETTO DELL’AMORE TEMA CENTRALE DELLA LETTERATURA

Prima di concludere il capitolo con alcune note sulla pubblicità stampata, su scala nazionale, divagheremo questa volta nientemeno che con una teoria sull’amore, così legato, da sempre, all’arte scrittoria e alla stampa. Visto lo spirito del libro, anche questa volta non desidero postulare nulla a nessuno. Si tratta sempre di osservazioni del tutto soggettive e non sottintendono nessuna intenzione di tono scolastico. Vi è un abisso tra la natura dell’amore e l’idea culturale dell’amore poliedricamente elaborata, a mio modesto avviso, naturalmente. L’amore, purgato di volta in volta dalle mode letterarie della storia lo conosciamo tutti. La psicologia moderna un bel mattino ha deciso di spogliare l’umano da molte croste culturali lasciandolo nudo nel suo stato primitivo di istintualità. L’animale uomo ha un istinto di conservazione personificato, modificato dalla cultura. Alcuni sono concordi nel supporre che tutte le invenzioni culturali sono delle difese dall’angoscia, connaturata negli animali ragionevoli, coscienti del loro destino di finibilità, non solo, ma di probabile assenza salvifica post-mortale. Ma al di la delle affermate teorie speculative o psico-scientifiche, il timore, o più semplicemente il senso di finire, è presente in ogni forma cerebrale.

L’animale, a mezza strada tra l’uomo e la pianta, vessato o recluso presenta gli stessi sintomi angosciosi dell’uomo ragionevole, che sfociano, a lungo andare, nel disequilibrio. L’appassimento delle piante è un chiaro esempio di deperimento fisico. Esse, istintivamente, (anche se la terminologia è impropria) nei loro limiti compiono ogni sforzo per riprendere vita e, nel caso di intervento dell’uomo o della natura, ce la mettono tutta per risorgere. Io suppongo che una forma iniziale di difesa, più comprensibile come senso di conservazione, sia presente gia nello stadio fecondo pre-fetale. La prima reazione ovulo-cellulare e quindi la difesa dall’estinzione, che si accentua mano mano con lo sforzo neo-fetale contro la probabile minaccia abortiva. La lotta con la finibilità, quindi, non e subito istintuale-cerebrale pre-post-natale, ma è già presente con la formazione delle prime cellule; diviene istintuale durante lo stadio fetale avanzato, e si consolida in quello neonatale, onde perpetuarsi nell’esistenza. Ma l’uomo, per sua sfortuna, e dotato di ragione ed ha inventato la cultura che complica per subito esorcizzare questi timori associati. Quindi alla difesa istintuale si aggiunge l’elaborazione culturale dell’idea di morte, caratterizzata dal timore di una probabile assenza salvifica. La confusione umana è concentrata nel sincretismo Dio-Amore – Dio-Punitore. In realtà l’amore non è il bene che dualizza il male, quindi Dio-demonio, ma amore come esorcismo della paura, non solo di finire, ma di rivivere, dopo, nella sofferenza.

Diremo, allora: Dio: idea della vita, demonio: idea della morte. A prescindere dalle teorie teofilosofiche millenarie, l’idea di Dio come garanzia di continuità e indispensabile agli animali dotati di ragione, sebbene la dottrinalizzazione di certi elementari concetti abbia generato maggiore confusione. Senza nulla togliere ai Padri della Chiesa ed ai teologi, e con tutto il rispetto per i credenti di ogni Confessione, i quali trovano serenità e sollievo, bisogna ammettere che Diderot non aveva tutti i torti quando disse che “…le religione annunciata in passato da ignoranti facevano milioni di credenti, predicate poi da dotti fanno solo degli increduli”. A prescindere dai quindici miliardi di anni luce che ci separano dall’ultima galassia sentita dalla terra (la Luna e a un secondo luce), la Religione è una grande realtà per lenire l’orrore della morte vista dalla nostra cultura, tranne due elementi comuni a molte Confessioni, che alimentano l’angoscia umana: l’idea dell’inferno e l’elaborazione culturale della sessualità ad esso relativa.

Metabolismo sessuale regolamentato, quindi compromesso nella sua biologica istintualità che, se non censurato o modificato nella sua appetibilità, sarebbe tanto più naturale e moderato, ed uno dei più idonei toccasana spontanei per scongiurare l’angoscia istintivo-culturale di finibilità, in ragione di abusi, pulsioni pluridirezionali, fino all’omosessualità, senza contare le pulsioni incestuose coatte, manifeste o inconsce; reati sufficienti per annullare la garanzia salvifica al di là da venire. L’eterosessualità, dunque, non condizionata dall’idea di peccato, che richiama subito l’inferno, è la più idonea equilibratrice della vita cellulare-psico-metabolica, connessa all’idea di Dio-amore, così, invece, irrazionalmente elaborata culturalmente, non altro che da fantasiosi bisogni di espiazione terrena.

Il suicida, molto spesso, ammazza se stesso per non morire! … Egli annega negli angosciosi sensi di colpa inconsci, cioè sempre indefiniti, quindi, nell’immotivazione, attribuita spesso ad ingerenze demoniache, vorrebbe uccidere un male senza volto, che in buona percentuale si rivela come consapevolezza celata in cantina, dell’elaborazione culturale: morte-inferno-sofferenza eterna, pregna di terrore, fulcro inconscio di tutti gli stati depressivi più a meno gravi. Nell’impotenza ansiosa il suicida ripiega, in alternativa, con il possibile annientamento della debole carcassa cerebrale, portatrice da anni, con alti e bassi, l’angoscia oramai incancrenita, tanto più coatta ed ossessiva perché inesplicabile in superficie, dietro l’esclusione di ogni possibilità di rimozione.

Il tema, sovente reiterato dell’insoluto esistenziale, non altro l’angoscia umana che ha origine direttamente dalla consapevolezza di finibiltà e probabile assenza salvifica, in base alle elaborazioni culturali di millenni, fu magistralmente generato dallo psicoterapeuta Luigi De Marchi, nel suo Scimmietta ti amo,, citato nella premessa, nella bibliografia e nella nota a margine d’essa, da cui sono stato sensibilmente illuminato e spinto a formulare, lungo il presente libro, alcune riflessioni, che partono dall’assunto del suo geniale saggio.

Amore e morte, Eros e Thanatos, i temi di base che hanno, direttamente e indirettamente, lasciato produrre all’umano milioni di libri stampati dando un sostenuto contributo allo sviluppo dell’arte nera in tutto il mondo. Le difese, (anche sotto le freudiane sublimazioni: artistiche, politiche, religiose, professionali, ecc.) sono molto spesso contrastanti, e vanno dall’annichilimento mistico alla violenza criminale, quando le si sostituiscono all’unico antidoto diretto alla paura esistenziale, cioè l’amore, (specie concretizzato nei contatti fisici, continuità della difesa uterina, catarsi fisiologica naturale) inteso come l’opposto dell’angoscia, quando esente dall’idea di peccato.

Dio e anche l’organismo che vive, la cellula che si riproduce nel disegno inesplicabile della natura e della creazione e bisogna sempre favorire questo processo anche nei suoi legittimi appetiti, foss’anche nell’atarassia epicurea. La morte – diceva intanto il filosofo – non e nulla per noi, perché quando noi siamo essa non c’è, e quando c’è noi non siamo pù. Dunque amore non come opposto dell’odio, ma come inverso della paura. Più è attenuato questo timore, più l’uomo è capace di amare. L’amore come salute mentale, che stabilisce il giusto compromesso con l’infernizzazione della vita.

L’idea di Dio anche in questa dimensione e utilissima per vivere in modo più sereno possibile, senza per nulla escludere la dimensione transumana. L’amore nell’accezione di fisicità, come inverso della paura, è essenzialmente quello per antonomasia, cioè l’eterosessualità. La proverbiale sicurezza del ventre materno avvezza specie l’animale uomo a scongiurare il timore di finibilità già nelle parti lubriche di questo grembo, che conservano tutte le caratteristiche delle mucose erogene freudiane. Da questo tipo di benessere-scongiuro si dipanano poi tutte le peculiarità della sfera affettiva, tenerezza, attrazione, affetto, compassione e pietà, proiettive e, talvolta, come la carità, prevedono un tornaconto salvifico. L’amore nudo, naturale, legittimo, non puramente animale, fuori d’ogni elaborazione culturale, compresa quella che leggete…, perché s’e avvalsa della corruzione dottrinaria per stare coi tempi, per esprimere concetti di un naturalismo preculturale.

LA PUBBLICITA’ SU SCALA NAZIONALE

Ed eccoci pronti a concludere il decimo capitolo, con un argomento meno teorico dopo una dissertazione così profonda. Gli avvisi murali, le locandine ed i volantini relativi alla propaganda commerciale locale, ancora sopravvivono nella cintura vesuviana, dove è sempre consentito imbrattare le strade, dietro esose tariffe, naturalmente. Questi stampati rappresentano un buon sostegno anche per le botteghe artigiane, meno care (grazie alla concorrenza) delle affissioni comunali. Per questi lavori come diciamo noi, sciué sciué, vi è quasi assenza di progettazione grafica. Tutto avviene nella dimensione del materiale tipografico o, al massimo, degli stereotipati assemblaggi fototecnici terra terra, emulanti, però, quasi sempre, composti originali già affermati della pubblicità, come dire, ufficiale, fatta su scala nazionale. L’applicazione della fotografia nel campo grafico ha ridotto fortemente l’uso del disegno e della vignetta. Anche perché diverse elaborazioni fotografiche come l’effetto grana, la solarizzazione, ecc. danno risultati tali, là dove il disegno puro difficilmente potrebbe arrivare.

Senza nulla togliere ai progressisti, (anche perchè io antiprogressista non sono se non nella misura di ciò che il progresso danneggia l’umanità), devo osservare che l’artificiosità dei mezzi moderni s’intona al clima ipocrita e doppiofaccista della società attuale. I prodotti, per lo più alimentari, spesso di coltura artificiale (e qui, consentitemi, la mia Torre del Greco e la cintura vesuviana non c’entrano, per una volta) vengono pompati da una pubblicità che soffoca scaturigini artistiche a misura d’uomo, ma sottolineano lo stereotipo delle macchine. Certo pure il nerofumo e le vernici sono dei mezzi, ma di origine vegetale e non certo sintetici come quelli moderni, ottenuti da precipitazioni chimiche inquinanti e nocive. In pratica l’uomo-natura trasformato in uomo-macchina si denota in ogni forma espressiva, pure quella artistica propriamente detta.

La cartolina pubblicitaria su scala nazionale non è altro, spesso, che la riduzione del manifesto murale. La ripetitività dell’immagine ha lo scopo di non tradire il moderno concetto propagandistico psico-stereotipico più comunemente conosciuto come lavaggio del cervello. Troppi interessi consumistici, checché se ne dica, sacrificano la purezza artistica della grafica moderna pubblicitaria. Oggi si deve parlare di una ben congegnata psico-grafica, quando ci si rivolge alla pubblicità su scala nazionale sia stampata che radioteleiconografica. E’ già lontano il tempo in cui l’espressione grafica si reggeva su canoni romantici, su di un’allegoria, seppur retorica, che assecondava, tuttalpiù, la tendenza pittorica del tempo. Nell’etichetta moderna, tanto per dirne una, spesso decorata direttamente sull’involucro del prodotto, vi è quasi sempre una fusione tra il logotipo o il marchio e gli elementi figurativi relativi al prodotto.

L’umanità geme, per metà schiacciata

sotto il peso dei progressi che ha fatti.

«Le due sorgenti della morale e della religione» – Bergson

CAP. XI

LAVORAZIONI AFFINI ALLE ARTI GRAFICHE

Che cosa e lavoro? E che cosa non è lavoro?

Sono questioni che lasciano perplessi i più saggi

fra gli uomini.

Bhegavedglta

LA LEGATORIA

La legatoria è un’arte antica; la cartotecnica, invece, è una branca moderna della legatoria. La prima è antica come la scrittura. Si è sempre trovato il modo di raccogliere insieme dei fogli scritti. La legatura classica ha avuto la sua fioritura nel medioevo; molte copertine di codici, perfettamente conservate, rappresentano delle vere e proprie opere d’arte. Questi tomi erano robustissimi, la facciata frontale era lavorata nientemeno che da artisti orafi ed incisori, quindi con metalli preziosi e talvolta comparivano incastonature di gioielli. I legatori, come gli amanuensi, erano anch’essi monaci, tanto per variare. Altre copertine venivano realizzate rivestendo sottili tavolette di legno invece del cartone odierno, con sete e velluti pregiati. Poi fu usato il cuoio e la pelle di lusso. La legatoria artistica ha avuto, in un millennio, diverse scuole, una per ogni nazione europea, prima e dopo 1’invenzione gutenberghiana. Cosi gli intarsi, le incisioni a caldo, le cesellature riflettono il periodo artistico e culturale.

Come è facile constatare, nelle librerie o nelle biblioteche, la legatura moderna spesso si riallaccia a certi stili d’epoca, a seconda del contenuto del libro. A parte questi casi sporadici 1’industrializzazione ha favorito il declino della legatura artistica durata fino al secolo scorso con l’alternativa delle semplici legature meccanizzate dell’industria moderna.

Le legatorie artigiane del Napoletano dispongono di poche macchine; distribuite a iosa nella località Corpo di Napoli: Mezzocannone, Benedetto Croce, Forcella, Via Nilo, spesso semiautomatiche e molte di esse vanno avanti grazie alle pubblicazioni a dispense e raramente praticano lavori industriali, tutt’al più legano le cinquecento copie del poeta del palazzo di fronte, il quale tormenta i poveri artigiani sino a che non prova l’orgasmo di avere tra le mani la prima copia del suo capolavoro che ancora esala profumo di resina. Per motivi di lavoro ho trascorso diversi anni in questa zona che è il fulcro della tipografia napoletana vecchia maniera, sia per la presenza dell’Università che per le librerie più famose. Molte altre botteghe sono dislocate lungo la cintura vesuviana: Portici, Ercolano, Torre del Greco, Torre Annunziata, Castellammare, Somma, S. Giuseppe, ecc. In queste modeste legatorie, sebbene si tratti sempre di lavorazione in serie, è la persona fisica a creare una sorta di catena di montaggio del libro.

Le legatorie industriali campane, invece, dispongono di macchine complesse, si tratta di combinate che raggruppano in un solo congegno meccanico piegatrice, cucitrice e tagliatrice, come le brossuratrici, le quali compiono il ciclo completo della legatura di un libro. Il dorso talvolta non viene cucito, ma rifilato e fresato perché la colla speciale penetri in più punti in maniera da rendere l’apertura più tenace. Il libro brossurato viene incassato in una copertina di cartoncino di media grammatura, come è ben noto a tutti coloro che hanno acquistato almeno una volta un libro delle collane economiche. Le legatorie industriali dispongono di tagliacarte trilaterali, i quali provvedono alla rifilatura dei libri intonsi in un solo colpo sui tre lati. Le copertine rigide in tela, o vilpelle, e talvolta di vera pelle o bazzana, sono riservate alle oramai esigue edizioni di lusso, opere importanti come enciclopedie di valore, pubblicazioni artistiche, e via dicendo.

I libri vengono stampati generalmente su fogli distesi nei formati 70 x 100 o 64 x 88; ciascun foglio, a seconda del formato della pagina, contiene otto, sedici o trentadue pagine. Nell’ultimo caso si provvede a stampare meta foglio, cioè 50 x 70 anziché 70 x 100 cm. per evitare fastidi di piegatura, o anche nei casi in cui non si possiede una macchina da stampa superiore alla metà foglio, come nel caso del libro che state leggendo, che è stato stampato in una pianocilindrica tipografica, otto pagine per volta, sulla metà del 64 x 88. Piegando il foglio sempre a metà risulta il sedicesimo del formato: 16 x 22, non rifilato. Ciascun sedicesimo che avrà la sequenza progressiva delle pagine, verrà cucito al successivo; quinterni, quindi, successivamente incollati sul dorso ed incassati nella copertina, nel caso di legatura semplice, come la presente. Il libro si rifila sui tre lati, ed è pronto per la lettura. Nel caso di copertina rigida esso verrà rifilato dopo la dorsatura e poi incollato nella copertina, non gia sul dorso, ma sui risguardi (primo e ultimo foglio di due quartini più resistenti) e la coperta.

Diremo, intanto, legare un libro e non rilegare, come fa l’artigiano quando ripara e riveste un vecchio libro. Alcuni volumi di lusso vengono dorati sui tre tagli, ciò per evitare l’infiltrazione di polvere, ma l’accorgimento serve più a migliorarne l’aspetto estetico e dare prestigio al prodotto. Il procedimento è sempre più in disuso, tranne che per una buona parte di agende personali di buona qualità con, appunto, il taglio oro.

Si sono molto diffuse, negli ultimi tempi, le moderne legature dette a fogli sciolti, che prevedono la foratura del dorso e 1’unione dei fogli con anelli sia paralleli che a spirale, anche se spirale non è ma ne ha solo l’aspetto. Questi tipi di legature, molto semplici e pratiche, non si addicono al libro propriamente detto, ma a pubblicazioni come appunti di studio, cataloghi, campionari, ecc. dove è consentita l’eventuale sottrazione o aggiunta di fogli per aggiornamenti o altri motivi.

LA STAMPA A CALDO

La decorazione dei libri moderni viene eseguita con la stampa a caldo, cioè col trasferimento di un pigmento colorato (prevalentemente oro) disteso su di un sottile nastro di cellophan “foil” e trasferito sulle copertine dei libri attraverso punzoni riscaldati. I punzoni possono essere sostituiti con i comuni clichè di zinco, il sottoscritto usa le stesse composizioni tipografiche a caratteri mobili. Nei casi di lunghe tirature ricorro alle lettere componibili di ottone, resistentissime al calore e all’usura. Ci sono diversi sistemi che consentono la «stampa a dorare», alcuni riguardano la punzonatura manuale degli antichi indoratori praticata irreversibilmente sui dorsi dei libri gia legati o rilegati in periodi precedenti la decisione dell’indoratura, con punzoni riscaldati sulla candela. Poi vi è il sistema più usato dagli artigiani legatori, che consiste nell’indorare attraverso presse a caldo simili a piccoli torchi azionabili da leve manuali. Il piano superiore contenente il punzone stretto in telaio si abbassa su quello inferiore, freddo, su cui è poggiato il supporto da decorare. I caratteri riscaldati premono sul nastro pigmentato interposto tra i due piani, cosicché il calore, sciogliendo il colore solo lungo i tratti del disegno o delle lettere, lascia nitida e brillante l’intera decorazione sul supporto. Io uso una macchina del genere per tesi di laurea e per decorare agende relative alla strenna natalizia.
Negli ultimi tempi si è diffuso un sistema completamente automatizzato, che comunque sfrutta il principio gutenberghiano della rilievografia. La stampa a caldo una volta interessava solo il settore librario, oggi sconfina in quello grafico ed in special modo in quello cartotecnico. Molti flaconi di plastica flessibile, astucci cartacei, oggettistica di fintapelle elettrosaldata, vengono decorati a caldo per la caratteristica di ottima brillantezza che consente il sistema sperie per i colori metallizzati. La stampa a caldo viene anche praticata su oggettistica promozionale di plastica, legno, tutti quei materiali, insomma, duttili al calore e non totalmente duri.

TOTONNO PALLAPPESE, TIPOGRAFO IELLATO

La sosta letteraria questa volta non ci induce a soggiacere spauriti sotto le occulte ed enimmatiche teorie come l’Eros-Thanatos freudiano, e via dicendo, ma ci invita ad una pausa distensiva, dove, comunque sesso e morte non sono esclusi, dal. momento che si parla di essere umani. Chi dovesse cogliere solo trivialità e scurrilità nell’argomento che segue e meglio che volti pagina, con tutto il rispetto per le sue idee. Ma credo che nessuno si scandalizzi con la storia di Totonne Pallappese, perché una cosa è la villania da portuale e un’altra l’umorismo erotico, anche se licenzioso. E poi, come posso ovviare al dato di fatto che tutti i colleghi tipografi della cintura vesuviana siano in un modo o nell’altro avviluppati nella problematica psicosessuale. Infatti il caso di Totonno è affine, anche se diametralmente opposto, a quello di Giorgio scarafone, precedentemente narrato.

La storia di questo tipografo vesuviano, la cui virilità, appunto ignea, si rivelava insufficiente, e patetica ed ilare nel contempo. Un giorno, nella mia bottega di Via Purgatorio dichiarò pubblicamente che la sua coglia fungeva da guanciale, oramai, alla sua mentula logorata ed in avanzato stato di atrofia, e gli epididimi completamente aridi come le dune del Sahara. Non sarebbe il caso di ironizzare, dileggiando un momentino il povero Totonno, ma il sesso e il peto sono i temi centrali dell’umorismo vesuviano, quindi prendiamo la cosa sotto l’aspetto del beneficio sociale di carattere evasivo a base di flatulenza e sessuomania.

Veniamo al sodo, anche se non sarebbe proprio il caso di usare questa frase fatta, perché Totonno pallappese veniva insidiato dalla consorte ventiquattrore su ventiquattro, non escluso le feste comandate, anzi. Lo possedeva fisicamente sempre e dovunque, molto spesso nella sua bottega, ad est del Vesuvio, contro le pianocilindriche, sulle pedane impilate, là dove definire ninfomania, quella della donna, equivarrebbe ad aggettivare piccolo l’Universo. L’ossessa, e non sono iperbolico, si rivelava un’autentica megagalassia erotica in espansione. E poiché non rientrava nel suo ordine di idee la trasgressione monogamica, essendo stata educata dalle teste di pezza, pretendeva il legittimo dovere coniugale solo dal malcapitato, minacciando, spesso, la richiesta d’intervento della Sacra Rota.

Quando, ahilui, mi vidi apparire sull’uscio della mia tipografia Totonno, pallido, emaciato, bacucco che più non si può, venticinque chilogrammi abito e scarpe compresi, prognosticai la, quando prima, raccolta dei suoi resti dal suolo, col cucchiaino, per dirla in gergo. Gli dissi che, purtroppo, era condannato a soccombere sotto un assioma legislativo. Nessuna normativa sociale planetaria si oppone all’ottemperanza del dovere coniugale del maschio, da secoli detentore di priorità erotica attiva, anche se in misura da sanatorio. Doveva agire d’astuzia. Una volta falliti anche i tentativi, suggeritile, della pratica onanistica o del bambolo gonfiabile, doveva inevitabilmente ripiegare con un cavillo da paglietta, diventare, ad esempio, pazzo, a cui tutto e tollerato.

«Con l’aiuto di Santa Veronica, protettrice anche dei tipografi, caro Totonno, dovrai divenire pazzo, e risolvi la cosa, tutto ti sarà consentito e tua moglie si guarderà bene dall’usarti violenza». «Io sono 1’unico uomo al mondo – rispose Totonno con un fil di voce – che non saprei simulare mai la pazzia, con tutta la debolezza che mi ritrovo addosso mi scapperebbe da ridere… No, non e cosa». «Non devi simulare la pazzia, Totonno caro, devi diventare pazzo sul serio. Lo so che non è facile, ma a parte il fatto che sei sulla strada, basta una spinta e ti verremo a trovare a Capodichino o ad Aversa». Totonno Pallappese al solo udire la parola spinta si afflosciò su di una sedia dietro il mio banchetto d’accettazione: «Solo una spinta ci vuole e poi esco dalla porta coi piedi avanti… No… io non discerno più, scambio i testicoli di ciuccio per lampadine elettriche e prendo le sputazze per monete d’argento. Sono un uomo finito, ormai. Mi sono rassegnato, mi piange il cuore, però, pensando ai ventidue figli miei, potenziali orfanelli».

Io postulavo la mia tesi e gli suggerii di coricarsi per qualche giorno, onde guadagnare la giusta energia per mettere in atto l’espediente, ma alla parola letto reagì con un mancamento. Non potevo usare parole come: letto, duro, seno perché si sentiva male all’istante. «Allora fai una cosa – insistevo – va’ in riva al mare e, ravvivato dalla brezza, mettiti a pensare all’Universo. Quante sono le galassie, Totonno? – L’uomo, o ciò che rimaneva d’esso, scosse la testa. – Sono migliaia – ripresi – se non milioni, o miliardi, chi sa. A che distanza da noi sta 1’ultima galassia sperimeritata dall’uomo? – Totonno Pallappese aveva dei lampi di luce negli occhi, poi delle contrazioni maxillo facciali, quindi i primi sintomi frenopatici. – Milardi di anni luce – aggiunsi. – Toto’ la chiave per diventare pazzo a breve termine è questa. Abbandonati a queste elucubrazioni, intensamente: cosa c’e oltre 1’Universo, ammesso che abbia una fine, e oltre 1’oltre cosa c’e, Toto’, e oltre 1’oltre dell’oltre cosa ci sarà mai?».
Questo episodio rivela un inedito. Nessuno sa che la barzelletta del pazzo e della mazza di scopa, fu ispirata dal caso di Totonno Pallappese, che da quando, quel giorno, l’accompagnai al pronto soccorso, non s’è più ripreso. Ma non mi sento colpevole per avergli insegnato il modo per imparare a volare, non già per tener fede al luogo comune che la pazzia è più vicina alla verità, o per avallare la tesi di Michel Foucault: Mai la psicologia potrà dire sulla follia la verità, perché è la follia che detiene la verità sulla psicologia, ma perché è meglio, tutto sommato, un pazzo vivo che un iper-eterosessuale morto. Avrei voluto dire, però, a Totonno, ma non feci in tempo, che avrebbe dovuto spogliare il suo stato dall’elaborazione culturale dell’idea di pazzia, che alimenta la stessa proprio con il timore diabolico esorcizzante che la gente mostra nei confronti di essa e che si riallaccia sempre al thanatos freudiano, quindi all’angoscia primaria dell’uomo. Avrei voluto dirgli, antifreudianamente, che attraverso laparadossale libertà della follia, senza, pero, l’angoscia culturale ad essa connessa, aveva adoperato la fuga dal sesso e non la sublimazione, per scongiurare l’angoscia della morte.

Avrei ancora voluto dire a Totonno che anche la solitudine, l’emarginazione, scevre da qualsivoglia elaborazione culturale angosciante, sono tollerabili, anche se mai consigliabili, perché eludono il concetto del sociale, quindi dell’amore come inverso della paura. Forse aveva ragione il filosofo quando diceva: Nulla accade a un uomo che la natura (e non la cultura) non l’abbia fatto capace di sopportare.

Appena Totonno Pallappese comincio la spola tra le case di cura, secondo la legge 180, la moglie prese i voti, ritornando alle origini di quelle che erano state le cause dei suoi disturbi sessuali. Ma se i familiari non avessero guardato con sospetto e timore Totonno, egli non avrebbe preferito il covo uterino dell’ospedale per una famiglia di spaventati, perché ancora immersi nell’ignoranza culturale medioevale. Totonno, per dieci anni, ha puntato un asse di scopa verso la Via Lattea all’alba e al vespero. Non ho mai capito se la sua fosse pazzia autentica o scaltrezza napoletana. Quando alla fine gli tolsi la scopa di mano per imitarlo, come tutti sapete mi rispose, come vuole la barzelletta: «Sono anni che non vedo niente io, lui se ne viene fresco fresco e vuole vedere».

LA CARTOTECNICA

Ai nostri tempi la cartotecnica si è scissa dalla legatoria a causa della crescente domanda di materiale precostruito, come buste, sacchetti, registri, rubriche, bloccame e schedame prestampato, scatole, astucci, e un’infinità di altri prodotti derivati della carta. Una volta la fabbricazione di buste e sacchetti avveniva a mano in botteghe artigiane. Solo qualche macchina semiautomatica contribuiva a snellire il lavoro di diecine di ragazze adibite a questo compito. Oltre alle buste, si producevano manualmente cartelline per atti, raccoglitori per documenti, custodie, quaderni, ecc., questo sino a qualche decennio fa. La cartotecnica ha raggiunto 1’entità industriale odierna anche dietro 1’esigenza di una società consumistica, che vuole selezionati e confezionati tutti i prodotti merceologici. La cartotecnica legata al settore commerciale produce astucci, involucri, sacchetti, tutti quei prodotti ottenuti con la trasformazione di carta e cartone. Gli astucci fustellati di cartoncino policromo prestampato vengono prodotti in misura notevole per tutti i settori merceologici, specie in Italia, dove anche gli alimenti devono far bella mostra di sé per trovare chi si interessi a loro. Questo è uno dei motivi perché anche in Italia si fa tanto abuso di medicinali.

Le industrie cartotecniche generalmente stampano in proprio i loro prodotti. In alcuni casi, invece, la cartotecnica è abbinata ad un’officina grafica il cui lavoro viene svolto in stretta collaborazione. Inoltre vi sono ditte che concentrano il loro lavoro su di un solo settore della cartotecnica, così abbiamo gli astuccifici, i sacchettifici, gli scatolifici, ecc. I grossi complessi industriali merceologici hanno in seno all’azienda tipografica la cartotecnica, ed alimentano direttamente il settore confezionamento dei loro prodotti. Non mi soffermo sui prestampati per ufficio, in pratica la cancelleria prefabbricata perché esula dalla cartotecnica, la quale si è inserita, invece, nel settore pubblicitario con la produzione di oggettistica cartacea, quali i calendari, le agende, gli elettrosaldati e tutti quei prodotti la dove vi è la presenza di carta e cartone. Le macchine per la cartotecnica sono tra le più svariate e numerose, come è facile intuire, visto la vastità di prodotti che interessa il settore. Le moderne macchine per la fabbricazione di buste in genere sono dei veri mostri produttivi, che compiono il ciclo completo di lavoro. Alcune macchine vengono progettate per la fabbricazione di un solo prodotto. Ma la principale macchina della cartotecnica è la fustellatrice.

Fustellare significa tagliare singolarmente in sequenza attraverso una lama sagomata secondo la forma di un disegno. A differenza del taglio lineare multiplo effettuato con il tagliacarte, che al massimo può eseguire un taglio trilaterale, di un blocco di carta. La fustellatura avviene per foglio singolo. Le fustellatrici in genere funzionano col principio delle platine tipografiche, infatti io fustello con una di queste macchine. Anche con le pianocilindriche di fabbricazione tedesca e facile fustellare pure i formati grandi. Basta escludere i rulli di forma e posizionare la fustella al posto dei caratteri tipografici. All’atto dell’impressione il cartoncino viene tagliato secondo la sagoma. La fustella ha l’aspetto di un clichè tipografico dallo zoccolo di legno ed al posto del rilievo zincografico emergono le lame taglienti. L’astuccio sagomato, secondo la preventiva progettazione, viene spogliato dallo sfido di contorno ed è pronto per divenire, con le pieghe, una scatola. Noi siamo abituati sempre ad accartocciare gli astucci usati e buttarli nella pattumiera, ma se proviamo ad aprirli con cautela, staccando qualche eventuale lato incollato, avremo sotto gli occhi un cartoncino disteso, sagomato soprattutto nei contorni, e noteremo che al centro della fustella erano state inserite delle lame dette cordoni, che solcano soltanto quei tratti la dove è destinata la piegatura. Alcuni scatolifici producono solo astucci, altri, scatole di vario genere, compresi quelli trasparenti in PVC o acetato, con o senza base vellutata. Tal’altri sono specializzati per la produzione di involucri o cassette di cartone ondulato, i quali hanno snellito e reso pratica ogni tipo di spedizione. La cartotecnica avrebbe avuto uno sviluppo maggiore se non ci fosse stato l’avvento della plastica, che ha in parte sostituito carte trattate e cartone, nonché molti materiali come, ad esempio, i manici dei timbri, tanto per rimanere in tema di arti grafiche. La plastica si è inserita nel settore cartotecnico per la produzione di rubriche telefoniche, custodie, copertine di ogni genere, portatessere, cartelle per atti, ecc. Prodotti che una volta venivano fabbricati rivestendo il cartone con tele o con carte trattate per la legatoria.

LE INVENZIONI …CULTURALI

Pian pianino mi avvio alla conclusione di questo viaggio con itinerario incerto e sregolato con voli pindarici, elucubrazioni e la massima eterogeneità di argomentazioni, però, misteriosamente connesse anche perché non ho compiuto nessuno sforzo per le cuciture e la continuità. Mi rendo conto di aver sfiorato argomenti che con le arti grafiche, sul piano pratico, avrebbero da spartire poco meno che niente, questo apparentemente; ma se si considera che la stampa tipografica, per cinque secoli, si è asservita parzialmente al business, ma essenzialmente alla letteratura, la quale è l’immagine speculare della ragione umana, allora si penserà non solo che vi è un nesso con le argomentazioni, ma si determinerà che l’arte applicata costituisce il braccio, e la cultura la mente dell’uomo. A prescindere dal sentore sincretico dell’affermazione che può cadere accomodante, una cosa è certa, che le arti grafiche rappresentano la concretizzazione più antica del pensiero umano, la materializzazione delle idee e il maggiore strumento di diffusione della cultura, la quale, sotto certi aspetti, è un mostro di traslazione più o meno astratta della realtà, ammesso che la realtà possa concretizzarsi nella dimensione umana della ragione, mai appagata sul mistero della vita e della morte.

La speculazione di pensiero ha messo su gigantesche impalcature inventive che, come torri babeliche, si propongono da secoli se non di risolvere, almeno di dare una dimensione razionale a ciò che si trova al di là della soglia della ragione umana. L’uomo non si rassegnerà mai della sua impotenza rispetto al mistero. Le più grosse invenzioni dell’uomo, dunque, sono proprio in seno alla cultura. Al di là della religione queste cattedrali assiomatiche si sono così incancrenite nei secoli, che la loro essenza è entrata a far parte delle cellule e dei geni.

L’incesto, ad esempio, era una cosa aberrante anche per Freud, come lo è per tutte le persone civili, come noi tutti; una più audace riflessione, però, ci chiarisce che esso, a prescindere dalle Sacre Scritture, è un tabù che fa perno anche sui problemi concezionali causati dai rapporti tra consanguinei, cosa che non inibisce gli animali non dotati di ragione e di cultura se non quella meramente istintuale, materializzata solo nel DNA.. Ma l’angoscia dell’uomo, legata al timore di una probabile assenza salvifica, è strettamente connessa alle pulsioni inconsce gia dalla “sessualità prenatale” lubrico-uterina e post-natale epidermico-mucotica del complesso rapporto mamma-neonato. Fisicità naturali ed innocenti che, elaborate e censurate poi dalla cultura, provocano negli immaturi, cioè i non domati, i più devastanti sensi di colpa che la sfera emotiva dell’uomo possa incamerare e sfociano inevitabilmente nell’unico drenaggio dell’angoscia, perché richiamano costantemente l’idea dell’inferno.
Le sospettate o coatte idee incestuose mai chiaramente manifeste restano quasi sempre istintuali e mai chiare pur se morbose, e deprimenti perché aberranti; ma nella quasi totalità dei casi i sensi di colpa relativi ad idee incestuose inesplicabili perché latenti, legate all’età evolutiva, non lasciano rivelare la loro natura in superficie e si manifestano come un’angoscia indefinita, precludendo ogni tentativo di rimozione.

Tempi duri per sublimare arti e professioni cosiddette nobili, o rifugiarsi nell’ascetismo, nella poesia, che quasi sempre riflettono l’infermità esistenziale. Il lavoro, vasto terreno di sublimazioni della massa, atto a scongiurare la problematica esistenziale approfondita, viene compromesso dall’alternativa robotica. Il lavoro a misura d’uomo, spersonalizzato sul parametro del potere economico, assorbe l’energia mentale al popolo onde garantire il supporto per reggere i compromessi psichici con la realtà esterna.

Altre invenzioni culturali sono quelle relative alle idee della bellezza e della ricchezza, che condizionano l’esistenza di miliardi di persone, pur appartenenti alla priorità numerica. Se si tien conto che la massa planetaria è in netta maggioranza non bella e non ricca, non è vero, allora, che sempre la maggioranza vince, forse non vince quasi mai. Ma il bello e il successo sono un potere caduco, e oltre a ledere i brutti e i poveri, finisce, in fondo, col danneggiare i propri detentori, che, se non compiono sforzi sostenuti onde evitare il decadimento, finiscono col cadere in un’angoscia maggiore. Diceva Daniel Mussy: La bruttezza ha un vantaggio sulla bellezza, dura per sempre. Io aggiungo pure la povertà.

Un’altra elaborazione culturale di un’idea, nel maschio, e il concetto dell’eroe, molto diffuso nella terra vesuviana, portato su nel tempo dai lazzaroni prima e dai malavitosi loro discendenti, dopo, si rifà ai moduli. classici della letteratura romanza e provenzale. Concetto esportato anche nel Nuovo Mondo, dove si può attingere dalla letteratura western. Oggi, grazie a Dio, il concetto dell’eroe e stato rivisitato in chiave psicologica. Gia i napoletani meno incoscienti, non codardi, beninteso, hanno sempre detto: “Il miglior guappo e quello che torna a casa”. L’eroe è tale solo se inconsapevole. Solo un soggetto condizionato dall’opinione altrui e dotato di una buona dose di incoscienza rischia la vita per un ideale le cui basi perdono acqua da tutte le parti. Non è vero che l’eroe non si ama, egli trabocca di amor proprio a tal punto da sfidare la morte, quasi sempre convinto di cavarsela perché obnubilato dall’orgoglio; ma da una confusa valutazione di se stesso, perché ignora la propria potenzialità umana se non nella misura dell’irruenza e dell’irrazionalità. Un uomo equilibrato, legato ai mille interessi che la vita gli ha proposto non rischia di morire solo per tener fede all’elaborazione culturale di un’idea. Diceva Pirandello: E’ più facile essere un eroe che un galantuomo, eroe si può essere una volta tanto, galantuomo si dev’essere ogni giorno. Nella cintura vesuviana, come in tutto il sud, il concetto dell’eroe e anche strettamente connesso alla virilità maschile.

Alle donne, per contro, vengono concesse tutte le debolezze e le paure, più che in ogni altra parte del globo. Anzi, il coraggio e l’intraprendenza in una donna sono sintomi di mascolinità. Il maschio vesuviano che non si difende dalle minacce ingiuriose o, semplicemente dal dileggio sente non solo di perdere la dignità, ma vede compromessa la propria virilità sedicente ed ostentata sin dall’infanzia come per scongiurare ogni sospetto. L’obnubilato subito annulla l’istinto di conservazione, nonché affetti, averi, timori di assenza salvifica e si precipita come un kamikaze sulla nave dell’incoscienza. L’atteggiamento è modificato, però, nei casi di vis-a-vis, questo dimostra come gli occhi del mondo e l’opinione altrui influiscano sulla nostra esistenza. Anche, soprattutto, nella corsa al successo tradotta in potere-danaro. Non desidero far passare per caratteriali delle condizioni mentali presenti in molti gruppi sociali, voglio solo sottolinearne la frequenza, a costo di essere tacciato, dai miei cari circumvesuviani, di psicopatia, bruttezza, codardia, che giustificherebbero il movente delle considerazioni esposte.

I TIMBRI

L’ultima nota tecnica di questo lavoro riguarda la fabbricazione di prodotti abbastanza a margine delle arti grafiche, ma che ne assumono molte peculiarità. Non tutte le botteghe artigiane si cimentano nella fabbricazione di timbri. Il motivo del dissenso è poliedrico. Alla base vige il convincimento che la produzione di timbri non eseguita a tempo pieno rappresenti una perdita di tempo prezioso da sottrarre ad operazioni più remunerative. Intanto il sistema classico per la produzione dei timbri ne prevede una quantità minima per giustificare la convenienza economica in relazione al lavoro da svolgere, che resta quasi immutato rispetto ad un numero esiguo o nutrito di timbri da realizzare, perché le fasi di lavorazione rimangono invariate, indipendentemente, appunto, dalla quantità di timbri. La composizione linotipica non fa pesare nemmeno alla mia persona il numero delle righe destinate alla trasformazione in gomma. Bisogna confessare che noi altri fabbricanti di timbri ci strofiniamo le palme delle mani in vista di leggi e riforme di natura fiscale, perché in quelle occasioni sforniamo, è proprio il caso di dire, centinaia di nuovi timbri. A sollevare la precarietà stagnante delle botteghe artigiane di provincia è proprio tale mago della pioggia, concretizzato nei provvedimenti legislativi, riforme fiscali o sanitarie, consultazioni elettorali, ecc. In questi casi la bottega artigiana concentra l’attenzione sulle richieste del momento, vincendo un po’ la precaria situazione delle commesse legata ad una domanda sempre più labile, riscattando, infine, anche se per pochi giorni da leone, la dignità professionale, compromessa dalla concorrenza nei tempi di magra.

Un altro momento buono, per le botteghe artigiane e la primavera. Almeno nella mia Torre del Greco, marzo è provvidenziale per i tipografi. Gli sposi, sortiti dalle loro tane compaiono, sebbene incerti, sull’uscio della bottega, già spalancato al primo tepore di primavera. Quando i colombi sono accompagnati dai genitori, allora la scelta delle partecipazioni si tramuta in una vera farsa. E’ oltremodo malagevole conciliare le parti. Si troverà la mamma di lei, professoressa di lettere, che esigerà il carattere stile inglese, mentre la genitrice di lui laureata in informatica, preferirà il carattere byte dei display. In alcuni casi la controversia origina una vera e propria guerra fredda. Le suocere, indispettite, ragionano oramai per partito preso. Tutto ciò che va bene ad una fazione, inevitabilmente va male all’altra. Immaginate dieci persone agitate, accalcate in quei due metri quadrati di pavimento che dispongo all’ingresso, innanzi al banchetto di accettazione. In breve si odono mugugnii e ciancicherie. Non è raro che i Montecchi e i Capuleti comincino anche a trascendere verbalmente; in qualche raro caso si è verificata una vera e propria rissa, in qualche caso cruenta, dopo di che i colombelli, per quanto mi risulta, non si sono mai più uniti in matrimonio.

I timbri e le targhe provengono quasi sempre dalla stessa bottega artigiana, almeno nel Napoletano, sebbene siano prodotti rispettivamente con attrezzature per nulla attinenti tra loro. Ma come tutti i sistemi di lavorazione pure i timbri e le targhe sono indirizzati verso processi di fabbricazione trasformati o diversificati. I timbri, ad esempio, sono stati sempre ottenuti con la realizzazione di una copia in gomma della composizione tipografica, in pratica il processo stereotipico ampiamente descritto in precedenza. La composizione tipografica, stretta ed impugnata, è essa stessa timbrabile, pur se rigida, analogamente il cliché di zinco. Se montiamo su di un’impugnatura una piccola composizione tipografica od un cliché abbiamo ottenuto un rudimentale timbro di metallo come quelli che si usano in banca o alla posta, destinati a durare nel tempo. I timbri di metallo richiedono, però, un piano morbido per ottenere una timbratura uniforme. La cosa si ovvia con l’utilizzo di un rettangolo di feltro o di gomma disposto sotto il foglio da timbrare. Questo accorgimento permette di ammortizzare la pressione irregolare che esercita la mano dell’uomo, in più consente la leggera impressione, caratteristica della rilievografia. Non sempre, però, si dispone di feltro o gomma, quindi si pensò di invertire i fattori, si lasciò la scrivania dura e si rese morbido il timbro.

Se i cliché, in passato, anziché di zinco l’avessero potuti realizzare in gomma a copiatura vulcanizzata dei timbri da una composizione tipografica, non sarebbe sussistita. Anche se in ritardo, oggi questo è ccaduto. Con le sostanze fotopolimeriche morbide èpossibile fabbricare timbri di ogni genere, compreso quelli figurativi, la dove, col procedimento tradizionale, necessita il cliché di zinco. La pellicola negativa di ciò che deve divenire timbro, la si mette a perfetto contatto con la lastra fotopolimerica morbida presensibilizzata, (oggi in resina liquida che si solidifica durante il processo), indi la si espone alla luce attinica ultravioletta. Dopo pochi minuti la lastra viene immersa in acqua tiepida per essere spazzolata fino a che le parti non colpite dalla luce, ancora solubili si sciolgano, lasciando affiorare solo il rilievo delle lettere o dei disegni costituenti i vari timbri, da tagliare e montare sui manici.

LE TARGHE

L’incisione è una tecnica scrittoria molto antica. Lo sviluppo del sistema, però, si è avuto con l’avanzare della meccanica nei secoli scorsi. Furono così ideati e realizzati dei pantografi a copiare, completamente evoluti con l’avvento, poi, dell’energia elettrica, quando queste macchine furono motorizzate. Le targhe, ancora oggi, vengono in parte incise con pantografi manuali, e la copiatura da matrici sistematiche, cioè piastrine di metallo su cui sono stati preventivamente incisi i solchi delle varie lettere dell’alfabeto. I pantografi semiautomatici, automatici fino ai modernissimi modelli elettronici interfacciati al computer, che non si sono ancoradiffusi in maniera capillare.
Col sistema tradizionale le lettere-matrici, generalmente di ottone, vengono disposte nel compositoio secondo le diciture da incidere. Il compositoio viene fissato al pantografo sotto il dito guida. Tutti sappiamo cos’è un pantografo da disegno, quindi è superfluo spiegarne il principio di quello per incidere che è pressoché uguale solo nel principio. Quello per incisione è realizzato in lega, e le sue parti mobili vengono montate con una precisione meccanica che rispetta il millesimo di millimetro, ciò, innanzitutto, per garantire la regolarità dei solchi eseguiti dalla fresa. Il dito guida provvede a scorrere nei solchi delle matrici disposte nel compositoio. Dall’altro lato la fresa compie gli stessi identici movimenti penetrando nel supporto da incidere con un sistema di discesa a regolazione micrometrica. In più vi è la possibilità di ridurre (qualche macchina, come quella che adoperi io, consente pure l’ingrandimento) la dimensione delle scritte composte, attraverso, come è noto, la regolazione dei bracci meccanici, servendosi delle scale graduate.

Le targhe comuni sono realizzate in ottone, alluminio, plexiglas, ecc. Alcune sono guarnite da cornici fuse prefabbricate in serie, altre sono trasformate in ovali convessi, in rettangoli con bordo, ecc. I caratteri sono limitati rispetto ad un campionario tipografico. Oltre le comuni serie di bastone condensato, normale od espanso, gli incisori napoletani dispongono appena dello stile inglese e del gotico. Caratteri speciali o disegni vengono realizzati attraverso la copiatura da un clichè tipografico negativo che si adatta al dito guida, cosi pure per realizzare disegni.
La fresa-pantografo interfacciata al computer non ha nessuna limitazione grafica e consente di riprodurre sui supporti qualsiasi elemento grafico, nessuno escluso, sempre, chiaramente nella dimensione del pluri-monocromatico.

Le targhe di plexiglas sono le più diffuse poiché questa materia non richiede manutenzione dall’intestatario. L’incisione avviene a rovescio, nella parte posteriore della targa vista di prospetto. L’ottone ed altri metalli, benché trattati con vernici protettive, prima o poi vanno soggetti ad ossidazione, quindi richiedono se non rispazzolature, almeno lucidature manuali con i comuni prodotti adeguati. La realizzazione di una targa non è un lavoro da sottovalutare poiché, come tutti i lavori grafici, come dire, di presentazione, riflette la personalità, il gusto, la professionalità del suo intestatario. Coloro che realizzano targhe dovrebbero essere in possesso delle medesime cognizioni grafiche di un buon tipografo: senso delle proporzioni, gusto, grazia, equilibrio, in una parola: l’euritmia. Ma ciò non accade sempre. Molte targhe vengono esposte liberamente, nella terra vesuviana, anche quando rappresentano degli aborti di composizione grafica. Infine, per concludere, bisogna dire che molte targhe, specie quelle di grande formato, o quelle prodotte in serie, vengono realizzate in serigrafia, con ottimi risultati, anche perché si possono ottenere maggiori finezze di dettaglio, più combinazioni di colori, e la realizzazione di immagini. L’applicazione di prodotti ad intaglio si è rivelata utile per targhe di grande dimensioni, anche se si prende in prestito una tecnica che è specifica per le insegne.

IL LINGUAGGIO OSCURO NELLA LETTERATURA

E così, pagina oggi, pagina domani, tra un avviso di lutto ed una partecipazione di nozze, sono arrivato al termine di questo particolare zibaldone. Tenterò ancora l’ultima divagazione, anche se gli argomenti umanitari esposti con linguaggi moderni finiscono con l’apparire freddi ed asettici anch’essi. Soffermiamoci, appunto, sui linguaggi settoriali, i quali rappresentano un problema per gli stessi linotipisti o fotocompositori, un po’ come le lingue straniere, e ripetiamo pure la massima di Rene Clah: “Diffida dell’uomo e della sua mania di fare nodi”. Una delle tante cause che hanno riallontanato l’uomo medio dalla lettura in genere, creando ostacoli allo sviluppo delle Arti grafiche, è la deliberata ricerca del gergo complicato di molti scrittori sia di testi letterari che tecnici, al di là della prosa sperimentale, della poesia ermetica e della stessa critica letteraria, la quale, a mio modestissimo avviso, serve solo, nelle prefazioni di libri delle collane economiche, a scoraggiare in primis l’uomo medio dal proseguimento della lettura del testo, per la massiccia macchinosità del linguaggio con articolazioni concettuali che definire complesse, intrecciate, astruse ed arzigogolate, e come dire facile 1’arabo… (Senza nulla togliere alla inconfutabile maestria artistico-intellettiva, se pur elitaria). Sara forse l’antica necessita di apparire dotti a tutti i costi, elevandosi a ranghi superiori atraverso una scrittura talmente adulta, che per essere compresa si dovrebbe stare dopo la vita, dove tutti gli enigmi vengono chiariti, almeno presumibilmente.

Spesso ci si trova di fronte ad una scrittura che va al di là dell’aulicità delle dottrine regolate da schemi comunicativi particolari. Ciò compromette, senza dubbio, la chiarezza e l’intellegibilità. Ma il virtuosismo rasenta il sortilegio ed ammalia sé per primi, tanto che pure il sottoscritto, modesto bottegaio tipografo dal colorito olivastro, con gli abiti unti e sdruciti, risente il fascino arcano e ne cade nella malia, incapace di sottrarsene come Ulisse dal coro delle sirene, formulando dottrinarismi e astrusità anche in questo libro per il desiderio irriducibile dell’uomo, eterno bambino, dell’ammirazione, di una sorta di potere che gli altri non hanno. Ma talvolta certe pagine indovinate, anche se sature di tecnica anche contrapposte a pregnanza poetica o a gradevolezza prosastica provocano musicalità ed esaltazione all’autore stesso che vspera di trasmettere queste senzazioni negli altri, spesso in buona fede. Cert’è che la verbosità pomposa del linguaggio, l’uso continuato di neologismi e termini rari sfociano inevitabilmente nell’oscurità concettuale, a prescindere dalla dialettica o dall’ermetismo. E’ peggio che dottrinalizzare il testo con numerose locuzioni latine e proposizioni di lingua straniera, perché ciò, almeno, è lessicamente traducibile.

Questa necessita di oscurare il linguaggio nasce, in altri casi, invece, probabilmente da un bisogno di sopraffazione mestierante, che utilizza tecniche e trucchi settoriali ad uso egemonico ed intimidatorio. Si tratta, d’altra parte di espedienti antichi, adoperati gia da scribi e sacerdoti, che articolavano costrutti ambigui conformi al mistero ed al proibito, per incutere stupore, timore e soprattutto ammirazione. Come se non bastasse, l’italiano d’oggi è una lingua anche purgata dall’invasione della terminologia angloamericana e dagli stranierismi europei, nonché dalla proliferazione di sempre nuovi termini scientifici, non solo, ma dallo sviluppo camaleontico del gergo giovanile. Alcune parole assumono significati diversi non già nell’arco di qualche decennio, ma di appena un biennio o meno.
Pasolini già negli anni sessanta diceva che il nostro era diventato un italiano tecnocratico e strùmentalizzato, a prescindere, chiaramente, dalla sperimentazione del linguaggio gergale della sua dilogia che rimaneva fine a se stesso. Così leggiamo: cosificare e cosalizzare per: trattare come una cosa; gambizzare per: ferire alle gambe; invarianza per: costanza; lupara bianca vuol dire omicidio con volatilizzazione di cadavere; mainframe: grande calcolatore; Nientologo e tattologo come: pseudo onniscente; palista: chi possiede un televisore col sistema PAL; picista: iscritto al P.C.I.; pule: poliziotto, ecc. ecc. Invadono gli stranierismi: medicult: cultura media; eskimo: giaccone tipo eschimese; pop singer: cantante popolare; kitsch: cattivo gusto; strech: minigonna elasticizzata; comics: fumetti; dream car: automobile di sogno, ecc. ecc.
Queste cause, gli audiovisivi, fiction, ecc., hanno dirottato le Arti Grefiche verso il commerciale, hanno contribuito ad abbassare il già scarso interesse degli italiani per la lettura, che non è più stimolatrice della fantasia, ma provocatrice di sforzi interpretativi infruttuosi risolvibili solo con l’alternativa di avere più tempo e pazienza per aggiornamenti settoriali e lessicali. Tempo e pazienza, ciò che 1’uomo moderno non ritroverà forse mai più.

Non sempre ciò che viene dopo è progresso.

«Del romanzo storico» – Manzoni

CONCLUSIONE

La lunga chiacchierata a senso unico del vostro modesto bottegaio tipografo si conclude con questi ultimi righi, composti col piombo fuso ideato da nonno Gutenberg. Riconosco che ha influito sul testo pure la componente nostalgica della mia trascorsa età giovanile, e la visione, in chiave psicologica, del caratteriale vesuviano, da un’ottica, chiaramente, soggettiva ed opinabile. Devo, a proposito, aggiungere che, se pur vi è sentore di dissenso o aria di polemica, tutte le considerazioni esposte sono state formulate in buona fede, perché, anche se in maniera desueta ed un tantino apprensiva, non ancora panica, celano una incommensurabile dichiarazione d’amore al mio popolo, che mi dispiace veder mutare sotto le pressioni negative della società.

Gia s’avverte l’intolleranza massificata verso la già, per certi versi, nociva civilizzazione, per dirla col padre della psicoanalisi. Questo non toglie, dunque, che al di là dell’oggettivo si può riscontrare lungo il lavoro una sorta di risentimento personale caratteriale (oltre le eventuali discrepanze e contraddizioni, proprie, comunque dell’uomo comune, fuori dai partitopresismi, caduco d’incertezze e dubbi), un desiderio vago, cioè, di rivalsa inconscia, perché a tutti gli uomini la maturità intacca il primo candore puerile, ed ognuno sente il bisogno di riscattare questo torto ricevuto da tutti e da nessuno. Bisogna tener presente che, tutto sommato, a prescindere dalla minoranza dei popoli ancora oppressi, le masse, oggi, sono governate in maniera, se non ottimale, senza dubbio tollerabile, facendo perno, in linea di massima, sulla grande conquista planetaria in materia di diritti dell’uomo. La crisi, secondo me, non è da ricercare nelle istituzioni politiche, religiose o culturali in genere, che, malgrado ingerenze di varia natura, tentano di fare del loro meglio, anche se apparentemente, in modo tendenzialmente dissacratorio, si è portati a pensare il contrario; ma nell’individuo, oggi più che mai ossessionato dall’intensificarsi dell’ansia relativa all’insoluto esistenziale. Caratteriale che induce all’isolamento affettivo non solo nel contesto urbano, ma nelle mura domestiche, Ogni individuo che attraversa questo stadio costituisce un virus, che insieme agli altri, quando non si riscontra il crollo individuale, rappresentano la cancrena, altrimenti detta nevrosi di massa, senza voler ancora pensare alla psicosi collettiva. Questo fenomeno moderno, quando si supera la politica dello struzzo, è misurabile attraverso le tonnellate di psicofarmaci venduti nel mondo, senza contare la droga e l’alcool. Le statistiche, a riguardo, fanno rabbrividire. Una rancida massima dice: “Tutto si compra col danaro, l’amore solo con l’amore”. Non se ne coglie retorica quando si parte dal presupposto che l’amore e l’inverso della paura e suo scongiuro, oggi più che mai, nella storia dell’umanità.

Durante i cinque secoli di stampa a caratteri mobili, numerosi sistemi paralleli all’invenzione gutenberghiana sono stati sperimentati e messi in opera per coesistere, perché ciascuno dava la risposta ad un’esigenza particolare, ad un’utilizzazione specifica che prescindeva o pertingeva l’arte scrittoria; ma dopo cinque secoli molte tecniche, ed in ispecial modo quella tipografica propriamente detta, diventano, insieme alle loro attrezzature, argomento storiografico e materia da museo, ad appena pochi decenni dal loro massimo perfezionamento. La stampa a caratteri mobili, legata da sempre ad opere letterarie, vuoi teologiche, filosofiche, poetiche, narrative, scientifiche e giornalistiche, a mano a mano si sviluppava, risentendo l’espansione demografica e l’alfabetizzazione, favorendo l’evoluzione dell’editoria. Il progresso industriale legato al consumismo edonistico e quello scientifico del XX secolo hanno dirottato l’indirizzo dell’ arte nera, dall’alfabeto alle cromotipie tetrabasilari relative ai prodotti commerciali, moltiplicando a dismisura i supporti di informazione visiva, dalla pubblicità rotocalcografica a quella da contenimento, come astucci, flaconi, carta da imballo, sacchetti, scotch adesivo e via discorrendo. La scriptura artificialiter si è irrimediabilmente diversificata adattandosi alle nuove tecnologie ed ai moderni prodotti oggettuali da decorare, per non soccombere sotto la crisi editoriale e i concorrenti mass-media di natura elettronica. Nel 1450 Gutenberg inventò la stampa a caratteri mobili destinata a rendere veloce non già la formazione delle pagine, ma la copiatura di esse una volta ultimata. Sistema prioritario per cinque secoli, coadiuvato da tecniche parallele per la riproduzione veloce di immagini, la vecchia xilografia e la calcografia, le cui preparazioni delle matrici, compreso il sistema gutemberghiano, risultavano procedimenti lenti e laboriosi.

Nel secolo scorso i caratteri mobili venivano meccanizzati, le macchine tipografiche godevano della totale automatizzazione, migliorate dopo l’avvento dell’energia elettrica. La scoperta del clichè tipografico, infine, costituiva l’ultima pietra miliare di una strada che sarà subito devastata dall’elaborazione di due vecchie tecniche in letargo da secoli, la litografia, perfezionata in stampa offset, e la calcografia, valorizzata in stampa rotocalco. La stampa offset, più del rotocalco, grazie alla massiccia varietà d’impiego, rappresenta, oggi, grazie pure all’elettronica ed all’informatica, la vera rivoluziane di tutti i sistemi, universalmente accettata quale procedimento planografico duttile, poliedrico e soprattutto veloce, conforme, cioè, alle esigenze, non alle necessita, di una società che corre per il solo scopo di scoprire, in fondo, chi muore prima e male; non guasta ripeterlo.

Le osservanze pratiche della stampa offset sono la climatizzazione degli ambienti, la stabilizzazione dell’energia elettrica, la costanza e la buona conservazione delle materie prime per garantire, non già la buona riuscita delle cure delle infermità, come negli ospedali, dove si rispettano grosso modo le stesse norme, ma la spersonalizzazione collettiva, il disagio psichico, tradotti, nella fattispecie, nella standardizzazione dei risultati grafici, a svantaggio del gratificante lavoro a misura d’uomo, dove è prevista la partecipazione emotiva diretta, epidermica, emicranica post-sollievo, psicologicamente salutare, a mo’ di Petrolini, che portava le scarpe strette per trovare ristoro quando se le toglieva; lavoro umano perché non ingerito dagli asettici cervelli elettronici.

Le macchine fotoriproduttrici devono essere esenti da vibrazioni e dal benché minimo pulviscolo, non parliamo dell’umidità… Questi sono i cervelli artificiali, delicati e vulnerabili come gli ammalati gravi, perciò possono perdere la testa e farci del male. Risentono urti e manipolazioni energiche. Ricordo, a proposito, le revisioni fatte a queste macchine, nel Napoletano, dopo il terremoto dell’80. I locali del computer (la fotocomposizione) devono essere al riparo dalle variazioni termiche, dai vapori chimici, dai campi magnetici. Mia nonna, buonanima, aveva più salute addosso, a ottantacinque anni. Bisogna riconoscere, però, che la vegliarda non consentiva la riproduzione elettronica delle immagini, con la possibilità di eseguire selezioni a tono continuo o retinate, mediante retini a contatto o retinatura elettronica. La poveretta, a mala pena, negli ultimi anni, riusciva a discernere il Vesuvio dal pennacchio, da una vecchia cartolina, ma il suo cuore ancora vibrava.

I fotoapparecchi laser, senza ombra di dubbio privi di cuore, consentono tutta la gamma di riproduzioni dell’immagine in negativo o in positivo. I documenti possono essere memorizzati e archiviati su supporto magnetico, utilizzati subito o trasmessi a distanza. I densitometri, o sistemi di controllo elettronico, eliminano ogni possibilità di errore sia nei lavori a tratto che nelle policromie. Gli assemblaggi, spesso, vengono eseguiti con l’ausilio di schemi anche prefissati in maniera da consentire la massima celerità del lavoro, a svantaggio della salute mentale. La cibernetica oggettualmente concretizzata trionfa vittoriosa, il cervello umano già viene parzialmente sostituito con successo, e superato in certe sue potenzialità, infatti le macchine non sbagliano quasi mai, intanto non soffrono, l’angoscia non rientra nel loro ordine d’idee. L’uomo le invidia per questo, vorrà emularle. Non è lontano il giorno, probabilmente, in cui il tipografo verrà digitalizzato perché sarà una macchina egli stesso, un robot dagli occhi vitrei, la voce metallica e cadenzata, e senza cuore.

Uomo, tu non servi più, altri uomini fabbricano quanti ne vuoi di te, meno costosi, poco esigenti in maniera di diritti. Uomo comune, ti mettono da parte, diventi improduttivo, inutile. Ah, povero Marx, quale utopia la tua! Poveri, bottegai tipografi, quelli onesti, irriducibili e incorruttibili, pressati in Campania da tutte le parti… Sopravviveranno col loro lavoro a misura d’uomo, trasognanti nella fragranza della poesia del piombo fuso, oltre che col proverbiale nutrimento di aria, sole e canzoni? Care, vecchie, fuligginose tipografie artigiane, addio! Non mi dispiace di chiudere in retorica. Le cose che sanno di latte materno, di corse nei prati, di candore ed onestà non sono esprimibili con linguaggi moderni, artificiosi, istrionici e fallaci.

Care botteghe disperse nelle viottole barrocciabili delle contrade rurali vesuviane, o negli anfratti oleografici dei centri storici, nel labirinto dei dedali della provincia prischiana; neri fondachi dell’arte nera, nei quartieri bassi dei paesini campani più antichi. Care botteghe adattate negli stambugi nascosti dei vicoli mai risanati della Napoli povera di delbalziana memoria, o nei tuguri addossati nelle traverse dei numerosi centri urbani abbarbicati alle pendici del Vesuvio, o quelli che vanno da Capo Miseno alla Punta della Campanella, o altri ancora dell’entroterra fino al Casertano, all’Avellinese e al Beneventano, addio!

Tipografie romantiche, prestigiose gemme nere della cultura partenopea, là nei sottoscala, lungo i chiassuoli vocianti, non carrabili, nei cortili, sull’aia, sotto balaustre o balconi addobbati di garofani e rose, tra portoncini, scalette e portelle, negli androni infossati sotto spicchi di cielo azzurro e bucato sciorinato al sole. Addio ! Le tecnologie industriali da multinazionale vi braccano, come i nazisti i poveri ebrei e, afferrate, vi sopprimono, come cose inutili, anzi dannose.

Care, vetuste, cupe botteghe tipografiche, con buona pace di Senefelder, dove i camici neri seraiani digrumavano la colazione meridiana con nient’altro companatico che peperoni arrostiti e cime di rapa, sbirciando dall’uscio della bottega con quel sorriso d’intesa tra colleghi, pacato ed ebete, le compaesane sulla strada, dagli occhi svampiti e il colorito roseo, sempre copiose di forme. Più in là la gaiezza puerile degli scugnizzi, eredi ideali dei lazzaroni, sempre alla ricerca di frivolezze e nullagini per essere felici, come i policromi rifili del tagliacarte, da utilizzare a mo’ di coriandoli in quella lunga carnevalata che è la loro esuberante giovinezza.

Il tipografo artigiano vecchia maniera muore con la Serao, con Marotta, con la Napoli oleografica, sostituita dalla nuova cartografia urbana di una città ed una provincia irriconoscibili, con i falansteri della 167 di Secondigliano, e di tante Cattedrali nel deserto dell’area campana; con gli agglomerati caotici, densissimi di popolazione, urbanisticamente irrespirabili, automobilisticamente infernali della provincia mai più addormentata; con l’ultimo baluardo dell’europeizzazione vesuviana, (il riferimento non riguarda l’Europa unita di fine secolo. N.d.r.) il Centro Direzionale che s’erge turrito e glaciale nella babele dei giorni nostri. Intanto anche l’industria tipografica robotica impera, e spersonalizza!

E’ destino che il popolo, altro che sovrano, in ogni epoca debba subire nuovi malesseri ? Il benessere economico, la corsa ossessiva per accaparrarsi la fetta di potere suggerisce l’illusione di una migliore qualità della vita, edonistica, forse, ma al di la dell’etica e dei sentimentalismi romantici e della morale di stampo religioso, il vero benessere, la salute mentale, quale società, quale reame, quale cultura l’ha mai garantita o la garantirà mai, ammesso che questo sia di loro pertinenza.

Il domani, infatti, viene deciso anche sulle nostre ginocchie di madri, dal nostro seno che nutre, dalla nostra capacità di sconfiggere la paura evitando, spesso, d’amarci nei figli e non credere di amarli, come diceva Nietzsche. Possibile che l’uomo non trovi una strada finalmente idonea per liberarsi dai suoi miraggi di salvezza atti a scardinare i timori del suo insoluto esistenziale, con reazioni difensive diversificate e contrapposte? Nonno Gutenberg, tu che sei nel cosiddetto mondo della verità, illumina l’umanità in questo senso, scagiona, per dirla coi settari, almeno i tuoi fedeli successori, noi tipografi del piombo fuso. Come? Con il danaro, ingenuo di un teutonico. Mandaci una quaterna ciascuno la settimana, diverremo una forza, vedrai. Rimanderemo i computer in Giappone, e rifaremo Napoli l’antica fetta di giardino del mondo. Useremo le stesse armi, il denaro contante. Vinceremo, vedrai. Se occorre il danaro, molto danaro, per ritornare un popolo d’amore, lo troveremo, come ai tempi dei riscatti baronali. Mandaci le quaterne, vedrai…

S’e fatto tardi, sono un po’ stanco, le palpebre si baciano ripetutamente ed ostacolano la visuale della tastiera. Il piombo è finito nel crogiolo. Fuori imperversa una procella. Quasi mi appoggio alla Linotype e mi addormento, ma è maniacale, mi ricorda Quasimodo alla fine del Notre Dame cinematografico. Ah, ecco, ora so da dove insorge la tristezza. Intanto scusami, nonno Gutenberg se ho sfruttato la tua grande scoperta non solo per campare, ma questa volta per esternare quasi arbitrariamente opinioni e gridi di speranza, nella consapevolezza che, in questo mondo di ominidi folleggianti, vi sono ancora milioni di persone a cui non viene dato nemmeno il diritto di rantolare: “Mi lasciano morire”, o peggio, “mi uccidono”. Questi autentici gridi disperati, legati a tutti i tipi di morte umana, comprese le condanne a vivere, vengono accolte dalla stampa essenzialmente per motivi di canard. Io mi vergogno nei confronti di questa gente che non può lasciar leggere nemmeno una parola delle loro legittime rimostranze. Io mi vergogno di aver detto tanto e loro nulla, mi vergogno pure di appartenere alla stessa specie di quella minoranza dannata che non già solo tappa loro la bocca, ma, quale muro di gomma, fa conto che non ce l’abbiano.

A margine del lavoro è doverosa una precisazione. Ricorre nel testo il tema dell’angoscia esistenziale non gia relativo all’Eros-Thanatos, ma all’interrogativo primario di finibilità umana in stretta relazione all’elaborazione culturale dell’assenza salvifica post-mortale. Prima di tutto questa angoscia è quasi mai esplicita, quasi sempre affiora in superficie in maniera del tutto traslata, attraverso, cioè, tutta la scala di toni comportamentali, dall’annichilimento passivo religioso, caratterizzato dal fanatismo intenso, all’esuberanza, all’aggressività socio-politica, fino alla delittuosità. La supposizione di un popolo vesuviano depresso è da interpretare diversamente. Il caratteriale del napoletano e vesuviano per estensione, è stato sempre e rimane prevalentemente reattivo-positivo: ironia, scaltrezza, esuberanza, umorismo e via dicendo. Tutto ciò che eccede, però, lascia denotare un movente di fondo, ipotizzato qui come meccanismo esorcizzante.

Non mi piace, comunque, chiudere in tono leopardiano, tanto meno sul filo della bravura, dell’onniscenza o, peggio, del messianico. Le teorie esposte, solo se condivise in parte o in toto da una sia pur minoranza predisposta all’analisi, vengano prese non come messaggio apocalittico irreversibile, ma come novello metodo di messaggio d’amore. Rovistare, cioè, tra i meccanismi inconsci allo scopo di rimuovere la negatività. Ed il mio popolo, da sempre incline all’ottimismo sarà il primo a sortire dalla conflittualità massificata di ampiezza planetaria. Realtà, le cui manifestazioni esteriori nessuno può confutare. Viva la vita, dunque, e viva l’amore in tutte le sue accezioni. L’unico utile esorcismo atto a sfatare il mistero della vita e della morte, riconoscendo la natura di spauracchio di quest’ultima. La stampa tipografica come meccanizzazione dell’alfabeto potrebbe darci una mano. Dovremmo, pero, prima bruciare tutte le biblioteche, con a capo questo libercolo che, ahivoi, avete appena letto.

Sono finiti i pani di piombo, non ce n’e più un grammo nella caldaia. Vediamo se riesco almeno a comporre la parola: FINE.

Pubblicato da salvogarufi

Nato a Militello in Val di Catania il 19/11/1951. Attualmente in pensione, ha insegnato nelle scuole statali stenografia, materie letterarie, storia dell'arte, storia e filosofia. E' autore di narrativa, teatro e saggistica. Ha collaborato con la Terza Pagina del "Secolo d'Italia". E' stato assessore alla cultura a Militello (CT) e consulente per la cultura nella Provincia di Catania.